INTRVISTA di don Franco Patruno ad Ermanno
Olmi per l’Osservatore Romano
"PURTROPPO OGGI CI
COMPIACIAMO DI ESSERE ARTISTI PIU' CHE UOMINI"
Ai primi tornanti per salire ad
Asiago ho la sensazione che non riuscirò ad essere puntuale con Ermanno Olmi.
L'intervista è per le ore 17 e potrei tentare accelerazioni avventate, le
curve, però, non mi permettono di essere quel driver che ho sperimentato solo nel dormiveglia. La casa è molto
bella e razionale ed anche i quadri sono di ottima scelta. Olmi mi fa accomodare
sul divano vicino ad un dipinto di Pizzinato tra i più astratti ed aerei.
Olmi mi parla subito della
folgorazione avuta di recente alla Cappella Sistina, anche se "…la visita
che feci negli anni Sessanta era più raccolta e meno rumorosa. Ora tutto è
palese, come l'aveva voluta Michelangelo nel momento in cui ha dato l'ultima
pennellata".
Accenno alla perfezione del
restauro, ma Olmi mi "sposta" a Padova, agli Scrovegni: "Giotto,
per me, è il più grande genio della pittura. Lo amo moltissimo, come amo
Turner". Capisco che il regista desidera arrivare al nocciolo
dell'argomento per osservazione paradossali: "A Giotto non interessa più
la pittura perché questa, per lui, è un'opportunità unica di raccontare…" La sottolineatura,
naturalmente, è mia. Continua: "Giotto non è stato ingabbiato
nell'autocompiacimento dell'arte. Trovo sublime Michelangelo nei suoi tormenti,
quando avverte che con la scultura non può più dire niente". Olmi fa
alcune pause di interiorizzazione tra un pensiero e l'altro. Lo sguardo sembra
cercare risposte in un punto immobile dello spazio e le trova: "La
scultura diventa testimonianza del suo travaglio. La Pietà Rondanini è qualcosa
di incredibile…Bisogna arrivare a novant'anni…Purtroppo oggi ci compiaciamo di
essere artisti più che uomini". Prendo al "volo" l'esempio di
Giotto tentando un parallelo con il suo cinema ed Olmi accetta volentieri la
sfida: "Io mi sono avvicinato a Giotto quando mi sono accorto che non è
stato il cinema che mi interessa, quanto il mio rapporto con il mondo". Il
regista distingue poi tra la nobile attitudine alla "confezione",
necessaria me fuorviante quando è fine a se stessa: "Rossellini non è mai
stato un cineasta compiaciuto della propria capacità di fare cinema. Altri,
invece, sono straordinariamente bravi nel confezionare la loro opera ma, a
volte, la confezione serve ad ovattare, se non a nascondere, i veri
contenuti". Avverto che per lui il rapporto tra arte e vita è essenziale
ed allora il ragionamento si fa sottile: "Qualche volta il vero artista mette
in pericolo se stesso, si espone come persona". Esco allo scoperto pure
io, accennando a forti personalità che, come i poeti maledetti o Nicolas De
Stael, hanno vissuto a tal punto la coincidenza tra arte e vita da arrivare
all'autoannullamento per mancanza di parole. Olmi risponde con parole
soffocate, quasi sentisse su di sé il peso di tanti altri: "L'uomo, quando
si riconosce come persona, non può suicidarsi. Se invece si riconosce come
artista può arrivare a farlo. Bisogna accettare il fallimento dell'artista:
nell'istante prima di morire c'è sempre una frazione in cui la persona pensa
che è un discorso che comincia, non che finisce". Mi vien da pesare alla
morte del Santo bevitore della "Leggenda", che Olmi ha tratto da
Philip Roth, ma il regista "slitta" su Bresson: "Citando Bresson
ne "Il diavolo, probabilmente", quando il ragazzo suiicida si fa
sparare dall'amico, un attimo prima che l'altro spari, dice "Stavo
pensando…" ma l'altro spara!". Già, quell'attimo prima quando non è più possibile tornare indietro. Il
colloquio si concentra sulla sofferenza fisica. Ricordo ad Olmi la splendida
intervista di Formento a Padre David Maria Turoldo nell'ospedale di San Pio X
dei Camilliani di Milano. Olmi si illumina. Erano molto amici e Padre David gli
era stato molto vicino nei tragici tempi dell'ictus cerebrale. Trascrivo per
intero: "Io non credo che Dio voglia essere amato più della vita…Forse
dico un'eresia, ma Dio non può essere geloso della vita! Anch'io sono stato
molto malato e mi trovavo in una duplice disperazione morale e fisica.
Constatavo di non poter più disporre del mio corpo e di trovare nella malattia
un'inibizione totale di quello che ero stato sino ad allora. Sono arrivato ad
invocare la morte. Mia moglie mi assisteva. Un giorno, mentre mi portavano per
la fisioterapia, decisi di rifiutare ogni cura. Ricordo che, con le lacrime
agli occhi, dissi a Loredana: -voglio morire…fammi morire…-. E lei: -, ma se tu
muori, cosa faccio io?- Così ho deciso di continuare a vivere, per lei, per la
vita, ma non soltanto mia, ma anche sua. Ho detto a degli amici sacerdoti: -Dio
mi ha fatto vivere quando mi ha fatto capire che dovevo vivere per lei, per mia
moglie-. Rendo onore a Dio, perché mi ha posto accanto ad una persona da amare.
Quando uno sente di non interessare più a nessuno si lascia andare".
Lascio uno spazio di silenzio
perché mi accorgo che siamo entrambi emozionati. Olmi, però, continua nel
ricordo di Turoldo: "Per Davide deve essere stato così: il suo amore a Dio
era anche amore alla terra, alla vita, alle cose, alle persone. Rifiuto gli
eccessi della rinuncia malintesa al mondo
come l'eccesso opposto. Penso a S. Antonio di Lisbona, poi trapiantato a
Padova, che diceva: -Io ho solo un grande debito: il debito dell'amore. Pagato
questo debito più nessuno mi venga ad importunare! -".
Potrei continuare sull'argomento
ma, tenendo conto dei limiti di spazio dell'intervista, torno al cinema con la
"Leggenda del Santo bevitore" e alla contrapposizione che Olmi
continuamente fa tra volti pieni di vita, come quello della scuola alberghiera,
ed i commensali in "Lunga vita alla signora". Olmi parte da lontano,
ricordando i tanti volti dei suoi 40 documentari prima dei lungometraggi.
"Alla Edison mi avevano
incaricato di documentare. Ho cominciato a ventun anni: filmavo i
cantieri…". Poi si ferma ed approfitto per domandare se "Il tempo si
è fermato" è stata una committenza.
Sorride: "E' un po' una
marachella! Avevo detto ai miei dirigenti che andavo a fare un documentario,
invece avevo già scritto il mio copione…Tra i tanti documentari c'è anche
"Manon finestra 2" con il commento di Pier Paolo Pasolini, il quale
scrisse la prima sceneggiatura con Bassani. Con Pasolini siamo sempre rimasi
amici. Lui ha scritto un magnifico saggio sul film poetico e su quello di
prosa, prendendo come esempio "Il tempo si è fermato". Poi ci
trovammo a Venezia, io con "Il posto" e lui con
"Accattone"".
Accenno al fatto che la
"marachella" è risultata positiva per la committenza e che documentare non è un atto
"freddo" e "neutrale". Continuiamo ricordando comuni amici
degli anni "caldi" dei "Cineforum", i dibattiti sullo
strutturalismo, Padre Covi e Taddei. A proposito di Padre Taddei, Olmi ricorda
un particolare simpatico: "Quando venne a vedere "Il posto" sul
terrazzo di casa mia a Verona, dove avevo la moviola, vide il film a rulli e
diceva: no, -scuotendo il capo- il film non ha struttura". Lo diceva,
naturalmente, con amore e continua: "Io ero a Milano e frequentavo il San
Fedele; ero molto amico di Padre Taddei,
ma non facevo parte del suo gruppo". Riguardo agli anni Sessanta, Olmi
parla volentieri della critica cinematografica e delle ideologie; racconta di
come lui stesso sia stato "ingabbiato" da formule tipo
"intimista cattolico". Gli dico che sono sempre stato contrario a
facili euforie in anni di contrapposizione, quando domandare "è dei
nostri" era d'obbligo. Ho sempre sentito come "nostri" molti
autori un po' fuori dalla cerchia: Bergman, Truffaut, Rohmer…Olmi si ritrova
subito: "Pensi che la mania delle contrapposizioni, che ci faceva dire di
un'opera "dove la collochiamo?", portò a valutare "L'albero
degli zoccoli" come un film cattolico in Italia e marxista in
Inghilterra!" Accenno ai suoi film specificamente religiosi, come "E
venne un uomo" dedicato a Giovanni XXIII, che gran parte della critica
recensì piuttosto negativamente.
"Durante la lavorazione ero
stanchissimo…ed ho tagliato senza pietà! Ma Pasolini, invece, scrisse cose
straordinarie sul film, soprattutto la parte dell'infanzia, che lo coinvolgeva
molto sentimentalmente. Ero commosso quando vidi il film accanto a Paolo VI: il
Papa ne rimase molto toccato, ed io fui commosso della sua commozione. Rigoni
Stern, che abita qui vicino, mi ha detto di averlo rivisto alla televisione e
che aveva ribaltato il giudizio di allora".
Con la scheda dei suoi film
sott'occhio, gli dico la mia predilezione per "Un certo giorno",
"Durante l'estate" e "La circostanza" ed Olmi collega le
tre pellicole mettendo in evidenza le contrapposizioni tra generazioni e classi:
"La realtà dei figli non era più quella dei padri: il figlio dell'operaio
diventa studente. Nasce la nuova borghesia. Con "I fidanzati"
comincia il rampismo. Visconti capì
il risvolto politico di questo film, e disse che era il film più bello visto in
quell'anno. Un aristocratico come lui ed intellettuale comunista!" Olmi
continua a collegare i film evidenziando come una strana circostanza (come, ad esempio, un incidente stradale), può mutare e
dare nuova percezione della vita in chi è totalmente assorbito dall'escalation
del potere. Alla mia osservazione su due apparenti nostalgie, quella di
"Padre padrone" dei Taviani e "L'albero degli zoccoli",
Olmi risponde prontamente, come infastidito dalle letture tendenziose:
"Non c'è nostalgia da parte mia, anche se alcuni gruppi cattolici hanno
tentato di farmi apparire un preindustriale. La nostalgia è nei borghesi, che
tornano in campagna in modo sbagliato, vivendo male la loro nostalgia, che è
una insoddisfazione di come sono…ma non riescono nemmeno ad essere come erano".
L'occasione della prossima uscita
de "La Bibbia" e dei capitoli della Genesi, ci porta a parlare della
religiosità e dei film chiaramente ispirati alla Parola di Dio. Curiosa la sua
risposta, paradossale come una poesia di Turoldo: "L'uomo è naturalmente,
istintivamente religioso. E' come l'amore: a volte l'amore è un ingombro! Ce ne
libereremmo volentieri! Qualche volta faremmo a meno di soffrire per amore, ma
non c'è niente da fare!" Sorride perché apprezzo il paradosso. Riguardo a
"La Bibbia" mi dice che il testo è stato interamente rispettato:
"L'unica cosa che ho aggiunto sono alcuni salmi che ho messo accanto a
delle situazioni che ritenevo più idonee a tale accostamento. Anche qui, come
"Lungo il fiume", la parola è la ragione dell'opera".
Mi accorgo che sono passate quasi
due ore e che Olmi è leggermente affaticato. Mi scuso, ma ne approfitto per
un'ultima domanda su Fellini. Non potevo pensare ad un finale così gradito:
"Eravamo amici. Quando venne a Milano per "La dolce vita", Gadda
Conti gli ha fatto vedere "Il tempo si è fermato". Fellini è venuto
in proiezione e ne è rimasto molto colpito. Uscendo, lo salutai con un -Buon
giorno, Maestro!- ma lui, con la sua voce ironica e leggermente cigolante, mi
disse: "Ma chiamami fratello, chiamami fratello!"
Franco Patruno
2-8-1994 Osservatore Romano
Nessun commento:
Posta un commento