Modigliani e l’avventura di Montparnasse
Capolavori della collezioni Netter e
Alexander
Si è aperta a
Livorno l’esposizione Modigliani e
l’avventura di Montparnasse. Capolavori delle collezioni Netter e Alexander
(Museo della Città di Livorno aperta fino il 16 febbraio 2020), organizzata dal Comune di Livorno
insieme all’Istituto Restellini di Parigi l’esposizione, fortemente voluta dal
Comune di Livorno, ha l’obiettivo di far ritornare nella sua città natale
“Dedo” in occasione del centesimo anniversario della sua scomparsa 1920 quando
Amadeo Modigliani è ricoverato, incosciente, all’ospedale della Carità di
Parigi dove muore, due giorni dopo, all’età di 36 anni, di meningite
tubercolare malattia incurabile al tempo, che era riuscito, miracolosamente, a
sconfiggere vent’’anni prima.
Il giorno della sua morte Parigi e il mondo
intero perdono uno dei più grandi artisti di tutti i tempi. Con il suo stile
inconfondibile era riuscito a rendere immortali i suoi amici, le sue compagne e
amanti, i collezionisti e i volti ‘eroici’ dei figli della notte parigina.
Quando, nel 1906,
Amedeo Modigliani (Livorno, 1882 – Parigi, 1920), appena ventiduenne, giungeva
a Parigi, era già in possesso di una notevole cultura letteraria e artistica.
Usciva da una
famiglia ebrea per metà italiana e per metà francese, un’antica famiglia di
grandi tradizioni (la madre vantava una discendenza dal filosofo del ‘600
Baruch Spinoza), colta, di idee avanzate e umanitarie; il fratello Emauele
diventerà il noto deputato socialista e sarà uno dei punti di riferimento degli
esuli antifascisti durante la dittatura mussoliniana.
Amedeo, che, fin
da bambino, nel ristretto ambiente provinciale livornese, era detto
ironicamente
<<il
filosofo>>, pur avendo dovuto abbandonare a quattordici anni gli studi
classici perché malato di tifo (gliene derivò una lesione polmonare cronica),
aveva letto di tutto con accanimento ed entusiasmo, dal Petrarca al Leopardi,
da Ronsard a Shelley, a Baudelaire, a, Lautréamont, da Spinoza a Ibsen, a
Bakunin, a Verlain, a Carducci, a Wilde, a D’Annunzio. Amava in modo
particolare Dante: pare che conoscesse a memoria tutta la Divina Commedia che
si divertiva a recitare di fronte agli amici meravigliati, anche per le strade
di Parigi, con un certo esibizionismo che gli veniva imputato (e che certo
doveva avere, ma che non diventava mai chiassoso e volgare).
La sua cultura
artistica spaziava soprattutto dall’arte gotica italiana a quella
rinascimentale, con riferimenti (oltre a Tino da Camaino) a Simone Martini e a
Botticelli. Da essi apprende il significato della linea di contorno che
definisce l’oggetto rappresentato, lo costruisce e, al tempo stesso, è di per
sé mezzo espressivo. Da essi apprende anche l’allungamento delle figure che non
è soltanto necessario per la continuità lineare, ma come strumento di
idealizzazione. E forse, da questo punto di vista, può essere stata importante
anche la consacrazione delle deformazioni innaturalistiche del manierismo: si
pensi, per esempio, alla Madonna dal
collo lungo del Parmigianino,
che aveva certo visto agli Uffizi durante il suo soggiorno a Firenze.
Aveva iniziato i
suoi studi pittorici sotto la guida di Guglielmo Micheli, che era stato allievo
di Fattori. Poi dopo essersi recato a Capri (in convalescenza per il
riacutizzarsi della tubercolosi, 1901), Napoli e Roma, si iscrive alla
<<Scuola Libera del Nudo>> dell’Accademia di Firenze (1902) e
frequenta lo studio di Giovanni Fattori che convalida la sua naturale
inclinazione al disegno e del quale condivide le sue idee sociali.
Dal 1903
frequenta la <<Scuola del Nudo>> all’Accademia di Venezia. Sono
anni di studio intenso che gli forniscono la preparazione di base tecnica e
storica dalla quale potrà sviluppare la sua personalità. <<Da Venezia –
scrive all’amico Oscar Ghiglia – ho ricevuto gli insegnamenti più preziosi
della mia vita>>. Al disegno costruttivo fiorentino si è aggiunto il
colore veneto.
Adesso è maturo
per recarsi a Parigi, entrando nel vivo dei problemi artistici contemporanei
(1906). Appena giunto, va ad abitare a Montmartre, vicino al Bateau-Lavoir, punto
d’incontro di Picasso, di Jacob e di tanti altri; poi a Montparnasse nello
stesso luogo ove hanno lo studio Soutine e Chagall.
È un momento fervido di novità, di
discussioni, di creazioni. L’anno prima, al Salon d’Automme, è esplosa la
fiammata dei fauves. Nello
stesso 1906, poco prima, dell’arrivo a Parigi di Modigliani, ad
Aix-en-Provance, dove si era ritirato in solitudine, muore Cézanne; la mostra
postuma parigina del 1907, rendendone evidente la grandezza, è una lezione per
tutti. Il 1907 è anche l’anno delle Demoiselles d’Avignon, mentre nel 1908 si parla per la prima
volta di cubismo.
Tutto ciò non è
estraneo a Modigliani: dai fauves apprende la carica espressionista del
colore, e da Matisse in particolare il ritmo della linea sinuosa, da Cézanne e
dal cubismo la forza costruttiva. Ma Modigliani non aderisce a questi correnti,
né, successivamente ad altre.
Quando Severini
gli proporrà di sottoscrivere il Manifesto
futurista otterrà un
rifiuto. Nulla in Modigliani è vicino al futurismo, né la volontà di
distruggere il passato (si pensi alla sua raffinata cultura), né la tesi della
perpetua mobilità.
È importante anche l’incontro con
Brancusi, il grande scultore rumeno e, più tardi, con un altro scultore polacco
Lipchitz. Modigliani non è soltanto pittore; è anche scultore, anzi scultore più
che pittore: la sintesi volumetrica è scultorea anche in pittura, il disegno
stesso ha la definizione dello scultore.
Nascono infatti
negli anni intorno al ’10 alcune mirabili sculture, un tempo poco note, sono
teste, quasi in forma di erme, fortemente stilizzate, allungatissime
e sottili, dal profilo tagliente come la prora di una nave, oppure più compatte
e costruite, ma altrettanto stilizzate. Molti disegni concorrono a raggiungere
questa estrema semplificazione.
Ci si chiede
quale contributo può avere dato a Modigliani la conoscenza della scultura
negra, così usuale in quegli anni a Parigi fra gli artisti di avanguardia.
Certo un contributo notevole; non però come in Picasso, per la ricerca della
forza primitiva, quanto piuttosto per l’alta stilizzazione. Ma ancora più della
scultura negra, sono visibili contatti con quella Khner e con quella arcaica
greca.
Per scolpire,
Modigliani, non potendo acquistare il materiale, perché troppo povero, era
costretto a rubare le pietre dei cantieri edili e le traversine della
metropolitana.
Ben presto però
(1914-1915) dovette smettere. La salute declinante non gli permetteva di
sostenere lo sforzo fisico necessario né egli concepiva altro tipo di scultura
che quella pietra, con lo scalpello, quella eseguita, come avrebbe detto
Michelangelo, <<per forza di togliere e non via di porre>>.
Da questo momento
Modigliani intensifica l’attività pittorica, che non aveva mai cessato. Nasce
in pochi anni la serie di mirabili ritratti.
Non sono ritratti di committenti,
persone estranee conosciute occasionalmente; sono ritratti di persone che gli
sono state vicine, che lo hanno capito, che lo hanno amato, che hanno sofferto
insieme a lui, solidamente costruiti con energica linea disegnativa e con gli
stacchi tonali del colore <<accentuava un colore puro e subito lo
accompagnava con una zona neutra per suggerire l’accordo tonale>>, dice
Lionello Venturi, aggiungendo che <<sentiva la necessità di non
rinunziare alla terza dimensione e di seguire tutta la linea sulla
superfice>>.
Modigliani,
insieme ad alcuni altri (Soutine e Utrillo, per esempio) è uno di quelli che
furono definiti i peinters
maudits (<<pittori
maledetti>>), uno fra gli ultimi a credere nella teoria romantica del
<<genio>>, l’artista che vive in una dimensione diversa, pronto a
bruciare anche l’esistenza nella febbrile ricerca dell’ideale: <<noi
abbiamo dei bisogni diversi che ci mettono al di sopra – bisogna dirlo e
crederlo – della loro morale>>. E del resto aveva più volte ripetuto agli
amici di desiderare <<una vita breve ma intensa>>.
M.P.F.
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