(speciale Natale)
Il cammino della storia della salvezza si presenta
come paradossale, come è dimostrato dal fatto che una teologia biblica della
storia non può totalmente coincidere con
il divenire degli eventi in quanto tali.
Il Natale, infatti, non è il punto culminante di una
evoluzione, nè un ritorno ciclico ad una età primigenia, quasi un ritorno al
Paradiso terrestre. Quando si parla di “pienezza del tempo”, questa non può
essere intesa come un vertice geometricamente misurabile: è sempre l’intervento
divino, assolutamente libero e trascendente, che realizza lo splendore cantato
nel prologo di Giovanni, cioè il Verbo che si fa carne. Non appaia inopportuno
un parallelo, puramente analogico s’intende, con il possibile cammino delle
forme d’arte. Come segno offertoriale della creatività umana, l’arte stessa
riflette in un modo particolare quell’immagine e somiglianza che il Creatore ha
partecipato all’uomo e al suo destino. Una riflessione sul pellegrinaggio delle
forme artistiche può quindi aiutare una meditazione su quell’itinerario di fede
che culmina con l’intervento definitivo del Padre nella storia degli uomini: il
Natale.
L’idea di un cammino dell’arte, cioè di un procedere
verso una meta, può presupporre uno sviluppo ed una evoluzione. Bisogna però
liberare i due termini dall’illuministica concezione che le opere d’arte, come
pure quella che noi chiamiamo “storia dell’arte”, abbiano urgenza o interna
necessità di “andare verso il meglio”.
In altri termini: il pellegrinaggio dell’arte non prevede che, avvicinandosi ad
una meta che si crede simbolicamente significativa, ciò che un giorno si
realizzerà sarà “necessariamente” più qualitativo di ciò che lo ha preceduto.
Cioè: più bello e più artistico. Purtroppo, un’implicita prospettiva
evoluzionistica governa altrettanto impliciti giudizi: l’opera dei “primitivi”
deve liberarsi progressivamente da ambigue e “grossolane” forme per accedere
alla superna bellezza della perfezione classica, raggiunta, e non è un caso si
ripeta il termine classico, nel periodo “aureo” dell’arte greca. Ricordiamo gli
effetti di questa filosofia dell’arte: in un determinato periodo storico si è
raggiunta la perfezione degli equilibri formali, specchio degli equilibri che
devono presiedere la vita sociale. Allora ad un cammino verso una meta che si è
concluso in passato, deve corrispondere un “salto all’indietro”, cioè un
percorso a ritroso; ed anche gli edifici ecclesiastici, come pure le singole
rappresentazioni pittoriche e plastiche, troveranno misura, equilibrio e giusta
proporzione riproducendo schermi che manifestino il “pondus” dell’arte greca
nel suo periodo aureo. Altro cammino ambiguo e fascinoso è quello che percorre
la storia secondo ritmi biologici e che rivive romanticamente i cicli delle
stagioni. Strano pellegrinaggio questo, ma largamente accettato anche da chi
non ne conosce le premesse ideologiche: ad un periodo di fioritura e di
pienezza naturalistica, fa seguito la decadenza dell’autunno e del gelido
inverno, nell’attesa della primavera delle rinnovate intuizioni creative.
Questa visione ciclica della storia porta con sé il cammino non solo delle
forme ma pure del pensiero: è in questo contesto che anche l’arte cristiana
patisce indebite “decadenze”. Si pensi alla puntualizzazione delle forme
barbariche che, secondo un errato concetto di imitazione della bella natura,
vengono interpretate come rozze stilizzazioni senza “grazia né beltade”.
Si potrebbe tracciare un grafico sia del modello
evolutivo che di quello ciclico-biologico: nell’uno e nell’altro caso la
ricerca della meta non è la forma in se stessa, ma la semplice verifica
dell’intreccio di elementi che la compongono e che la qualificano come minore o
maggiore secondo la fase storica che sta vivendo. Storicismi di vecchia e nuova
data si alternano in una lettura predisposta non solo alla precomprensione ma
al pregiudizio. E’ penoso notare che la condanna generica del secolo che stiamo
vivendo, (incluso, per facilità di schemi immediatamente gratificanti, nella
categoria della “modernità”) abbia invece liberato il nostro sguardo da questa
incapacità di vedere e comprendere il cammino dell’arte. Recependo con stupore
la bellezza della “Deposizione” di Rosso Fiorentino a Volterra, ci si è accorti
dell’assoluta novità di quella “maniera” un tempo disprezzata. Ma se si osa ben
oltre, la meraviglia per gli spazi inediti delle formelle del portale di San
Zeno a Verona hanno abilitato l’occhio vigile e attento a non includerle in un
augusto cammino verso la pienezza di forma tardo medioevale. Il cammino
dell’arte, come hanno inteso felicemente Focillon e Pareyson, è costruito e
definito dalle forme in se stesse. La loro autonomia non è un’arte per l’arte
che può ricordare il limite dello stadio estetico descritto da Kierkegaard.
Mentre l’autocompiacenza della forma per la forma, isolando questa dalla
storia, ne fa un semplice abbellimento salottiero, la forma in sé autonoma “si
tiene in mano”, come direbbe Guardini. Ciò significa che è nell’opera d’arte
che la storia è incisa. Si pensi, come esemplificazione, all’”Annunciazione” di
Cosmè Tura nel Museo dell’Opera del Duomo di Ferrara. L’intuizione dell’artista
ha saputo unire elementi cari alla tradizione medioevale con alti di evidente
impatto fiammingo.
Roberto Longhi ha reso familiari i modi del Tura per
quest’opera di acculturazione e di inculturazione, constatando la novità e
l’assoluta irripetibilità di questa intuizione felicemente realizzata
nell’opera. All’interno della pala del Tura, gli studi iconologici hanno
interpretato sogni e simboli della cultura del tempo, compreso il fascino di
astrologiche inclusioni. La storia, quindi, nell’opera; e l’opera stessa
testimonianza storica a tutti gli effetti. Ma non sarebbe completo questo
cammino di lettura se si fermasse alla sola ricognizione dei segni e dei simboli
in essa presenti. E’ un giudizio globale invece che, come sguardo non ingenuo,
ci porta a dire che l’opera è “riuscita”, nel senso che nessun elemento le
manca per essere quella che è. In questa globalità di sguardo e di giudizio
abita lo stupore e la meraviglia per tale compimento. Allora il cammino
dell’arte si fa meno impreciso, soprattutto se liberato da preconcetti di
evoluzione o involuzione, da ciclici ritorni o avvertenze di decadenza
autunnale.
Certo, in questo cammino del quale è complesso disegnare
la mappa del percorso, l’evoluzione dei mezzi tecnici non viene negata; anzi,
questa conferma che da sola non è sufficiente per definire la qualità
dell’opera.
Se il Novecento che è giunto al termine ha vissuto
un’accellerazione stupefacente delle possibilità tecniche al limite della
virtualità, lo la velocità che ha caratterizzato il suo cammino non ha avuto
tempo di interiorizzarne le possibilità e nell’illusione di far coincidere la
progressione di mezzi con la qualità delle forme e delle opere.
Suo enorme pregio l’aver valutato e conservato il
cammino precedente anche attraverso il restauro che ridona primitivo splendore.
Il cammino dell’arte segue un ritmo che è di
formazione e trasformazione. Sono debitore da molti decenni, anche nell’uso di
alcuni termini, del pensiero estetico del Luigi Pareyson che, reagendo sia ad
una visione intimistica (o di pura espressione interiore) che ad una
prospettiva meramente sociologica delle forme intenzionalmente artistiche,
rivaluta l’antica tradizione della formatività che vede la contemporaneità
dell’operare personale dell’artista e della materia “in via di formazione verso
la riuscita”. Dal punto di vista dell’esperienza artigianale, formazione
significa un lento percorso di assimilazione e di “officina”: Botticelli e
Leonardo, pur nella già presente originalità del loro tratto pittorico,
dipingono due famosi angeli nel “Battesimo di Cristo” del loro maestro
Verrocchio. Esempio classico ma sempre efficace. L’originalità fiorisce nella
continuità. Il cammino è simile ad un tessuto nel quale l’imitazione del
maestro già suppone una metamorfosi. Nel “Tributo della moneta” di Masaccio
l’esemplificazione è eclatante: il maestro Masolino deve essere rimasto
stordito dalle novità dell’impeto realista dell’allievo. La Cappella Brancacci
al Carmine diventa così esempio di come l’originalità dell’impostazione
spaziale, l’individuazione psicologica dei soggetti rappresentati e la centralità teologica del Cristo
all’interno di un cilindro prospettico, non sono per nulla compromesse dal
vincolo generativo, cioè dalla bottega di Masolino. Nel cammino delle forme
intenzionalmente artistiche , alcune di esse manifestano una così prepotente
novità che sembra interrompere la tradizione per indicare vie totalmente
inedite. Si pensi, oltre al significativo esempio del “Tributo” masaccesco,
all’impatto popolare con “La morte della Vergine” del Caravaggio o con la
tragicità del non finito michelangiolesco nella “Pietà Rondanini”. Non c’è solo
un cammino delle opere, ma anche della fruizione e dell’interpretazione, anche se questo non
sempre è parallelo o simmetrico alle novità delle opere in quanto tali.
Modalità espressive di realismo apparentemente popolare possono creare disagi
nella continuità di una lettura abituata a sintesi plastiche più docilmente
accattivanti. Ma Caravaggio è ben consapevole di non essere fuori da un cammino
delle forme: la sua intuizione è prevalentemente luminosa, quasi giovannea
nello svelare il massimo di verità dei volti in contrasti di ombre che subitaneamente
evitano l’equivoco di un realismo di facile consumo crepuscolare. Tutto il
cammino dell’arte europea fino all’Olanda è conquistata da questo solco
tracciato. Sembra, per alcuni decenni, che questo solco diventi “canonico” e
quasi legge di perfezione. Ma già in Italia il “caravaggismo” assimila nuovi
elementi dalle Fiandre, come dimostrano scuole che, come quelle di Genova,
riescono ad intrecciare la luce caravaggesca a complesse scenografie simili
alle scenotecniche teatrali. Ma ogni vera opera riuscita non è il frutto
evolutivo che dal “basso” finalmente raggiunga vette insospettabilmente alte.
Il cammino è sempre, anche quando l’originalità appare a tal punto impetuosa da
non sopportare origini, di continuità e singolarità. In altri termini: pur essendo
complesso l’intreccio di relazioni evidenti nella riuscita forma d’arte,
l’opera non può esaurirsi in questa rete di rapporti. La sua compiuta ed
autonoma realtà è oltre gli influssi evidenti, i richiami ad una scuola e l’uso
di simbologie care ad un’epoca. Ciò vuol dire che il cammino interpretativo non
può fermarsi solo alle necessarie metodologie di approccio, anche se queste
hanno indubbia rilevanza per liberare lo sguardo da facili e spontaneistiche
letture. La meta, quindi, non è solo un orizzonte futuro assicurato in
anticipo: il suo divenire coincide con altre opere che ancora non sono, ma di
cui il presagio e, in un qualche modo, l’anticipo è presente nell’apertura
dell’opera stessa. In questo senso l’arte riflette, anche se solo per analogia,
il destino dell’uomo che troverà compimento solo nel mistero di Dio.
Franco Patruno
…-12-1999
Nessun commento:
Posta un commento