sabato 3 gennaio 2015

Franco Cardini racconta Lucrezia Borgia




I Borgia e il loro tempo
Al Museo Maillol di Parigi
In primo piano anche la figura della figlia del papa, Lucrezia, e quindi Ferrara

Nell’occasione all’interno del Bookshop del museo è presente il volume
“Maria Paola Forlani Domine nostra Lucrezia “ con testi di Franco Cardini e Franco Patruno (Edito dall’Istituto Casa Cini di Ferrara 2002)

“I Borgia e il loro tempo” aperta fino al 15 febbraio, al Museo Maillol di Parigi, racconta grazie a documenti storici <<più sicuri e più veri>>, le vicende di questi grandi personaggi ponendo l’accento sul mecenatismo.

Riportiamo qui il bel testo di Franco Cardini, ripreso dal volume “Domine nostra Lucretia” (2002)


Domine nostra Lucretia. Lucrezia la bella, Lucrezia la triste, Lucrezia la silenziosa. Fiore calpestato e calunniato dalla storia. Principessa dell’Ariosto e del Bembo, signora delle Esperidi asolane; divina Circe dalle essenze profumate dagli agrumi, non da quelle ferali dei veleni. Lucrezia ancora e sempre da liberare dal cupo castello dell’antimito nel quale i mass media continuano a tenerla chiusa e prigioniera, e non c’è Gregrorovius che tenga.
A dir la verità, più passa il tempo più apprezzo il saggio consiglio del mio vecchio Maestro, Ernesto Sestan – uomo di rigorosa educazione austroungarica (trentino del 1898, aveva servito in armi dell’imperialregio esercito) – il quale condivideva in tutto la vecchia diffidenza degli accademici d’una volta nei confronti degli scritti d’occasione e dei pareri “divulgativi”: e queste righe appartengono a tali generi parastoriografici. “E una questione di linguaggio – mi diceva, rimproverandomi affabilmente una certa estroversione che in effetti m’ha sempre procurato più guai che altro -: tu fornisci magari con un pochino di leggerezza un parere che resta pur sempre quello di uno storico e ti aspetti che tutti s’inchineranno dinanzi al tuo sapere e loderanno il tuo sense of humor, la tua agilità intellettuale di studioso abituato a un pubblico più largo dei soliti addetti ai lavori; e invece scopri che quel che hai detto, anche se è il risultato di uno studio severo, viene scambiato per una pura opinione; e se è appena un po’ controcorrente rispetto al senso comune ti daranno del fazioso e ti troverai in un sacco di spiacevoli polemiche”.

Non ho ascoltato il mio vecchio Maestro: e mi è successo molto spesso esattamente quel che aveva previsto lui. Ecco perché sono un po’ reticente, ora, a parlar di Lucrezia Borgia: so bene che quanti sono più indulgenti con me sorrideranno della mia pervicace propensione per il “disincanto” weberiano ma diranno che sono un inguaribile provocatore, il che per uno studioso non è neppur troppo serio; mentre gli altri, e ohimè sono temo parecchi, mi accuseranno ancora una volta di “revisionismo”. Che ormai, enuclea dal suo originale valore storico, è divenuta una parola magica.
Potrei stavolta obiettare di essere in buona compagnia. Si sono chiusi da non molto i battenti di una serie di prestigiosi convegni, patrocinati anche dall’Istituto Storico Italiano per il Medioevo, dai quali è uscita a tutto tondo una rivelazione storica di quello che per molti decenni è stato considerato il papa più corrotto della storia della Chiesa, Rodrigo Borgia, cioè Alessandro VI. Non che se ne siano scoperte occulte virtù o che si sia dimostrato che tutto quel che si diceva su di lui era pura calunnia: ma se ne sono rivisitati molteplici aspetti della personalità politica, del suo contributo alle arti e alla cultura, perfino del suo magistero pastorale; e ne è uscita un’immagine ben diversa da quella ormai “classica” – e senza dubbio inquietante – disegnata in pieno Ottocento dal grande Ferdinand Gregorovius.

Eppure, la requisitoria dello storico tedesco contro la famiglia Borgia aveva se non altro il merito, a sua volta, di bilanciare una certa ammirazione diffusa, fatta di cinismo rinascimentale e di titanismo romantico, nei confronti di Cesare, il Duca Valentino esaltato dal Macchiavelli; ed era stato già lo stesso Gregorovius, in un saggio del 1874, a rivalutare la figura della figlia di Rodrigo e sorella di Cesare, la bella Lucrezia. È stato semmai una specie di voyeurisme storico, alimentato da una miriade di cattivi romanzi e di films spesso mediocri, talora pessimi, a far di Lucrezia una sorta di dark lady del Rinascimento, crudele, debole e viziosa, succube del padre e del fratello. Si sta muovendo adesso attorno a lei l’ennesima campagna “revisionista”? Niente di tutto questo. Tuttavia il Comune di Ferrara, a partire da febbraio del 2002, ha celebrato con una serie articolata di mostre, convegni e di occasioni turistico-spettacolar-culturali il cinquecentenario dell’arrivo a Ferrara di Lucrezia, sposa – per volontà paterna e fraterna – di quell’Alfonso d’Este figlio ed erede del duca Ercole. Un principe estense, in quanto signore di Ferrara vassallo del papa, figura-chiave della politica del tempo.
Il nome di Alfonso era fatidico per la bella Lucrezia, che era allora ventiduenne e stava già al terzo matrimonio. Aveva sposato infatti nel ’92, ancora bambina, Giovanni Sforza duca di Pesaro: un matrimonio annullato rapidamente per consentirle di passare diciottenne nel talamo di Alfonso d’Aragona, figlio naturale di Alfonso II re di Napoli. Ma nel 1500, a vent’anni, Lucrezia si era trovata vedova: suo fratello era responsabile dell’assassinio del consorte, poiché la “ragion di stato” del momento voleva che casa Borgia si allontanasse dall’alleanza aragonese per avvicinarsi a quella francese. E non c’era nessuno in Italia più filofrancese della dinastia estense. A Ferrara Lucrezia giunge nel 1502, con una schiera di “zentilhomini romani et spagnoli”, come scriveva Elisabetta Gonzaga a Vincenzo Calmata. Indossò per le nozze un fastoso abito nero e oro destinato a restar nella storia. Come del resto l’intera cerimonia nuziale, celebratissima dalle cronache e pertanto molto ben documentata.
Bei colori cortigiani; ma anche vicende tragiche e senza dubbio oscure, che sottolineano come la bella e fragile Lucrezia fosse trattata troppo spesso dai congiunti come merce di scambio politico-diplomatica. Da qui, tra l’altro, una fama di avvelenatrice che si fondava sui suoi  interessi per i profumi e la farmacologia ma che non trova seri riscontri sotto il profilo storico.
La storia vera, appunto, conosce ben altra Lucrezia. Una sovrana di raro equilibrio, pur attraverso i non facili casi della vita: nel 1503, la rovina della sua dinastia in seguito alla morte del padre e alla prigionia del fratello la liberarono dal pesante fardello della sua nascita. Seppe essere donna di alti e riservati sentimenti, alla quale nel 1505 il Bembo dedicò gli Asolani. E nella sua Ferrara passò anni sereni, confortati anche da un crescente interesse religioso: teneva una corrispondenza fittissima con la monaca Laura Magnani, della quale devotamente apprezzava quelle virtù profetiche che interessavano anche la duchessa di Urbino Elisabetta Gonzaga. Molte sono le missive a carattere devoto redatte da Lucrezia, che apprezzava soprattutto i domenicani osservanti e una cui nipote – Camilla, figlia di Cesare Borgia – viveva dal 1510 in un convento di clarisse che i suoi ducali parenti avevano fatto costruire.
Lucrezia incontrò sua immatura morte a causa di parto nel 1519, non ancor quarantenne (certo comunque la sua era stata una tardiva e quindi pericolosa gravidanza). Inizialmente “spesa” dal padre nei meandri della politica italomeridionale, il suo destino l’aveva portata sulle rive del Po. Aveva saputo portare il suo fardello storico fatto di gioielli, di segreti, di essenze profumate e di devozione con dignità e con riverenza. Al suo ducale consorte aveva dato tre figli: Ercole, che fu duca di Ferrara secondo del suo nome; Ippolito, il famoso cardinale creatore di Villa d’Este; Francesco marchese di Massa Lombarda. Gli studiosi avevano da tempo familiare e “disincantata” la sua immagine, che fu cara anche a Ludovico Ariosto; che oggi esca dalle brume d’una sottocultura che la vuole ancora dissoluta e avvelenatrice, è senza dubbio una buona cosa. La fantasia e l’intelletto d’amore di Maria Paola Forlani, restituendoci la bellezza con i ricchi e luminosi colori ai quali ci ha abituati e facendo di lei ora una bellezza quasi botticelliana, ora un’intensa Dame à la licorne, mostrano una forza d’interpretazione storica che prevale stavolta sulla leggenda e sul mito ai quali di solito l’artista ama ispirarsi. Bene pinxisti Paula, de domina Lucretia.

Franco Cardini