John Ruskin
Le Pietre di Venezia
“Venezia giace ancora davanti ai
nostri sguardi come era nel
Periodo finale della decadenza: un
fantasma sulle sabbie del mare,
così debole, così silenziosa, così
spoglia di tutto all’infuori della sua
bellezza che qualche volta quando
ammiriamo il languido riflesso
nella laguna, ci chiediamo quasi
fosse un miraggio quale sia
la città quale l’ombra. Vorrei
tentare di tracciare le linee di questa
immagine prima che vada perduta per
sempre, e di raccogliere,
per quanto mi sia possibile, il
monito che proviene da ognuna delle
onde che battono inesorabili, simili
ai rintocchi della campana
a morto, contro le Pietre di Venezia.”
-
John
Ruskin. The Stones of Venice. 1851
Cosa sarebbe
il mito di Venezia senza John Ruskin, cantore della bellezza eterna della
città, tanto più affascinante ed eterna perché colta nella sua decadenza.
Personaggio
centrale nel panorama artistico internazionale del XIX secolo, scrittore,
pittore e critico d’arte, l’inglese John Ruskin (1819 – 1900) ebbe un legame
fortissimo con la città lagunare, alla quale dedicò la sua opera letteraria più
nota, “Le pietre di Venezia”: uno
studio della sua architettura, sondata e descritta nei particolari più minuti,
e un inno alla bellezza, all’unicità ma anche alla fragilità di questa città.
Ruskin,
ammirato da Tolstoj e da Proust, capace di influenzare fortemente l’estetica
del tempo con la sua ispirazione: torna a Palazzo Ducale, edificio emblematico
che egli esplorò a lungo da angolazioni diverse: taccuini, acquarelli, rilievi
architettonici, calchi di gesso, albumine platinotipi.
Ad ospitarlo,
fino al 10 giugno 2018, è la sequenza di sale e loggiati tante volte
raffigurati, ove la scenografia di Pier Luigi Pizzi dà risalto alle presenze
architettoniche e scultoree della Venezia gotica e bizantina, medievale e
anticlassica che egli tanto amava e che desiderava preservare dall’oblio
(catalogo Marsilio),
Voluta da
Gabriella Belli quale tributo alla conoscenza e al mito di Venezia, la mostra è
curata da Anna Ottani Cavina: prima presentazione a tutto campo, in Italia,
dell’opera di un artista che “ha valicato ogni confine in nome di una visione
interdisciplinare, praticata quando il termine ancora non c’era”
.
Pervaso da
spirito religioso maturato nell’Inghilterra vittoriana, animato da una visione
etica, che lo spinse ad agire sul piano sociale e politico con l’obiettivo
utopico di una società organica e felice per tutti (tanto che Gandhi ne sarà
incantato), strenuo oppositore del meccanicismo e del materialismo che vedeva
diffondersi, Ruskin nel corso della sua vita opera e s’interroga sulle
questioni sociali, sull’arte, sul paesaggio e sulla Natura; scrive di
mineralogia e di botanica, così come di economia, architettura e restauro,
preoccupato che le tecniche allora in uso finissero con il cancellare gli
edifici medievali.
La mostra fa
una scelta e, non potendo dare conto della complessità di Ruskin e del suo
genio versatile in tanti diversi campi, si focalizza sull’artista,
articolandosi attorno a cento sue opere che ne documentano la vocazione a
tradurre in immagini la realtà, fissando su migliaia di fogli, a penna e
acquarello, il suo instancabile tentativo di comprendere il mondo. Si tratta
eccezionalmente di prestiti tutti internazionali – un grande merito
dell’esposizione – considerato che i musei italiani non custodiscono sui
lavori.
Migliaia
sono le carte dipinte di Ruskin: disegni, acquarelli, quaderni, taccuini.
Documentano un esercizio di ricognizione sulla natura e sull’architettura
profondamente intellettuale e insieme emotivo, come lo spettatore può ammirare
percorrendo le sale dell’esposizione.
Così lo
sguardo colorato di Ruskin diventa una rivelazione per il pubblico italiano. Perché scriveva Kenneth
Clark, “è lui il più grande acquarellista dell’età vittoriana”.
Un artista
che molto ha contato per avere spalancato gli orizzonti del gusto, dal Gotico
ai Primitivi, e creato una schiera di accoliti di quella “religione della
bellezza” che la scrittura intendeva eternare, da Oscar Wilde a Walter Pater,
da Henry James a Wirginia Woolf a Marcel Proust, a Gabriele D’Annunzio, a
Roberto Longhi.
Monito per
la salvezza di Venezia, la mostra vuole dunque essere una sfida a celebrare
Jonh Ruskin come grande e singolare pittore, al di là del suo eclettismo e
della sua stessa determinazione a privilegiare la parola scritta.
La città,
l’architettura, i grandi maestri veneziani di cui riproduce le opere reinterpretandole,
la tensione a esplorare la natura, fra curiosità e immaginazione, sono i leitmotive di questo incontro con i
lavori di Ruskin, che da critico si battè per la modernità riconoscendo, in
particolare, la forza rivoluzionaria della pittura di Turner, difeso contro i
detrattori in vari scritti e nell’opera in più volumi “Modern Painters”.
L’esposizione
ha voluto evocare questo incontro in tutta la sua poesia, dedicando uno spazio
alle Venezie di Turner che come quelle di Ruskin, discendono dall’invenzione
letteraria di Byron: “la mia Venezia come quella di Turner, è stata creata per
noi in primo luogo da Byron”.
Venezia di
perla e amatista, Venezie ambrate, di nebbia, Venezie dissolte e come
spiaggiate ai margini di un universo inconoscibile, anticlassico.
Immagini di
un’audacia formale che non ha precedenti, resa possibile dalle dissolvenze
dell’acquarello e miracolosamente salvata da Turner anche nel grande formato,
nell’impasto meno liquido e fluido dell’olio su tela.
A questa
esplosione di spettacolare bravura di tornante fragore wagneriano, Ruskin
risponde con timbro sommesso. Sottovoce, in cerca di una verità meno eloquente
ed enfatica, spirituale e vicina alle cose.
La pittura
di Ruskin non punta in realtà al sublime come quella di Turner, né
all’astrazione tutto colore e luce: è descrittiva, analitica, finalizzata a
immortalare la realtà; eppure nello studio del dato naturale o nella ossessiva
resa dei particolari architettonici c’è assoluta visionarietà, convinto –
proprio dai quadri del <<suo>> Turner – che il vero artista sia
veggente, un profeta o, addirittura, uno <<scriba>> di Dio, capace
cioè di cogliere e rappresentare la verità divina contenuta nella realtà naturale.
Oltre al
viaggio in Italia e alla fascinazione per la natura – con una serie di
acquarelli che privilegiano il tema della montagna e i paesaggi della penisola
– il cuore dell’esposizione è comunque il rapporto dell’artista con Venezia.
Questo
legame, coltivato nell’arco di una vita, a partire dal primo incontro a sedici
anni, e alimentato in undici viaggi tra il 1835 e il 1888, è esplicitato sotto
diversi punti di vista – Studi di nuvole,
Tramonti, Pleniluni, Scorci della laguna, Studi dai grandi pittori veneziani:
Carpaccio, Veronese, Tintoretto – ma verte essenzialmente sul tema cruciale
della “natura gotica”, con la sua
riscoperta e celebrazione: il momento più alto dell’arte e dell’architettura
non solo dal punto di vista estetico ma anche morale.
Il testo di
riferimento è il magnifico libro “The
Stone of Venice” (1851 – 1853, 3 volumi), al quale si aggiungono le
scenografiche tavole in folio degli “Examples
of the Architecture of Venice”, pubblicate negli stessi anni, e “ St. Marki’s Rest”, nato come revisione
de Le pietre di Venezia, dopo che
egli aveva assistito alla demolizione di parti importanti della Basilica di San
Marco, e divenuto guida della città “per i pochi viaggiatori che ancora hanno a
cuore i suoi monumenti”.
La Venezia
di Ruskin è paradigma, scoperta, ossessione: città per lui da amare per
l’assoluta bellezza e da odiare per il suo decadentismo, in uno stringente
rapporto tra architettura e società civile; Venezia da cantare e da salvare:
Ruskin “Direttore di coscienze”, come lo definì Proust nel necrologio
pubblicato a pochi giorni dalla sua morte (avvenuta il 27 gennaio 1900), lancia
un monito ancora attuale.
Maria Paola
Forlani
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