lunedì 12 marzo 2018

MARIA LAI


Maria Lai

Il filo e l’infinito

“Appo intenso sonu’ e telarzu e sa bidda no pariat più morta…”
(Ho sentito un batter di telaio, e il villaggio non mi sembra morto),
ha scritto Salvatore Cambosu, scrittore sardo e primo insegnante poi grande amico di Marina Lai.

A Firenze nell’Andito degli Angiolini di Palazzo Pitti, fino al 3 giugno (catalogo Sillabe) a cura di Elena Pontiggia, si è aperta la mostra Marina Lai, “Il Filo e l’Infinito”.

L’opera di Maria Lai (Ulassai, 27 settembre 1919 – Cardedu, 16 aprile 2013) si impone nel panorama artistico internazionale e lo dimostra la sua presenza, l’anno scorso, sia alla Biennale di Venezia, sia a Documenta di Kassel.
La mostra celebra la sua ricerca che si è svolta per più di un settantennio, con un costante rinnovarsi del linguaggio che la porta dal realismo lirico degli anni Quaranta alle scelte informali dei tardi anni Cinquanta e dai lavori polimaterici dei primi anni Sessanta alle successive opere concettuali.

Va compreso in tutta la sua profondità il significato della sua azione collettiva Legarsi alla montagna, che si vede in video con cui idealmente si apre questa mostra: coinvolgendo completamente paesaggio e persone, Maria Lai realizza qualcosa di magico a Ulassai, il paese tra i monti dell’Ogliastra dove era nata, a cui la stringevano vincoli di affetto, ma anche l’esperienza tragica della morte del fratello, ucciso a trentadue anni in un tentativo di sequestro.

Legarsi alla montagna è la prima opera relazionale compiuta in Italia e si ispira a un’antica leggenda che tutti a Ulassai conoscono: la storia di una bambina che, durante un furioso temporale, esce dalla grotta dove si era rifugiata, attratta da un bellissimo nastro che vola nel cielo e, con quel gesto a prima vista azzardato, si salva da una frana devastante. L’insegnamento della leggenda è semplice: la bellezza e l’arte, apparentemente così inutili, ci salvano la vita.

Il primo filo da considerare in questa mostra è dunque quel nastro ormai distrutto (strisce di tela lunghe in tutto ventisei chilometri) con Maria Lai entra in scena dell’arte contemporanea internazionale.
Il tema del filo, però, non si presenta solo in Legarsi alla montagna. Gran parte del lavoro di Maria si ispira ai telai, che sono il cuore dell’arte popolare sarda e, in particolare, del sapere delle donne dell’Isola.  Lo strumento millenario della tessitura compare già in un suo disegno degli anni Quaranta e figure di tessitrici si incontrano nelle sue carte successive. Nel 1967, poi realizza Oggetto-paesaggio, esposto nel percorso espositivo nella prima sala, che modificherà più volte nel corso degli anni: un telaio disfatto, ingombro di fili spezzati e senza ordine, che occupa lo spazio come un totem. Da un lato la sua scultura-installazione affonda le radici nella tradizione sarda, dall’altro dialoga con l’arte concettuale, in particolare con il Nouveau Réalisme di Arman e Spoerri, e più ancora con le “armi” di Pascali.

Dopo Oggetto-paesaggio i Telai continuano ad accompagnare il percorso dell’artista, fino ai suoi ultimi anni (Lu volu, 2006). Sono macchine inutili dai fili strappati che trasformano uno strumento funzionale in un oggetto che ha come unico scopo il valore espressivo, il gioco dei segni che si dispongono come in un pentagramma e gli infiniti significati che quei segni suggeriscono. Possono far pensare al fallimento dei nostri progetti o alla necessità di “tesserli” di nuovo; possono rilevare l’importanza del cucire relazioni o, più semplicemente, evocare paesaggi. Non cercano il compiacimento ornamentale, e tuttavia non dimenticano il valore del colore e della pittura. Telaio in sole e mare (1971), per esempio, è una sorta di paesaggio mentale che ricorda nelle strisce azzurre la distesa del mare e del cielo, mentre con l’accendersi, vagamente alla Malevic, di un “quadrato rosso su fondo bianco” allude al disco solare.

Dai Telai nascono, quasi per deduzione logica, le Tele cucite, che hanno anch’esse un aspetto anfibio. Da un lato continuano a evocare il mondo arcaico dell’arte tessile della Sardegna. Dall’altro si inseriscono in quella fertile ricerca espressiva che lavora non sulla tela, ma con la tela e che a Roma, dove l’artista si era trasferita nel 1956, spazia da polimaterici di Pranpolini ai Sacchi di Burri alle Tele fasciate di Scarpitta, mentre a Milano si esprime soprattutto nei tessuti irrigiditi dal caolino di Piero Manzoni (oltre che nelle tele estroflesse di Castellani e Bonalumi o in quelle svuotate di Dadamaino).
Anche qui Lai trasforma l’oggetto quotidiano, nato per essere utile o almeno decorativo, in un oggetto poetico che non serve a nulla, ma è più importante di ogni funzionalità poiché insegna a pensare e a capire. Tela cucita n. 4, per esempio, è un teorema di fili e tessuto, ma la sostituzione della linea pittorica con l’inserto di uno spago non è uno sperimentalismo fine a se stesso. Simboleggia invece con forza, attraverso nodi e viluppi, la necessità di quella relazione, di quel legame affettivo e filosofico che è al centro degli interessi dell’artista. Una declinazione di queste opere sono le Geografie, mappe visionarie che spesso giocano suggestivamente sul contrasto fra nero della stoffa e l’argento del filo. Geografia. Tela cucita si intitola la prima “geografia”, che nasce appunto da una Tela su cui è imbastito il disegno di un mappamondo.

Il passo successivo, in un lavoro come quello di Maria che procede con logica stringente senza mai diventare ripetitivo, sono le Scritture. Anche qui troviamo una motivazione duplice: personale e generale, privatissima e interprete dello spirito del tempo. Da bambina, infatti, Maria vedeva spesso la nonna rammendare le lenzuola, e i segni o grovigli creati dal filo le sembravano pagine scritte, storie, immagini. Questa pagina affettiva dell’opera non deve però far dimenticare che alla fine degli anni Sessanta molti artisti e più ancora artiste, lavoravano sulla “materializzazione del linguaggio”, per citare il titolo della mostra organizzata da Mirella Bentivoglio alla Biennale di Venezia del 1978.

Nascono in questo periodo le Scritture di Maria, pagine illeggibili cucite su lenzuola, rettangoli di tessuto, stoffe incorniciate come lavagne.
Altre declinazioni delle Scritture sono poi lo spartito musicale Mare-Muro; e le Autobiografie, dove i fili pendenti sembrano alludere a quanto è ancora da scrivere nella nostra vita, o forse a quanto è stato scritto, con tutto il suo carico di incompiutezze, di errori, di sgrammaticature esistenziali.
Dalle Scritture nascono, sempre alla fine degli anni Settanta, i Libri, secondo un percorso strettamente consequenziale che l’artista stessa indicava: “ Dai telai alle tele cucite, all’uso del filo [] nei libri”. Lai si inserisce così, pur rimanendo fedele al proprio modello, nelle ricerche del libro d’artista.


I Libri di Maria hanno sempre un suggestivo valore tattile per la diversa consistenza delle stoffe. Molti di loro, poi, si compongono in fiabe visive.
Altri libri sono invece ispirati a una silloge di versi, come I poeti lavorano nel buio, che riprende il Testamento di Alda Merini.
Ispirato a Goethe ed Erasmo, infine, è Il mare ha bisogno di fichi, 1986, realizzato nel trentennale dell’alluvione di Firenze, che con i suoi aloni umidi evoca i volumi distrutti dalle acque dell’Arno.

Il suo filo è il segno e il simbolo di quella trama di rapporti esistenziali e intellettuali che danno significato alla vita, il tessere e il cucire non hanno, nell’opera di Maria, una vocazione angusta e intimista, ma sono rivolti sempre a un oltre illimitato.

Maria Paola Forlani



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