Zhang Dali
Meta – Morphosis
“Tutte le mie opere hanno una stretta
relazione con la realtà che mi circonda”
(Zhang Dali)
Si è aperta
a Bologna nella sede di Palazzo Fava, Meta-Morphosis, la prima mostra
antologica di uno dei più noti artisti cinesi contemporanei, che a Bologna
arrivò nel 1989 dopo i drammatici fatti di Piazza Tienanmen, rimanendovi fino
al 1995.
Organizzata
da Fondazione Carisbo e Genus Bononiae. Musei della Città, la mostra curata da
Marina Timoteo (catalogo Bononia University Press) racconta la trasformazione
storica, sociale ed economica della Cina degli ultimi trent’anni.
Pittore,
scultore, performer, fotografo, padre
della graffiti art in Cina, la
definizione che meglio inquadra Zhang Dali è quella di street artist per l’irriducibile volontà della sua arte di cercare
un dialogo con tutti gli elementi – umani ed architettonici, corporei ed
incorporei – che permeano lo spazio urbano. I suoi lavori esposti nelle più
importanti gallerie e musei di tutto il mondo – dal MoMa di New York alla
Saatch Gallery di Londra allo Smart Museum di Chicago – sono frutto di uno
sguardo profondamente umano e partecipe sulla Cina contemporanea e le sue
contraddizioni, sui rapidissimi cambiamenti che la crescita esplosiva del
capitalismo ha portato con sé, delle contradizioni di vita dei lavoratori
ridotti alla serialità, all’urbanizzazione selvaggia che cementifica la
tradizione.
Il titolo
della mostra – Meta – Morphosis – è
un esplicito riferimento all’essenza stessa dell’arte di Zhang Dali, un segno di
riconoscimento che lo distingue da tutti gli altri artisti cinesi suoi
contemporanei: arte che tenta di rappresentare i momenti della Cina a partire
dallo status dei lavoratori che hanno pagato il prezzo più alto della
transizione al capitalismo, “Realismo
estremo”, quello di Zhang Dali – secondo la fortunata espressione di Yu Ke,
caporedattore del mensile Contemporary
Artist e professore alla Sichuan Academy of Fine Arts – in quanto artista
che si fa interprete del dovere dell’arte contemporanea di esprimere il dubbio
sulla brutalità che permea la vita.
Nove sezioni
in cui sono raggruppate le 220 opere selezionate, tra sculture, dipinti,
fotografie e installazioni, che spaziano nell’imponente produzione artistica di
Zhang Dali. L’esposizione, ospitata nelle splendide sale di Palazzo Fava,
affrescate dai Carracci, si apre con la serie di dipinti Human World, che Zhang Dali dipinge negli anni Ottanta, sul finire
del periodo di studi all’Accademia Centrale di Arte e Design di Pechino:
dipinti ad olio su carta in rosso, nero e bianco in cui dettagli figurativi si
mescolano a una rappresentazione onirica, frutto del desiderio di
sperimentazione dell’artista in un’ottica di contaminazione tra arte orientale
ed occidentale.
La rapidità
dei cambiamenti urbanistici della Cina contemporanea, le macerie che fanno
spazio alla modernità cancellando il passato sono al centro del ciclo di
fotografie Dialogue and Demolition: sulle
rovine delle costruzioni abbattute dalla furia della crescita urbana Zhang Dali
traccia per anni, a partire dal 1995, il profilo del suo volto, utilizzando
l’arma clandestina dei graffiti appreso a Bologna: un tracciato che, demolito,
diventa finestra, rivelando il disturbante contrasto tra Cina tradizionale e
l’epoca contemporanea, e i costi della modernizzazione sul patrimonio storico e
culturale.
In mostra
anche il ciclo One Hundred Chinese, realizzato
tra il 2001 e il 2002, documentario veritiero sulla condizione del popolo nel
nuovo millennio, con la rapida globalizzazione del paese: le sculture, calchi
di persone reali, diventano specchio di esistenze solo apparentemente ricche e
privilegiate, in realtà stritolate dai ritmi della modernizzazione.
E ancora
grandi dipinti della serie AK-47 e
Slogan: nei primi la sigla del kalashnikov, simbolo universale di guerra e
sopraffazione, compone ritratti di uomini e donne, svelando la violenza quale
elemento integrante e tessuto connettivo delle esistenze.
Nei secondi
gli ideogrammi che compongono gli slogan della Repubblica Popolare rivelano,
grazie alle variazioni di scale cromatiche, le foto-segnaletiche di uomini e
donne dal volto impassibile, privo di qualsiasi segno di gioia o dolore. Volti
anonimi quanto gli slogan, appiattiti in una massa umana indistinta.
La violenza
lascia spazio al silenzio e alla pace quasi metafisica nella serie World’s Shodows, realizzata con
l’antico processo fotografico della cianotipia, che disegna su tela di cotone o
carta di riso delicate ombre umane, animali e vegetali; una scintilla di eterno
che si ritrova nelle grandi statue antropomorfe in marmo bianco (Hanbaiyu) a grandezza naturale della
serie Permanence, in cui corpi di
persone comuni, lavoratori, migranti, scolpiti nel materiale delle statue degli
dei e degli eroi, il marmo, attingono al sublime che esiste in ogni singola
esistenza.
La storia
torna prepotentemente nei 100 pannelli della
grandiosa serie A Second History, nei
quali attraverso materiali d’archivio collezionati in sette anni Zhang Dali
rivela impietosamente la sistematica manipolazione delle immagini operata dal
regime a fini propagandistici degli anni dal 1950 al 1980.
Il percorso
si chiude con la monumentale installazione Chinese
Offspring, serie di sculture colorate in vetroresina dei mingong, i lavoratori strappati dalle
campagne per diventare parte del fagocitante meccanismo produttivo della Cina
post-maoista.
Una selva di
sculture appese a testa in giù, a significare la mancanza di controllo che
queste persone hanno sulla propria vita: una riflessione di devastante impatto
sulla presente condizione di un popolo diventato ingranaggio di una macchina
sulla quale non ha controllo.
Maria Paola
Forlani
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