Stati d’animo
Arte e psiche
Tra Previati e Boccioni
“Le forme cominciano a parlare come
musica,
i corpi aspirano a farsi atmosfera, spirito e
il soggetto è già pronto a
trasformarsi in istati
d’animo”.
Sono parole
scritte da Umberto Boccioni a commento della nuova arte che usciva dalle tele
di Gaetano Previati e in questo cruciale passaggio c’è l’incipit della mostra
aperta a Palazzo dei Diamanti dal titolo “Stati
d’animo. Arte e psiche tra Previati e Boccioni”, aperta fino al 10 giugno, a cura di Chiara Veronesi, Fernardo
Mazzocca, Maria Grazia Messina, il cui percorso segue l’alfabeto delle
emozioni.
Nella rassegna viene infatti indagato per la prima volta la poetica degli stati d’animo e con essa uno dei fondamentali apporti del nostro paese all’arte moderna. Dipinti manifesto come Ave Maria a trasbordo di Giovanni Segantini, Maternità di Gaetano Previati, il trittico degli Stati d’animo di Umberto Boccioni e altri importanti opere d’arte italiana e internazionale tra Otto e Novecento, conducono i visitatori in un viaggio nei territori dello spirito.
Nella rassegna viene infatti indagato per la prima volta la poetica degli stati d’animo e con essa uno dei fondamentali apporti del nostro paese all’arte moderna. Dipinti manifesto come Ave Maria a trasbordo di Giovanni Segantini, Maternità di Gaetano Previati, il trittico degli Stati d’animo di Umberto Boccioni e altri importanti opere d’arte italiana e internazionale tra Otto e Novecento, conducono i visitatori in un viaggio nei territori dello spirito.
Il percorso
inizia con una selezione di ritratti e di altre opere emblematiche che mostrano
come, in quel magma in ebollizione che è la cultura italiana ed europea degli
ultimi decenni dell’Ottocento, gli artisti siano innanzitutto impegnati a
rompere gli schemi della rappresentazione e a sviluppare modalità inedite per
catturare la vitalità dei soggetti e svelarne l’interiorità, con il preciso
intento di avvicinare e coinvolgere l’osservatore.
L’approccio
iniziale con i visionari parte da autori del Decadentismo – con le loro discese
agli inferi attuate con satanico fervore o con le loro estasi mistiche –
forniscono così i mezzi indispensabili per penetrare nello spirito degli ultimi
decenni del secolo XIX e del suo prolungamento nel XX secolo: per intenderne
cioè l’<<altro>> volto, quello della pittura realista o
impressionista.
Quando Redon
afferma che egli vuole porre la logica del visibile al servizio
dell’invisibile, anticipa il lucido proponimento di Klee secondo cui
<<l’arte non riproduce il visibile, ma rende visibile
l’invisibile>>.
Non è a caso
facile individuare forti parallelismi spirituali – e anche linguistici –
individuabili fra le opere di questi artisti e la letteratura simbolista o
comunque estetizzante.
La
visionarietà di taluni poeti non è di tratto troppo diverso da quella delle
raffigurazioni artistiche. Ѐ l’elemento allucinatorio che vincola le une alle
altre, sia esso portato nel terreno dei rapporti erotici, trascinando con sé un
<<cortese>> di tipo dandystico, o sia destinato ad accentuare un
rapporto fra l’io e l’universale oppure fra l’io e la società e i suoi
istituti: il filo allucinatorio che non si spezza serpeggia attraverso la
terribilità, febbrile, quanto logica, di Edgar Allan Poe, la <<Ballata
della prigione di Reading>> di Oscar Wilde, le tensioni liriche di
Rimbaud e le magiche atmosfere di Laforgue, di Rodenbach, di Hauptmann, di Hugo
von Hofmannsthal e di Gabriele D’Annunzio, venate dall’alito congiunto
dell’amore e della morte. A tutto questo si deve aggiungere la profonda
suggestione che negli ultimi decenni del XIX secolo ebbero a esercitare l’opera
di Wagner e le teorie di Nietzsche.
Una delle
immagini più ricorrenti nella cultura fin
de siècle è la melanconia. Nelle sue diramazioni in campo letterario e
artistico, così come in ambito psicologico, questo stato d’animo si carica di
valenze simboliche fino a rappresentare la metafora della condizione precaria
che caratterizza l’uomo moderno e una civiltà minacciata dalla tara della
“degenerazione”. Tra gli artisti attivi in Europa, nessuno ha saputo
interpretare questo tema con maggiore sensibilità di Edvard Munch.
La
melanconia è anche il tema di un capolavoro di Pelizza da Volpedo, il Ricordo di un dolore. Come accade per le
eroine dei romanzi naturalisti e scapigliati (da Zola a Tarchetti, Capua,
Fogazzaro), anche in pittura la messa in scena di un lutto si arricchisce di
valenze extrasensoriali e simboliche: è ciò che si osserva in questo ritratto
in cui l’artista ricerca una vividezza fotografica.
A partire
dalla fine degli anni Ottanta, torna in voga il tema della maternità associato
a quello dell’albero della vita in una eccezione più o meno secolarizzata del
mito cristiano. Il rinnovato interesse per questi soggetti è sollecitato sia
dagli studi di psicologia e psicofisiologia, sia dalle correnti
spiritualistiche fin de siècle alimentate
dalla riscoperta di Schopenhauer.
Ne sono
espressione con esiti formali molto diversi la monumentale Maternità di Previati (1891) e l’Angelo
della vita di Segantini (1894). La prima tela spicca idealmente al centro
del racconto della mostra poiché ne incarna uno snodo fondamentale. Al suo
apparire, l’opera di Previati fece scalpore, attirando aspre critiche ma anche
importanti riconoscimenti. A colpire furono il suo carattere antinaturalistico
e decorativo, la resa smaterializzata delle forme attraverso la tecnica
divisionista e la composizione ritmata delle figure, che rimanda a un andamento
musicale. Essa costituisce il primo tentativo, in Italia, di suggerire uno
stato d’animo attraverso le componenti formali dell’opera, piuttosto che
tramite una sua rappresentazione descrittiva.
Al
misticismo di Previati, Segantini contrappone <<il senso vivo della
natura>> che palpita nella sua <<dea madre>> e la sua salda fede nella <<trinità dello
spirito: per essa sarà religione e musa l’evoluzione cosmica, guida scienza,
fonte d’ispirazione il sentimento alto e sereno della natura>>.
Quantunque tali posizioni possano apparire distanti, sono collegate dal credo
nell’apporto della scienza e al contempo nelle possibilità messianiche
dell’arte.
A
raccogliere e rilanciare la sfida del rinnovamento in una chiave decisamente
moderna sono i futuristi. L’epilogo della mostra è dedicato al memorabile
passaggio del testimone, tra i maestri moderni e i giovani fondatori di un
rivoluzionario linguaggio d’avanguardia grazie al quale le dinamiche complesse
e multiformi dell’esperienza contemporanea sono poste al centro della creazione
artistica.
La prima
delle ultime sale del percorso è dedicata alla dimensione intima delle
relazioni affettive. Il trittico degli Affetti
di Giacomo Balla è posto a confronto con sculture in cera e bronzo e
fotografie di Medardo Rosso per proporre un dialogo, tra tecniche diverse,
sull’impiego delle dinamiche luminose e della densità atmosferica come mezzo
per esprimere la condizione affettiva. Il rapporto con la tecnologia ha in
queste prove un segno esclusivamente positivo, come testimonia l’utilizzo della
fotografia come medium creativo da parte di uno scultore, o l’effetto
fotografico della pittura di Balla, che guarda anche un artista culto dell’avanguardia
francese quale Eugéne Carriére.
L’ultima
sala si ricollega infine alle questioni aperte nell’introduzione che sono al
centro delle poetiche moderniste: riscattata dalla sua dimensione alienante, la
Metropoli industriale è ora ribaltata in mito di modernità e nella sua
dimensione collettiva si esprime una rinnovata istanza di coinvolgimento
dell’osservatore, catturato nella dinamica emotiva della folla.
Nella prima
versione del Trittico degli Stati
d’animo, capolavoro di Boccioni del 1911, le sensazioni generate
dall’esperienza urbana nella città moderna sono elette a soggetto stesso
dell’opera. Nell’ambito di una radicale revisione linguistica che si spinge
verso l’astrazione. La pennellata allungata, che Boccioni trae degli esempi da
Munch e Previati, evolve nella rappresentazione di un flusso psichico. Anche
nella Risata, Boccioni dà forma
plastica ad una dimensione sensoriale e psicologica,
materializzando l’energia
sonora di uno scoppio di risa che sembra propagarsi in maniera inarrestabile,
tra tavolini, calici e piume, sui volti degli ospiti di un caffè concerto. Con La stazione di Milano di Carlo Carrà,
l’esplorazione dello spazio rivela già un interesse per la decostruzione delle
forme adottata dai cubisti, con cui i futuristi si confrontano alla fine del
1911. L’impalcatura elicoidale dell’opera coinvolge e attrae l’osservatore
verso il centro della composizione coerentemente con la dichiarazione del Manifesto tecnico della pittura futurista: <<Porteremo
l’osservatore nel centro del quadro>>.
Maria Paola
Forlani
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