ALLA RICERCA DELLA SPERANZA,
TRA ROVINE DI IMPERI E FOLLIE UMANE
Gian Luigi Zucchini
A margine della Pasqua, una richiamo storico alle religioni
e alla fede, nell’attuale periodo in cui sembra prefigurarsi una nuova e
incerta realtà, un futuro denso di sommovimenti culturali, di popoli, idee, comportamenti che provocano
timori e paure, tra l’emergere sempre più frequente di profeti di sventura, di
idolatrie, utopie, false speranze e impossibili ritorni.
Dopo la morte di Gesù,
delusioni e speranze emergevano nel ‘piccolo gregge’ che ne aveva ascoltato
l’insegnamento. L’atteso da secoli, colui che è fonte di salvezza, aveva o no
portato un messaggio universale per distruggere il male?
L’idea di Colui che porta salvezza, diffusissima in quasi
tutte le culture antiche. era da sempre profondamente radicata nella coscienza
umana. Lo aspettavano i popoli iranici, che nella figura di Mithra, il dio
della luce che dissipava l’oscurità e vedeva tutti i misteri dell’universo,
avevano identificato Colui che sarebbe dovuto tornare alla fine del mondo per
giudicare l’umanità risorta. Nella lontanissima India oltre cinque secoli prima
di Cristo era apparsa la figura di Mahavira, ultimo dei ventiquattro salvatori,
che aveva predicato la salvezza attraverso la liberazione dal ciclo della
reincarnazione, per raggiungere l’illuminazione. Così pure Buddha, vissuto
all’incirca nello stesso periodo, incarnazione di colui che porta la salvezza
attraverso la misericordia. E ancora Vishnu, che nell’incarnazione di Kalki,
dovrà redimere l’umanità dal male e dal peccato. Infine, tra i molti altri
ancora, Glooskap, di cui gli indiani Abuaki, originari del nord-est americano,
attendevano il ritorno per la salvezza della loro gente.
Ma nei tempi successivi alla morte di Cristo, molti
avvertivano che gli dei dell’Oriente e quelli dell’Occidente stavano morendo, o
restavano simulacri intorno ai quali si alimentava un crescente scetticismo. E
in Palestina particolarmente, i riti previsti e puntigliosamente eseguiti, la
liturgia minuziosamente osservata, avevano distolto da una reale partecipazione
molti sia modesta che di nobile condizione.
In questa situazione di incerta perplessità e di
crescente noncuranza, l’irrompere del messaggio cristiano poteva certamente
promuovere un coinvolgimento più deciso. Tuttavia gli apostoli e i primi
discepoli si rendevano conto che occorreva una semplice ma efficace traccia
consegnata alla scrittura, che per i fedeli fosse come una guida al
comportamento, un’indicazione alla preghiera e ai riti di partecipazione a
quella che può essere definita un’embrionale liturgia. Vengono quindi stilati
in diverse tappe e successivamente diffusi alcuni documenti, raccolti sotto la
denominazione di Didaché. Essi sono
un’insieme di istruzioni per le nuove comunità cristiane, compilate forse dagli
Apostoli stessi oppure, come più recentemente si è ipotizzato, da alcuni
discepoli, uno dei quali redasse poi il lavoro e ne curò la stesura materiale.
Esso pare antecedente alla stesura dei Vangeli, anche se su questo punto il
dibattito è ancora molto aperto. Questo documento, come del resto anche i
Vangeli, ha attraversato una lunga storia di trasmissione orale prima di
giungere alla redazione scritta, la quale ha avuto poi delle successive
manipolazioni. Resta però il fatto che la Didaché
sintetizza elementi consistenti dei Vangeli stessi, soprattutto in relazione al
comportamento dei fedeli e ai suoi doveri morali e spirituali. Questa specie di
manuale didattico si inserisce nella religione ebraica senza scontrarsi con
essa, ma anzi cogliendone spunti significativi. Si apre con la definizione dei
due ambiti del bene e del male, descritti come due vie: “Due sono le vie, una
della vita e l’altra della morte….”. E si annunciano poi i punti essenziali
dell’una e dell’altra, molti dei quali già presenti nella tradizione giudaica,
altri invece più innovativi e propri del Cristianesimo.
Lo spirito di questo insegnamento era tuttavia abbastanza
diffuso nel mondo antico. Alcuni principi erano entrati già nel sentire di
molti che inconsapevolmente ne avevano assimilato l’originalità, o forse
piuttosto l’intensità interiore. Delle antiche religioni d’Oriente erano giunte
senz’altro lente e mediante risonanze attraverso i mercanti che per secoli
avevano percorso, partendo dalla Cina, la via della seta fino al Mar Caspio, al
Mare d’Aral, e per tutta la Siria e la Palestina fino al Mediterraneo. Qui le
attese, i suggestivi incitamenti spirituali si erano stemperati nelle credenze
già esistenti, nutrendo tuttavia un’aspettativa sempre più eccitata e profetica
verso una presenza liberatrice. Così, se nella Didaché si parla di due vie, anche Buddha parla di vie diverse per
raggiungere l’illuminazione: ad esempio, Buddha esorta i fedeli a comportamenti
elevati. Raccomanda: “Evitate ogni male, cercate il bene…. È per soddisfare i
propri desideri che gli uomini lottano e si combattono tra loro”. Nella Didaché, e ancor prima nei Comandamenti
di Mosè, si trovano simili suggerimenti. Poi ecco, invece, le parole nuove, eco
delle Beatitudini: “Al contrario, sii mite, perché i miti erediteranno la
terra”.
Così, gradualmente, le sinagoghe, i quartieri popolari
delle città, le case patrizie dell’Occidente e dell’Oriente conoscono un popolo
nuovo, diverso, che vive una propria vita spirituale, obbedisce alle leggi
politiche e sociali dei paesi in cui vive ma ha proprie leggi interiori,
proprie convinzioni spirituali che spesso sono diverse da quelle vigenti; è
come un fiume che gradualmente staripa, invadendo territori e regioni in modo
incruento, ma via via modificando gli atteggiamenti, le mentalità, rielaborando
e trasformando le idee. Più tardi, i maestri del pensiero cristiano
occidentale, e soprattutto San Tommaso, riprenderanno i principi del
ragionamento antico, l’elaborata filosofia greca, le indagini e le
interrogazioni intorno all’esistenza del mondo e dell’uomo e vi inseriranno la
linfa fresca e potente di questa nuova identità ponendo le fondamenta del
pensiero occidentale, le cui radici affondano nella perennità secolare della
ricerca umana, partendo addirittura dalle più remote regioni del mondo.
Le prime comunità cristiane, insediatesi in territori che
non erano più luoghi d’origine ebraica, crearono in tal modo una sorta di
compendio che conteneva anche i testi di preghiere per le varie occasioni,
prime tra tutte il Padre Nostro, concludendole così come Gesù aveva
raccomandato ai suoi discepoli, con l’Amen,
di cui la Didaché offre un embrionale
esempio, aggiungendo anche l’invocazione aramaica Maranatha,
con cui chiude anche l’Apocalisse di Giovanni, e che significa: “O nostro
Signore, vieni!”
Poi, per rendere più solenne la riunione e l’invocazione,
dovettero abbinare una prima forma di canto, principalmente una salmodia,
eseguita da un cantore, mentre i fedeli concludevano in coro con l’Alleluja, antico grido del popolo
d’Israele, o con l’Amen. Nelle prime
riunioni ecclesiali si ascoltavano così questi primi responsori, primo e
originario elemento del canto cristiano. Le ramificazioni dell’espansione
cristiana sono poi sempre più estese, nasce il bisogno di raffigurare con
bassorilievi, sculture, pitture murali e poi dipinti sempre più perfetti e
fastosi le scene principali della vita di Cristo, le scene bibliche più
ricorrenti, spesso figura di quanto si narra nei Vangeli, e i principali
sacramenti, tra cui il centro di tutta la vita cristiana, cioè l’Eucarestia.
Tutta la storia dell’arte si svolge e si sviluppa in
Occidente su questi temi del sacro, che coinvolgono del resto la vita e la
morte, il bene e il male, la disperazione e la speranza. E la piccola, ridotta
e sinteticissima orditura pedagogica della Didaché
è come lo spunto per un insegnamento che si arricchisce via via, con il tempo,
di ulteriori perfezionamenti, di approfondimenti, di nuovi apporti che formano
il ricco complesso della Tradizione, cioè il cammino di crescita del
Cristianesimo attraverso la storia.
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