Helen Cammock e Maria Osman alla Collezione
Maramotti
A Reggio Emilia,
alla Collezione Maramotti, si sono aperte due personali al femminile ponendo,
così, l’accento sulla profondità della ricerca delle donne, che sempre più
conquista un pieno riconoscimento.
Le protagoniste
di questo riconoscimento, configurate come mostre indipendenti, aperte entrambe
fino al 13 febbraio, appartengono a diverse generazioni ma provengono entrambe
dalla scena anglosassone.
Helen Cammock
(1970) è la vincitrice della settima edizione del Max Mara Art Prize for Women,
organizzato in collaborazione con la Withechapel Gallery di Londra, dove
l’artista britannica ha presentato il suo progetto prima di riproporlo in
Italia. Nel suo lavoro utilizza abitualmente diversi media, tra i quali ha uno
spazio peculiare la musica, che si integra all’immagine e ne accentua il tono
emotivo.
<<Che può
fare?>>, il progetto presentato ora, costituito da film, una serie di
incisioni, un fregio stampato e un libro d’artista, fa seguito all’esperienza
di una residenza di sei mesi tra Bologna, Firenze, Venezia, Roma, Palermo e
Reggio Emilia.
Partendo
dall’idea del lamento, individuato come sonorità intima, legata alla condizione
esistenziale delle donne nella storia, l’artista ha intrecciato racconti di
perdita e resilenza con composizioni musicali barocche di autrici italiane, per
riportare all’attenzione voci femminili nascoste, raccolte attraverso secoli e
in diversi contesti.
La ricerca di
Mona Osman (1992), nata a Budapest e attualmente attiva a Bristol, si
concentra, invece, su una pittura densamente cromatica, che gremisce dipinti
concepiti per entrare in dialogo l’uno con l’altro, attraverso le misteriose
figure, oniriche ed espressioniste, che ripetutamente vi compaiono.
Un immaginario
oscuro e fitto di segni, con riferimenti a diversi stili del passato,
rimescolati in una poetica personale e felicemente bizzarra. Se a un primo
sguardo si può pensare a certe espressioni dell’Art Brut, a un’osservazione
attenta si scopre la maestria compositiva, il controllo delle proporzioni e dei
rapporti tra i personaggi. Toni espressionisti percorrono i dipinti come spunti
da un passato spettrale. Così come spettrali sono i soggetti.
Ispirati a
esperienze personali, rielaborati in complesse scene allegoriche anche se non
narrative, questi personaggi deformi eppure a loro modo aggraziati sono sospesi
tra immobilità e azione. Impurità e doppiezza, ambiguità e mistero ma anche
tenerezza diventano spunti liberatori, onirici ma anche consapevoli della realtà.
Si tratta, come dice l’artista, di raffigurare una contemporanea “torre di
Babele”, di “costruire un sé ideale”, per tentativi e approssimazione, per
cercare una verità universale che si sveli attraverso il riconoscimento di
elementi evocativi di una concezione spirituale, potenzialmente ma
difficilmente condivisa. La Torre di Babele, emblema della superbia e dell’incomunicabilità
umana, è per lei espressione di quell’Absolute Self, che perseguiamo e ci tiene
prigionieri.
M.P.F.
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