Dancing with myself
Punta della Dogana
La rassegna Dancing with myself, aperta fino al 16
dicembre a Punta della Dogana, nelle intenzioni dei curatori Martin Béthenod e
Florian Ebner vuole riconsiderare il genere dell’autoritratto, ritenendolo ora
rappresentazione di sé, trasversale a ogni pratica estetica, in cui l’immagine
stessa dell’artista non è più soggetto dell’opera ma strumento di sfide
sociali, identitarie, politiche, sessuali. Una mostra che si fa forte non solo
della vasta e aggiornata collezione Pinault, ma anche di prestiti del Museum
Folkwang di Essen con cui ha condiviso il compcept espositivo.
Crisi d’identità. La forza della mostra sta tutta nel
tentativo di sviluppare un tema specifico contando sostanzialmente sulle
caratteristiche interne di due collezioni museali di sé cospicue e articolate
(quella della collezione Pinault e del Museum Folkwang di Essen), che hanno
lavorato in tandem senza perciò dover giustificare l’apparente mancanza di
alcuni artisti (si pensi a Luigi Ontani, Carolee Schneemann, Roman Opalka,
Marina Abramovič, Francis Bacon, perfino a Marcel Douchamp, il cui posto è
adeguatamente occupato dalla surrealista Claude Cahun) che hanno quasi
esclusivamente lavorato su temi analoghi, quali la rappresentazione fluida,
molteplice, alienata e multiforme del sé as
an artist. In fin dei conti la poetica del travestitismo, dell’ambiguità
sessuale e della molteplicazione dell’Io è splendidamente rappresentata in
mostra da Cindy Sherman, Roni Horn, Urs Lüthi e Marcel Bascoulard.
Un progetto
espositivo per lo più incentrato su fotografie, “debole” nel senso di un
pensiero postmoderno e quindi proprio per questo, dalle sue cuciture non
forzatamente o ideologicamente rifinite, emerge una verità essenziale degli
anni Settanta in poi (questo è infatti il periodo cronologico più pregnante e
significativo, a partire da Bruce Nauman e Arnulf Rainer) è la definizione
stessa di artista a essere entrata in crisi.
I racconti fotografici di Cindy
Sherman, che senza dubbio appare come uno snodo centrale per numero di lavori e loro pregnanza, dicono
oggi in tal senso molto di più di quello che probabilmente era intuibile a
partire dalla metà degli anni Settanta: l’artista, in questo caso donna, con la
sua opera attua fin da allora una strategia di recupero di sé, adattamento ai
processi di falsificazione, alienazione e ibridazione dei generi che hanno
caratterizzato l’epoca poststorica quale la nostra e di cui sono stati sintomi.
Se però
celebri serie fotografiche come Murder
mystery people, Untitled film still o le più recenti Untitled sono in buona parte già viste e conosciute, il video del
1975 Doll clothes si presenta come un
fondamentale e piccolo capolavoro post-strutturalista e di gender.
Fotografia e Ready-made. Ė da qui forse che si deve partire per
capire l’ampio uso in mostra di fotografie e di video? Del resto è proprio il
mezzo tecnologico e meccanico che rende il sé estraneo a se stesso, una sorta
di ready-made, un oggetto già esistente che può essere inquadrato, messo in
posa da altri o dallo stesso autore che si pone di fronte al proprio sguardo
con occhio estraneo. Nel caso di Rono Horn (New York, 1955) il sospetto diventa
certezza: dell’artista americana si presenta una serie di trenta ritratti
fotografici (intitolati a.k.a, ovvero
also known as) scattati da bambina
fino all’età adulta, molti dei quali evidentemente, se non tutti, non
realizzati da lei ma da amici e familiari: un’opera ricomposta e assemblata
quasi per riappropriarsi di sé nel caso di rappresentazioni fatte da altri.
Un io frammentario. Il solipsismo delle azioni inutili e
circolari di Bruce Nauman (Fort Wayne, Indiana, 1941), il corpo fotografico
frammentato di John Coplans (Londra 1920 – New York, 2003), la personificazione
di Marcel Bascoulard (artista francese boder line, nato a Vallenay nel 1913 e
assassinato nel 1978) negli abiti di un noto travestito senzatetto di Bouges,
il degrado e la povertà degli scatti documentaristici dell’americana La Toya
Ruby Frazier (Braddock, Pennsylvenia, 1982), che intende le sue immagini come
performance politica e autobiografica, formano un immaginario impossibile da
ricondurre a una linea coerente e unitaria, proprio perché la personalità e
l’identità contemporanea sembrano essere saltate per aria in maniera
irrimediabile, a volte drammatica come avviene in Nan Goldin (Washington,
1953), ritratta livida per i maltrattamenti ricevuti dal proprio partner,
oppure orrida, come nel celebre With dead
head del 1991 che inquadra Damien Hirst (Bristol, 1965) all’età di sedici
anni che in un obitorio posa sorridente al fianco della testa mozza di un
cadavere.
Il corpo come scultura.
In Dancing with myself non sembra esserci
via di uscita da una sorta di caduta del soggetto in vicoli ciechi,
autolesionisti, malinconici, narcisisti e perfino catatonici, come nel video Path free del 1995 di David Hammons
(Springfield, 1943) che prende a calci un secchio per le strade di New York
(“calciare il secchio” significa in inglese morire). L’unica a danzare
letteralmente è la francese Lili Reynaud-Dewar (La Rochelle, 1975) che, nuda e
dipinta di nero, balla dentro le sale del Centre Pompidou e dell’atelier di
Brancusi, ma il suo danzare è monologante, privo del minimo eros o di qualsiasi
slancio dionisiaco: piuttosto siamo al limite di un ossessiva e disturbata
isteria.
La ricerca artistica avviata negli anni Settanta sul tema
dell’identità e della trasformazione del sé sembra non solo anticipare ciò che
faranno più tardi con intenzione umoristica artisti come Maurizio Catalan (nato
a Padova nel 1960), presente con We del
2010, un doppio autoritratto in scala sul letto di morte a imitazione di
un’opera di Gilbert & George) o perturbante come nel caso di Robert Gober
(Wallingford, Connecticut, 1954) con i suoi pezzi anatomici di inizio anni
Novanta straordinariamente realistici, ma già esaurirne ogni sviluppo.
Appunto basterebbe osservare quanto tra 1974 e il 1976 Gilbert &Giorge nella serie Cherry blossom, Dead boards abbiano non solo articolato la questione dell’identità doppia e omossessuale, ma anche il corpo come scultura e come icona della banalità, al cui confronto i monumentali autoritratti di Rudolf Stingel (Merano, 1956) realizzati tra il 2006 e il 2007 sembrano rifarsi nostalgicamente, per pixelatura, riduzione stilistica e impostazione frontale, ai dipinti fotografici e iperealisti americani degli anni Settanta. La mostra si apre con una grande tenda di perline colorate di Felix Gonzàles-Torres (Guàmanro, 1957 – Miami, 1996), ispirate a globuli bianchi e rossi alludenti all’organismo colpito dall’Aids, come anche quello di Martin Kippenberger (Dortmund, 1953 – Vienna, 1977), che si ritrae di spalle o si fa ritrarre come fosse un manifesto pubblicitario. Al di là delle perline si intravedono le candele della scultura in cera di Urs Fischer (Zurigo, 1973) che consumano lentamente l’autoritratto a figura intera seduto a un tavolino, mentre in lontananza un altro artista osserva la scena: Alighiero Boetti (Torino 1940 –Roma 1994) che nella fontana in bronzo del 1994, a sua immagine e somiglianza, raffredda con un tubo di acqua la testa fumante per via del tumore che lo porterà di lì a poco alla morte. Malattia, morte, sparizione, temi definitivi trattati con ironia, levità, senso ludico, a edulcorare ed esorcizzare sofferenza e dolore, tragedia e paura.
Corpo inerte. L’arte contemporanea per come si
presenta nella mostra di Punta della Dogana non sembra voler proporre una
immagine positiva di ciò che significa o ha significato negli ultimi cinquanta
anni essere artista; non sembra volerne tratteggiare una del tutto negativa,
con tante opere che non si fanno prendere troppo sul serio (ad esempio il
bronzo incrostato di Damien Hirst, residuo della precedente mostra Treasures from the umbelivable), né una
naturale (la violenza esplicita e gratuita delle immagini del francoalgerino
Adel Abdessemed).
E dunque?
Non c’è nessuna soluzione, nessuna risposta, piuttosto una riduzione del corpo
dell’artista a “materia prima” (come afferma uno dei curatori in catalogo),
materia grezza, anzi un corpo inerte che ha esautorato, digerito, decostruito
ogni possibile tipologia identitaria proprio col rimetterla continuamente in
gioco, travestendola e camuffandola, finendo però per dimenticare che la
questione dell’identità, pur estremamente fluida, comunque la si metta, tornerà
sempre a pretendere il suo posto fisso a tavola.
Maria Paola
Forlani
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