Si
tiene al Bonnefantenmuseum di Maastricht la retrospettiva che indaga il lavoro
della tedesca Paloma Varga Weisz (Mannheim, 1966), creatrice di un lavoro che
fonde le sue abilità d’intagliatrice e ceramista con i media più avanzati. Una
sessantina di opere in mostra tra sculture e installazioni che contengono echi
di saghe nordiche e riferimenti alla storia classica. In rassegna anche lavori
inediti, come Gente
selvaggia, 1988,
esposta al pubblico per la prima volta.
Attraverso
un’iconografia articolata che mescola citazioni tratte dalla tradizione
artistica rinascimentale italiana e gotica tedesca, riferimenti psicanalitici,
memorie personali e una rilevante fascinazione del corpo umano – specialmente
quello femminile – l’artista crea complesse e poetiche installazioni capaci di
condurre lo spettatore in una dimensione contemplativa a metà tra sogno e
realtà.
Il particolare uso di tecniche desuete – tra le quali l’intaglio nel legno, la policromia e la ceramica – si combina alla componente autobiografica aggiungendo un ulteriore livello simbolico alla narrazione. Nonostante affondino in un tessuto che richiami episodi personali, denso di rimandi alla pittura e scultura del Rinascimento così come alla tradizione popolare e all’artigianato, le opere di Varga Weisz si fanno memoria di una sensibilità condivisa e collettiva dai riferimenti di matrice europea, capace di raccontare i livelli più intimi della nostra esistenza.
Il particolare uso di tecniche desuete – tra le quali l’intaglio nel legno, la policromia e la ceramica – si combina alla componente autobiografica aggiungendo un ulteriore livello simbolico alla narrazione. Nonostante affondino in un tessuto che richiami episodi personali, denso di rimandi alla pittura e scultura del Rinascimento così come alla tradizione popolare e all’artigianato, le opere di Varga Weisz si fanno memoria di una sensibilità condivisa e collettiva dai riferimenti di matrice europea, capace di raccontare i livelli più intimi della nostra esistenza.
Sono
rari gli autori contemporanei che hanno fatto esperienze artigianali come
Paloma Verga Weisz, abile artista del legno che ripiegò su una piccola scuola
d’intaglio sulle Alpi bavaresi dopo il rifiuto di ammissione all’Accademia d’arte
di Mannheim. Da quella frustrazione nacque la sua fortuna:<<Realizzai
presto che potevo tutto ciò che volevo con un semplice pezzo di legno>>.
Figlia di un artista – suo padre Feri era un pittore astratto -, s’interessò prestissimo alla storia dell’arte antica e moderna indagando l’intensità degli sguardi delle statue religiose, il bagaglio emotivo dei ritratti di Luca Cranach, le atmosfere sospese di Giorgio de Chirico. Presto trovò il suo linguaggio, attualizzato anche nell’uso dei media (è anche autrice di film e video). Il suo percorso, raccontato in mostra, include lavori come La donna dei boschi, 2001, dove una figura femminile di grandi dimensioni e due figure maschili molto più piccole, in piedi e sedute su due tronchi, rimandano alla società matriarcale contadina, e Bumped body, 2017, in cui l’artista ha dato alla sua figura ancestrale un equilibrio fra peso e leggerezza. L’artista allude sempre al rapporto tra memoria, rimozione e riemersione del ricordo. Tale combinazione diventa nelle opere di Verga Weisz espressione di una dimensione dell’essere frammentaria, in cui il corpo da “intagliare” si fa porzione, l’identità travestimento e la memoria intermittenza. Nella mostra troviamo riferimenti al padre dell’artista in un film muto, intitolato Deux artists, 1986. È proprio questo lavoro giovanile, e nel tema dell’identità in esso affrontato, una delle chiavi interpretative dell’intero percorso in mostra che Verga Weisz chiude con l’opera Lyng man (uomo disteso), 2014. Questa scultura diventa riflessione conclusiva sulla dimensione dell’essere scissi, mancanti e apolidi, condizione esistenziale dell’uomo e che oggi ritroviamo attuale più che mai nel dramma degli esodi di massa.
Figlia di un artista – suo padre Feri era un pittore astratto -, s’interessò prestissimo alla storia dell’arte antica e moderna indagando l’intensità degli sguardi delle statue religiose, il bagaglio emotivo dei ritratti di Luca Cranach, le atmosfere sospese di Giorgio de Chirico. Presto trovò il suo linguaggio, attualizzato anche nell’uso dei media (è anche autrice di film e video). Il suo percorso, raccontato in mostra, include lavori come La donna dei boschi, 2001, dove una figura femminile di grandi dimensioni e due figure maschili molto più piccole, in piedi e sedute su due tronchi, rimandano alla società matriarcale contadina, e Bumped body, 2017, in cui l’artista ha dato alla sua figura ancestrale un equilibrio fra peso e leggerezza. L’artista allude sempre al rapporto tra memoria, rimozione e riemersione del ricordo. Tale combinazione diventa nelle opere di Verga Weisz espressione di una dimensione dell’essere frammentaria, in cui il corpo da “intagliare” si fa porzione, l’identità travestimento e la memoria intermittenza. Nella mostra troviamo riferimenti al padre dell’artista in un film muto, intitolato Deux artists, 1986. È proprio questo lavoro giovanile, e nel tema dell’identità in esso affrontato, una delle chiavi interpretative dell’intero percorso in mostra che Verga Weisz chiude con l’opera Lyng man (uomo disteso), 2014. Questa scultura diventa riflessione conclusiva sulla dimensione dell’essere scissi, mancanti e apolidi, condizione esistenziale dell’uomo e che oggi ritroviamo attuale più che mai nel dramma degli esodi di massa.
M.P.F.
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