Nascita di una Nazione
Tra Guttuso, Fontana e
Schifano
A Firenze,
nella sede di Palazzo Strozzi fino al 22 luglio, si è aperta la mostra Nascita
di una Nazione. Tra Guttuso, Fontana e schifano. L’evento è uno straordinario viaggio
tra arte, politica e società nell’Italia tra gli anni Cinquanta e il periodo
della contestazione del Sessantotto attraverso ottanta opere di artista come
Renato Guttuso, Lucio Fontana, Alberto Burri, Emilio Vedova, Enrico Castellani,
Piero Manzoni, Mario Schifano, Mario Merz e Michelangelo Pistoletto.
L’esposizione,
a cura di Luca Massimo Barbero, vede per la prima volta riunite assieme opere
emblematiche del fermento culturale italiano del secondo dopoguerra (catalogo
Marsilio), gli anni del cosiddetto “miracolo economico”, momento di
trasformazione profonda della società italiana fino alla fatidica data del 1968,
di cui quest’anno 2018, ricorre il cinquantesimo anniversario.
Ѐ in questo ventennio che prende forma una nuova idea di arte, proiettata
nella contemporaneità attraverso una straordinaria vitalità di linguaggi,
materie e forme. Un itinerario artistico, quello della mostra, che parte dalla
diatriba tra Realismo e Astrazione, prosegue con il trionfo dell’Arte informale
per arrivare alle sperimentazioni su immagini, gesti e figure della Pop Art in
giustapposizione con le esperienze della pittura monocroma fino ai nuovi
linguaggi dell’Arte Povera e dell’Arte Concettuale.
L’esposizione
si apre con un ambiente immersivo costituito da quattro videoproiezioni
correlate in sincrono che ricostruiscono una breve storia visiva d’Italia
dall’Unità al 1968, tra arte, cinema, moda, cronaca, politica e società. Queste
immagini sono poste in un contradditorio dialogo con La battaglia di Ponte dell’Ammiraglio (1951 – 1955) di Renato Guttuso,
figura chiave dell’ortodossia politica dominante del neorealismo
propagandistico e non a caso unica testimonianza in mostra di un esasperato
attaccamento all’arte politica di quegli anni, in netta opposizione con le
altre esperienze di quel periodo.
L’episodio
raffigurato è il vittorioso scontro che nel maggio del 1860 diede il via alla
liberazione della Sicilia borbonica da parte delle truppe garibaldine,
importante tappa verso l’unificazione del Paese. Per questo suo valore
esemplare l’opera riassume una polarità della diatriba tra realismo e
astrazione che segna il dibattito artistico italiano tra anni Quaranta e
Cinquanta, ed è accostata per contrasto dialettico a un dipinto altrettanto
rappresentativo quale Comizio (1950)
di Giulio Turcato, in senso opposto teso a una ricerca di sintesi astratta.
Questi quadri emblematici sono messi in dialogo con due opere di Enrico Baj e
Mimmo Rotella del 1961. Segue la pittura di gesto e materia, poi comunemente
identificatasi con l’informale, la quale ha rappresentato un importante momento
corale che ha unito negli anni Quaranta e Cinquanta diverse e forti
individualità.
La seconda
sala della mostra rappresenta una campionatura radicale, per esclusione, per
sintesi e per contrasti, del grande momento corale dell’informale, presentando
opere pivotali di Alberto Burri, Lucio Fontana, Emilio Vedova, Ettore Colla,
Leoncillo e Mirko Basadella, in cui la materia pittorica e scultorea è
sollecitata e resa parlante. Il grande Sacco
e Bianco di Burri del 1953 porta su di sé tutte le stigmate del decennio e
magistralmente riassume le forti matrici di sensibilità materico-estetica che
caratterizzano il centro Italia e in particolare Roma, dove l’esempio buriano è
riferimento fondamentale per le giovani generazioni.
Emilio
Vedova, nella presentazione della personale del 1953 presso la Fondazione
Origine, ha definito Burri <<mitografo urbano che inventa, in questa
sterile sfera che è la pittura, qualche cosa non priva di speranza e necessaria
come il pane, come il lavoro, come i miracoli, il dramma quotidiano e
domenicale>>.
La pittura è
per Burri una presenza imminente ed attiva, una libertà conseguita,
costantemente consolidata, vigilmente custodita per trarne la forza di
dipingere ancora. Nel Sacco e bianco, gli
infiniti bianchi e neri intensificati e i rammendi e i rattoppi conquistano un
pregio solenne, mentre nel Sacco e oro dello
stesso 1953 la luminescenza del materiale prezioso crea una presenza vigilante,
quasi mistica, quale frammento e riverbero di una “serena Bisanzio per tutti”.
La figura di
Emilio Vedova è altrettanto centrale rispetto a un certo tipo di ricerca già a
partire degli anni Quaranta riassumendo nel suo percorso la nascita di gruppi e
la partecipazione a movimenti – dalla Nuova Secessione Artistica italiana, poi Fonte Nuovo delle Arti (1946 – 1950). Scontro di situazioni del 1959, opera del
periodo di piena maturità (in mostra), sintetizza tutto il coacervo di queste
riflessioni, aprendo ai significativi sviluppi degli anni Sessanta che si
inaugurano con l’importante collaborazione con l’artista e Luigi Nono per la
messa in scena di Intolleranza ’60. L’azione
scenica in due parti scritta da Nono su un’idea di Angelo Maria Repellino e
diretta da Bruno Maderna alla prima del 13 aprile 1961 al Teatro la Fenice di
Venezia, avvia una importante indagine sullo spazio teatrale e sullo
“spazio/azione”.
Il percorso
poliedrico e ricchissimo di Lucio Fontana, protagonista riconosciuto della
ricerca artistica internazionale già negli anni Trenta, è rappresentato in
mostra nella stessa sala dell’amico Vedova con New York 10 del 1952. L’opera è emblematica di tutta l’esperienza
maturata dal 1947 con la fondazione dello Spazialismo.
L’opera
corrisponde soprattutto all’idea di rappresentare un nuovo mondo una materia nuova:
<<New York è più bella di Venezia!! I grattaceli di vetro paiono delle
grandi cascate d’acqua che cascano dal cielo!! Di notte è una grande collana di
rubini, zaffiri e smeraldi>>.
Gli sviluppi
della ricerca scultorea, che ha sempre rappresentato in fondo uno dei campi di
creazione più legati alla materia, sono emblematici di questo passaggio di
decennio. La scultura se da un lato prosegue nel terreno della figurazione,
dall’altro vive nuovi fermenti in diversa direzione, di cui sono esempio le
opere di Leoncillo, Ettore Colla e Mirko Basaldella presentate nella seconda
sala della mostra. Una sala “delle materie” intese come metafore, anche
esistenziali, di un’Italia ancora sospesa tra la sua antica matrice rurale e la
sempre più avanzata dimensione industriale.
La sala
successiva, in un confronto di opposti, è dominata dal colore bianco e dedicata
all’azzeramento e alla monocromia: a lavori come Superfice lunare 1968 di Giulio Turcato e il monumentale capolavoro
Superfice bianca (1968) di Enrico
Castellani, si affiancano le composizioni con bende di Salvatore Scarpitta, le
tele estroflesse di Agostino Bonalumi e la straordinaria serie Achrome di Piero Manzoni che ha
inaugurato in modo dirompente le esperienze artistiche degli anni ’60.
Parallelamente
emergono come protagonisti Jannis Kunellis e Pino Pascali che arrivano a
rigenerare il linguaggio artistico con elementi naturali e figurazioni
primordiali. Al rigore neo concettuale fanno da controcanto le visioni
figurative lenticolari di Domenico Gnoli e la nuova figurazione di Tano Festa,
Sergio Lombardo, Renato Mambor e Giosetta Fioroni i cui lavori introducono il
visitatore a una sala dedicata alla rappresentazione della bandiera come
simbolo.
La sala
successiva è invece dedicata alle opere germinali di artisti quali Giulio
Paolini, Alighiero Boetti, Michelangelo Pistoletto, Mario Merz: autori che
costituiscono un altro momento fondamentale dell’arte italiana,
internazionalmente noto come Arte Povera.
In questo contesto, l’Italia (1968) di Luciano Fabro domina l’ambiente,
trasformando il concetto di nazione e sovvertendone i significati.
Rovesciare i propri occhi (1970) di Giuseppe Penone chiude la
mostra in modo emblematico, rappresentando una nazione che guarda a se stessa e
alla sua storia mentre entra in un periodo di forte polemica che diventerà
anche lotta armata.
Maria Paola
Forlani
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