L’ultimo Caravaggio
Eredi e nuovi maestri
Napoli, Genova e Milano a confronto 1610 – 1640
Fino all’8
aprile 2018 le Gallerie d’Italia a Milano – Piazza della Scala, sede museale di
Intesa Sanpaolo, presentano la mostra L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri.
Napoli, Genova e Milano a confronto (1610 – 1640), a cura di Alessandro
Moradotti.
La mostra
costituisce un eccezionale approfondimento delle vicende artistiche
sviluppatesi nella città di Napoli, Genova e Milano a seguito della scomparsa
del Merisi, in un periodo storico-artistico diviso tra la rivoluzione devota al
naturale di Caravaggio e la nuova età colorata e festosa del Barocco. Il Martirio di Sant’Orsola (1610) di
Caravaggio, l’ultimo capolavoro del maestro che morirà poche settimane dopo,
sarà quindi il punto di partenza per un confronto con gli artisti del tempo,
divisi tra chi ne raccolse l’eredità e chi invece intraprese nuove strade.
Con il
patrocinio del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e
del Comune di Milano nonché la partnership dei Musei di Strada Nuova di Genova
e la collaborazione con l’Università degli Studi di Torino, l’esposizione L’Ultimo Caravaggio illustra in sette
sezioni un Seicento in cui gli sviluppi artistici sono esemplificati anche
attraverso le collezioni dei due fratelli Doria, Marcantonio e Giovan Carlo,
banchieri e mercanti di grande munificenza.
Le scelte di
gusto dei due genovesi rispecchiano le aeree di interesse economico in cui
rispettivamente si mossero. Da un lato Napoli, ricca di caravaggismo ed echi
classicheggianti, piazza preferita di Marcantonio, con opere, fra gli altri, di
Battistello
Caracciolo e José de Ribera, dall’altro Milano e
Genova, dove Giovan Carlo si volgerà verso le pitture “avanguardiste” per
l’epoca, comprando opere di Giulio Cesare Procaccini, Pieter Paul
Rubens, Bernardo Strozzi, Simon Vouet e molti altri maestri coevi
italiani ed europei.
Con L’ultimo
Caravaggio. Eredi e nuovi maestri si percorre un viaggio attraverso la pittura
del primo Seicento a Napoli, Genova e Milano, tra fascinazione e resistenza al
nuovo e rivoluzionario linguaggio del pittore lombardo. In questo percorso,
fatto di contrapposizioni, di contaminazioni e di rispecchiamenti con altri
grandi protagonisti di quel periodo, viene affrontato il tema della sfortuna e
della fortuna di un artista, partendo dal suo ultimo dipinto, il Martirio di Sant’Orsola. Questo
capolavoro di Caravaggio, che fa parte delle raccolte di Intesa Sanpaolo, è
messo a confronto con diversi e splendidi dipinti Procaccini, Strozzi, Rubens,
Van Dyck ed altri maestri dell’epoca, provenienti da musei nazionali e
internazionali.
Il Martirio di Sant’Orsola è un dipinto a
olio su tela (143 x 180 cm.) eseguito nel 1610 da
Caravaggio e conservato presso Gallerie d’Italia-Palazzo Zevallos Stigliano,
sede museale di Intesa Sanpaolo Napoli.
L’opera è di fatto l’ultima pittura del Merisi
essendo stata realizzata poco più di un mese prima della sua morte.
Commissionato dal principe Marco Antonio Doria (la cui famiglia aveva per
protettrice proprio Sant’Orsola), il dipinto fu eseguito dal Caravaggio con
molta rapidità, probabilmente perché questi era in procinto di partire per
Porto Ercole, ove avrebbe dovuto compiere le formalità per essere graziato dal
bando capitale. Ѐ ben noto che durante quel viaggio il pittore trovò la morte.
La fretta fu tale che la tela uscì dallo studio del pittore ancora fresca di
vernice e, non essendo perfettamente asciutta alla consegna, degli incauti
servi la esposero al sole, circostanza che fu all’origine della sua sofferta
conservazione.
L’opera fece ritorno a Napoli nella prima metà
dell’Ottocento, pervenendo per via ereditaria al ramo dei Doria dei principi
d’Angri e successivamente, circa un secolo dopo, ai baroni Romani Avezzano
d’Eboli, per essere infine acquistata, come opera di Mattia Preti, dalla Banca
Commerciale Italiana nel 1972.
Dopo alterne vicende attributive, la reale paternità
dell’opera e la sua fondamentale posizione storica saranno definitivamente
chiarite soltanto nel 1980, grazie al ritrovamento, nell’archivio Doria
D’Angri, di una lettera scritta a Napoli il 1º maggio 1610 da Lanfranco Massa,
cittadino genovese e procuratore nella capitale partenopea della famiglia
Doria, e diretta a Genova per Marco Antonio Doria, figlio del Doge
Agostino:<< Pensavo di mandarle il quadro di Sant’Orsola questa mattina
però per assicurarmi di mandarlo ben asciutto, lo posi al sole, che più presto
ha fatto revenir la vernice che asciugato per darcela il Caravaggio assai
grossa: voglio di nuovo esser da detto Caravaggio per pigliar suo parere come
si ha da fare perché non si guasti>>.
Ai travagli patiti nei secoli dalla tela – guasti,
ampliamenti, ridipinture, che ne avevano profondamente alterato la leggibilità
e la chiarezza iconografica – ha posto finalmente rimedio l’importante restauro
promosso dalla Banca e condotto tra il 2003 e il 2004 presso l’Istituto
Superiore per la Conservazione e il Restauro di Roma, che ha ripristinato
l’originaria coerenza dell’immagine, ora più fedele e prossima alle intenzioni
dell’autore. Tra le principali novità apportate da questo complesso intervento
nella lettura del dipinto occorre segnalare il recupero del braccio e della
mano tesa di un personaggio che tenta invano – con forte accentuazione nella
carica drammatica della scena – di arrestare la freccia scoccata dal carnefice;
inoltre la presenza, nel fondo, di un tendaggio, che suggerisce
un’ambientazione
dell’accampamento del re unno; infine le sagome di un paio di
teste dietro il piano della santa. Come sua consuetudine, il Caravaggio si
discosta dall’iconografia tradizionale di Sant’Orsola, generalmente ritratta
coi soli simboli del martirio e in compagnia di una o più vergini sue compagne;
sceglie invece di raffigurare il momento in cui la santa, avendo rifiutato di
concedersi al tiranno Attila, viene da lui trafitta con una freccia, caricando
la scena di un tono squisitamente drammatico. Il dipinto è ambientato nella
tenda di Attila, appena discernibile grazie al drappeggio sullo sfondo, che
funge quasi da quinta teatrale. L’intero ambiente, come consuetudine nei
dipinti caravaggeschi, è permeato da un complesso gioco di luci e ombre, che
tuttavia in quest’ultimo dipinto dell’artista sembra dar vantaggio più alle
seconde che le prime: è uno specchio del travagliato periodo che l’autore stava
vivendo nella parte finale della sua vita.
Il primo personaggio a sinistra è lo stesso Attila,
raffigurato con abiti seicenteschi; il barbaro ha appena scagliato una freccia
e sembra essersi già pentito del suo gesto: sembra quasi allentare la presa
dell’arco e il suo volto è contratto in una smorfia di dolore, quasi a dire
<<che cosa ho fatto?>>. A poca distanza da lui c’è Sant’Orsola,
trafitta dalla frecci appena visibile sul suo seno: ella sta piegando la testa
in quella direzione e con le mani sta spingendo indietro il petto come per
meglio vedere lo strumento del suo martirio.
Non sembra provare dolore,
piuttosto una disinteressata rassegnazione, ma il suo volto e le mani
bianchissime rispetto a quelli degli altri personaggi preludono alla sua
immediata morte. Infatti tre barbari, anch’essi in abiti moderni, stanno
accorrendo a sorreggere Sant’Orsola, ed essi stessi sembrano increduli di
fronte al gesto repentino e impulsivo del loro capo. Nelle fattezze di quello
di loro che si trova alle immediate spalle della santa, Caravaggio ha
raffigurato se stesso con la bocca dischiusa e l’espressione dolorante: egli
sembra ricevere la trafittura insieme a lei.
Maria Paola Forlani
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