sabato 29 aprile 2017

"ECCO IL GRAN DESCO SPLENDE"

“Ecco il gran desco splende”

Lo spettacolo del mangiare
Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto
speciale fra persone, mediato da immagini
(Guy Debond)

Cucina non è mangiare. Ѐ molto di più. Cucina è poesia.
(I Leinz Beck)


Si è inaugurata a Mantova, fino al 17 settembre, la mostra clou di Palazzo Ducale per il 2017, a cura di Johannes Ramharter e Peter Assmann   (catalogo Tre Lune Edizioni) dedicata allo spettacolo e alle arti del banchetto rinascimentale nell’anno in cui Mantova – dopo i fasti di Capitale Italiana della Cultura – è stata scelta insieme a Bergamo, Brescia e Cremona quale Capitale Enogastronomica Europea.
Con straordinari e suggestivi contributi, la mostra ricostruisce lo scenario sfarzoso della convivialità dei principi nel corso di due secoli, dal Cinquecento al Settecento: i segreti del convito, la tavola imbandita, la teatralità degli arredi, le tovaglierie, i vasellami, i riti del sedersi e del conversare, le vesti e, le luci, la musica, la poesia e i colori.
In un percorso di oltre cento preziose opere provenienti da mezza Europa, nell’atmosfera splendida e scenografica del banchetto emerge quanto fosse importante per i grandi del tempo affidare alla tavola, nelle sue molteplici interpretazioni, il messaggio della propria grandezza e magnificenza, della propria superiorità culturale.
Oltre ai servizi di posate che accompagnavano l’imperatore Massimiliano I nelle battute di caccia e alle posate da viaggio di Maria Teresa d’Austria, fa ritorno a Mantova il piatto che adornava la credenza di Isabella d’Este (in bella mostra il suo motto “nec spe nec meti”  [Né con speranza né con timore] ),
 accanto ad altri magnifici piatti e saliere con lo stemma dei Gonzaga, scampati allo spettacolo fragoroso dell’opulenza di banchetti in cui “si levavano, si gettavano, e rompevano e grande era certo il numero, poiché gli sig. Scalchi, imbandirono a ventiquattro piatti”, cambiando “quattro volte la tovaglia… per quella splendidissima virtù, che si chiama magnificenza”. I resoconti dell’epoca così descrivono, ad esempio, il convivio del 22 settembre 1587, offerto in Palazzo Ducale per l’incoronazione del duca Vincenzo I.
E poi i trattati di alta cucina: il volume a stampa (1549) di Cristoforo Messisburgo, cuoco di Carlo V (così raffinato che l’imperatore volle nominarlo conte palatino), quelli di Bartolomeo  Scappi, cuoco segreto di Papa Pio V (Venezia, 1570) e del nostro Bartolomeo Stefani (1662). I pezzi esposti in mostra arrivano dall’Italia (Milano, Verona, Firenze, Parma, lo stesso Ducale e la Teresiana) oltre che dai musei e abbazie di mezza Europa: Salisburgo, Viennna, Reichersberg, Bratislava, Kremsmünster, Graz oltre a un cospicuo prestito della magnifica collezione Esterhazy da Eisenstadt.

“da mangiare con gli occhi”, frase che tutti hanno pronunciato almeno una volta davanti a un dolce irresistibile, a un manicaretto stuzzicante. Mangiare è e deve essere un piacere, si mangia con tutti i sensi: con gli occhi per la sensualità estetica che un cibo ispira; con l’olfatto per appropriarsi dei sentori, dei profumi che ne scaturiscono; ma anche con l’udito perché il tintinnio delle posate sui piatti rientra nella convivialità, la stimola nell’aspettativa, nel presagio del piacere del cibo; anche il tatto fa la sua parte perché è con le mani che si spezza il pane, sono i palmi e le dita che accarezzano la buccia di velluto di una pesca; infine al gusto spetta la parte del leone, le papille lavorano intensamente ma sempre in sinergia con gli altri sensi per dare forma all’emozione sensoriale del mangiare.
Emozione e spettacolo, allora, sono cose da golosi epicurei? No di certo, anche sulle tavole più modeste ogni giorno viene celebrata puntualmente una mise en scéne che esige tempi e spazi calibrati: un primo, un secondo, contorni e dessert secondo un canone dal quale ancor oggi poco si deroga. Sulle mense importanti, poi, resistono rituali di vero sfarzo grazie ad accessori e orpelli raffinati, uniti ai preziosismi di camerieri che accudiscono incessantemente i commensali, un teatrino di gesti e movenze. Anche questo è spettacolo.

La tradizione mantovana del cibo è famosa, anche come elemento di edonismo in progress, con sfarzi spettacolari nel suo passato, stimolata dalla sfrenata ambizione dei Gonzaga nel distinguersi tra le corti rinascimentali per mecenatismo culturale e lusso esibito anche a tavola. Un fermo – immagine che nel tempo e nel gusto è rimasto intatto e ha contribuito a creare un’attrazione gastronomica di continuo successo.
Altra ricchezza spettacolare del mantovano sta nel territorio: a nord le colline moreniche con vigneti e buoni vini, in pianura, la campagna che dà cereali, riso, pasture per bovini, perciò carni e latticini, poi le terre d’acqua con il pesce. Un paradigma di opportunità a dir poco eccezionale.

Una domanda si pone: se lo spettacolo vero del mangiare più che l’eleganza e la ricercatezza delle tavole o il semplice nitore della mensa, non sia semplicemente la sua origine primigenia, legata al riperpetuarsi della meraviglia di cicli della natura che diventano alimento – vita, attraverso processi remoti e immutati, una necessità che può tramutarsi in momento di poesia, guai se si trattasse solo di raggiugere la sazietà. Ed è molto probabile che questa differenza i mantovani l’abbiano ben assimilata nel loro dna, con o senza i Gonzaga.

Maria Paola Forlani




venerdì 28 aprile 2017

TEN YEARS AND EIGHTY- SEVEN DAYS

Ten Years

And
Eighty – seven
Days
“Dieci anni e ottantasette giorni”, il progetto fotografico di Luisa Menazzi Moretti che descrive in fotografia il tempo di morire dei detenuti in Texas.

“L’arrivare con le catene non mi imbarazza più. A volte penso che ci metterebbero
anche al guinzaglio, se potessero farla franca. Non avrei mai pensato che indossare le manette potesse diventare un modo di vivere”. Prima dell’ultimo atto, Martin Draughton, ha voluto prendere in moglie la sua amata. Nessun tocco è concesso, un muro di vetro separa mani e sguardi. “L’anello al dito dello sposo potrà essere infilato solo dopo l’esecuzione”, recita il regolamento, “Ci sono giorni che non ho voglia di uscire dalla mia cella. Sono quelli che temo di più perché è proprio così che ho iniziato a soffrire di depressione”, dice Arnold Prieto, anche lui condannato all’iniezione letale. “Mi sveglio e cerco di fare quel che posso. Lavo tutte le pareti, riordino la cella due, tre, quattro volte al giorno.
Ten Years and Eighty-Seven Days / Dieci anni e ottantasette giorni, una mostra aperta al pubblico fino al 4 giugno 2017, promossa dal Comune di Siena, dall’Istituto Italiano di Cultura di Berlino e dal complesso museale Santa Maria della Scala ed è  curata dalla stessa fotografa Luisa Menazzi Moretti.
Luisa Menazzi Moretti è nata a Udine nel 1964. All’età di tredici anni lascia l’Italia per trasferirsi con la famiglia negli Stati Uniti, dove in Texas, nella città di College Station, frequenta le superiori per proseguire a Houston i suoi studi universitari. In quegli anni inizia la sua passione per la fotografia; frequenta corsi prediligendo la stampa e lo sviluppo in bianco e nero. Ritorna a vivere in Europa, si laurea in Lingue e Letterature straniere Moderne, lavora a Londra per poi, dopo alcuni anni, trasferirsi in Italia. Le sue opere sono state esposte in musei e gallerie pubbliche e private e fanno parte di collezioni internazionali.

Dieci anni e ottantasette giorni è il tempo di morire (medio) per chi attende l’esecuzione capitale nel braccio della morte di Livingstone, Texas, tra condanna, appello e tentativi di commutazione della pena da parte di detenuti.
“Dieci anni e ottantasette giorni” è il progetto con cui Luisa Menazzi Moretti ha dato corpo alle parole di quei detenuti trasfigurando in fotografia un periodo fatto di disperazione e sottile speranza. Sedici immagini, realizzate a grande dimensione, venute alla mente leggendo lettere pubbliche e atti ufficiali, poi tradotte in scatti, distanti da ogni realismo: “ non volevo fare un lavoro di reportage sui penitenziari di Huntsville e Livingstone, di cui esistono già ottimi esempi come ‘Into the Abyss’ di Wemer Herzog”, racconta la fotografa ad Huffington Post, “Ne descrivere casi singoli, ma soffermarmi sulla parola, pensando alle immagini che potrebbero popolare le giornate dei condannati. Anche se la morte è sempre sullo sfondo, il mio è un progetto sulla vita”. La scelta di affrontare un tema così potente non è casuale. “Mi sono trasferita in un paesino a pochi Km da Livingstone all’età di tredici anni, e in Texas ho frequentato le scuole, poi l’Università. Il braccio della morte mi ha sempre fatto un certo effetto”. Per realizzare il lavoro, Menazzi ha scavato tra 538 testimonianze di persone decedute dal 1982, data di introduzione dell’iniezione letale (prima si utilizzava la sedia elettrica).

“L’ultima esecuzione risale al 5 ottobre scorso. Ѐ stato ucciso un uomo che si era dichiarato colpevole e aveva dichiarato di volersi sottrarre alla vita di inferno del carcere”, racconta “ lo scorso agosto, invece, due esecuzioni sono state rimandate, tra cui quella di un ragazzo, entrato nel braccio della morte a 15 anni (oggi ne ha 34 ) la cui pena capitale è stata rinviata per quattro volte”. Perché, a finire tra le mura di Livingstone, dove le vecchie sbarre delle celle hanno lasciato il posto a porte di alluminio per scongiurare ogni tentativo di fuga, “sono spesso giovanissimi tra i 18 e i 24 anni, con famiglie disastrate alle spalle, storie di droga e di armi. Vivono nel braccio della morte in totale isolamento, senza alcun programma di recupero. L’unico legame con il mondo esterno è una radiolina. In queste condizioni anche le piccole cose acquistano un valore straordinario”. Come un cielo azzurro, sbirciato due volte la settimana in un cortile tra alte pareti alte otto metri. “Vederlo è davvero bello”, scrive nella sua lettera Armold Prieto.

Si può rappresentare visivamente il pensiero espresso dalla parola? Ѐ possibile dare linee, forme, colori alla logica sequenziale di un racconto, alle considerazioni articolate di una lettura o di una intervista? E si può raccogliere questa sfida, di per sé così impegnativa, utilizzando il mezzo artistico della fotografia, ovvero quel linguaggio che più di ogni altro sembra legato a una riproduzione mimetica della realtà aliena dal pensiero verbale? Nel suo progetto ispirato dalle parole dei carcerati nel braccio della morte in Texas Luisa Menazzi Moretti si è posta esattamente questo compito dando vita a un corpo a corpo serrato tra immagine e parola, tra rappresentazione visiva e rappresentazione verbale. Non si tratta di un velleitario tentativo di ‘traduzione’ letterale tra codici di due linguaggi espressivi profondamente diversi. Semmai sono proprio gli scarti semantici tra parola e immagine a essere interessanti. La fotografia si incunea tra i silenzi e le ombre del non detto, si pone a lato – e non di fronte – al testo scritto, come sua possibile estensione, non come rispecchiamento. Ѐ così che le immagini si riverberano sulle parole, illuminandole di suggestioni che una prima lettura non rivelava.

Nulla è più concreto della realtà di un prigioniero che aspetta il giorno indeterminato della sua esecuzione: la cella di pochi metri quadrati, le scarse ore di luce, i colloqui con i familiari, i pochissimi oggetti quotidiani. Ѐ uno stato che porta nel caso migliore a riflettere su se stessi e sul mondo, molto più frequentemente alla depressione e al disagio estraniante. L’attesa della morte, ineludibile nella vita di ogni uomo, assume qui una dimensione perversa, perché totalizzante.

Tuttavia le immagini di Dieci anni e ottantasette giorni rifiutano l’enfasi e sono lontane dal gesto eclatante della denuncia politica, così come da ogni ‘realismo’.
Sebbene l’artista consideri la pena di morte <<un’assoluta e feroce contraddizione>>
in uno Stato che fa della difesa dei diritti civili uno dei suoi principi fondamentali, ed esprima a chiare lettere il proprio <<sdegno>> in proposito, le sue immagini non mettono a fuoco la crudeltà dell’esecuzione, la violenza di un potere esercitato in nome della presunta sicurezza collettiva contro il singolo; il loro spazio è invece quello dell’estenuante attesa interiore dei prigionieri, attraversata da fantasie, desideri, angosce.
Quanto più Luisa Menazzi Moretti si concentra sull’apparente materialità del rappresentato – le lineette che segnano i giorni dell’attesa, i tasselli incastrati di un puzzle – tanto più le sue immagini tendono a farsi astratte. Ma è proprio in questa inquietante astrazione che esse finiscono per corrispondere alla concretezza dello spazio esteriore esposto nelle parole dei condannati.


Maria Paola Forlani


mercoledì 5 aprile 2017

FACCIAMO PRESTO !

Facciamo presto!

Marche 2015 – 2017
Tesori salvati, tesori da salvare

La mostra Facciamo presto. Marche 2016 – 2017: tesori da salvare: aperta al pubblico fino al 30 luglio nell’Aula Magliabechiana degli Uffizi (catalogo Giunti) presenta una selezione di capolavori provenienti dalle cittadine e dai paesi dell’entroterra appenninico delle Marche meridionali, colpiti dal terribile terremoto che ha quasi distrutto o reso inagibili le chiese, i palazzi e i musei dove questi oggetti d’arte erano custoditi, spesso fin dalla loro origine. Le opere esposte sono tra le gemme più preziose di un territorio che sorprende per la ricchezza straordinaria e inattesa del suo patrimonio d’arte e di storia: una raffinata raccolta di dipinti su tavola e su tela, di sculture lignee, tessuti e oreficerie.

Si tratta di un’opportunità molto importante oltre che eccezionale per far conoscere al pubblico alcuni tesori dei territori dell’entroterra marchigiano meridionale, spesso tuttavia trascurati e negletti dai resoconti relativi agli eventi sismici che hanno martoriato il Centro Italia. La mostra ha infatti come intento primario quello di rammentare perentoriamente a tutti l’estrema urgenza di salvare dalla distruzione e dalla disperazione questo patrimonio.

Le splendide opere d’arte esposte sono state scelte con il criterio di rappresentare tutto il territorio marchigiano colpito dal sisma, molto vasto e comprendente parte delle province di Ascoli Piceno, Fermo e Macerata, nonché gli enti coinvolti nella tragedia in quanto proprietari di questi stessi beni, vale a dire le Diocesi, i Comuni, gli Ordini religiosi regolari maschili e femminili. Quelle in mostra e le tantissime altre opere rimosse e portate nei vari depositi temporanei allestiti dopo i crolli e sommovimenti tellurici di agosto e ottobre del 2016 erano per lo più custodite sino alla loro creazione nelle chiese, nei palazzi e in seguito nei musei di una vasta area dell’entroterra appenninico delle Marche meridionali.

Questi edifici per lunghi anni saranno una vera giungla di tubi innocenti e di impalcature e occorreranno decenni per far tornare nella loro sede originaria tutte le opere d’arte che sono state portate via in fretta per sottrarle alla distruzione. Un’operazione che stanno ancora compiendo con tanta fatica e coraggio per il pericolo di possibili e ulteriori crolli degli edifici, persone generose e competenti: i vigili del fuoco, i carabinieri, l’esercito, il personale delle soprintendenze e i volontari della protezione civile.


La scelta delle opere da esporre è stata fatta con l’intenzione di mettere in luce alcuni aspetti cruciali della cultura figurativa di questi territori a partire dal Medioevo fino al XVIII secolo.

Ad accogliere i visitatori della mostra è il capolavoro della pittura marchigiana del Quattrocento, la pala raffigurante nella tavola principale L’Annunciazione e nella lunetta sovrastante il Cristo in pietà del Museo di Camerino, che si può considerare l’opera manifesto del Quattrocento camerte realizzata dal riscoperto Giovanni Angelo d’Antonio da Bolognola, protagonista principale di questa scuola.
Quella di Camerino è una delle numerose scuole pittoriche marchigiane del Quattrocento, ognuna con i suoi artisti e con una precisa fisionomia di stile e di cultura. A rappresentare in mostra la scuola di San Severino Marche, è la preziosa tavoletta cuspidata con la Madonna e il Bambino, realizzata intorno al 1480 da Lorenzo D’Alessandro per la chiesa delle Clarisse di San Ginesio, in cui si riconoscono i termini essenziali della formazione artistica e del primo svolgimento stilistico del pittore settempedano, vale a dire il riferimento privilegiato al folignate Nicolò Alunno e i contatti con Carlo Crivelli.
La personalità di quest’ultimo, un grande pittore veneziano errante passato da Venezia a Padova, da Padova a Zara, da Zara alle Marche – dove risulta documentato a Porto San Giorgio e Massa Fermana e quindi Ascoli e Camerino per poi finire i suoi giorni forse a Fabriano – ebbe una importanza fondamentale per la cultura figurativa delle Marche, perché a lui si deve, insieme al fratello minore Vittore, la diffusione di una corrente pittorica le cui radici sono nel mondo padovano, che si sviluppa tra Dalmazia e Marche definita come “Rinascimento Adriatico”. A rappresentare in mostra i due fratelli veneziani sono la Madonna di Poggio di Bretta di Carlo, oggi al Museo diocesano di Ascoli Piceno, e la Madonna adorante il Bambino di Vittore nella chiesa di san Fortunato di Falerone.


Nel 1501 arrivò a Matelica nella chiesa dei Francescani, dove tuttora si conserva, uno dei capolavori assoluti della pittura del primo Cinquecento italiano, la grandiosa ancona con la Madonna in trono e i santi Francesco e Caterina d’Alessandria del romagnolo Marco Palmezzano, ancora completa della sua magnifica cornice lignea intagliata e dorata.


La pittura del Sei e del Settecento nei territori marchigiani colpiti dal terremoto è rappresentata in mostra da quattro tele di grande fascino la prima raffigura La Vergine col Bambino appare a Santa Francesca Romana. La seconda tela raffigura la
Conversione di san Paolo ed è un’opera cardine di Giovan Battista Gaulli, detto il Baciccio, databile agli anni tardi della sua attività intorno al 1700, quando il pittore genovese si apre verso la nuova sensibilità settecentesca.

La tela di Pier Leone Ghezzi, discendente da una famiglia originaria di Comunanza ma attivo a Roma nella prima metà del Settecento, è una realistica testimonianza figurativa delle conseguenze di un rovinoso terremoto ed è pertanto un interessantissimo esempio delle nuove istanze della pittura settecentesca nella regione, precocemente orientata verso la rappresentazione di cronaca, e non solo di storia.

L’arrivo nel 1740 a Camerino nella chiesa dei Filippini della grandiosa pala d’altare con la Visione di san Filippo Neri, capolavoro di Giambattista Tiepolo, chiude il tradizionale e secolare interscambio culturale tra le Marche e Venezia.



Maria Paola Forlani



martedì 4 aprile 2017

MARIA LASSNIG

Maria Lassnig

Woman
Power


Le Gallerie degli Uffizi, in collaborazione con l’Albertina di Vienna, hanno dedicato, a Palazzo Pitti – Andito degli Angiolini, una mostra all’austriaca Maria Lassnig (1919-2014), considerata, insieme a Louis Bourgeois e Joan Mitchell, una delle più importanti artiste della seconda metà del XX secolo, a cura di Wolfang Drechsler, aperta fino al 25 giugno 2017 (catalogo Sillabe).
Negli ultimi anni alla Lassnig è stato sempre più spesso riconosciuto un ruolo di pioniera del movimento femminista nelle arti visive, un riconoscimento che è stato consacrato quasi al termine della sua vita, nel 2013, con l’assegnazione del Leone d’oro alla carriera dalla Biennale di Venezia.

Nel 2014, anno della sua scomparsa, il MoMA di New York dedicò a Maria Lassnig una grande retrospettiva conferendole così un riconoscimento artistico universale; nel 2016 è stata la volta della Tate Modern di Londra a celebrare l’artista con una mostra.
L’esposizione fiorentina, che presenta venticinque opere, scelte nel vasto arco temporale di produzione dagli anni Sessanta del secolo scorso al primo decennio del nuovo millennio, offre uno spaccato significativo dell’evoluzione formale di Maria Lassnig.
Essa evidenzia quanto il tema ricorrente sia stato se stessa, la sua persona intesa in senso strettamente fisico, il suo corpo. <<La sua arte>>, come afferma il curatore della mostra << è autoriferita, egocentrica, con opere costruite in stragrande maggioranza da autoritratti, spesso anche quando portano titoli diversi. Si tratta tuttavia di autoritratti in cui la fisionomia svolge un ruolo marginale. In queste opere il mondo esterno, visitabile, funge per lo più da mero involucro per il mondo delle sensazioni interiori, e lo stesso vale anche per le opere, decisamente realistiche, degli anni newyorkesi>>.

Il rapporto tra esteriorità e interiorità permea in maniera quasi totale il vasto corpus artistico della Lassnig. Un ossessione su se stessa che, parallelamente alla variabilità dei mezzi formali adottati, rappresenta la particolare cifra dell’artista austriaca, assegnandole una posizione di unicità e specificità nel panorama artistico nazionale e internazionale.

Nonostante l’estremismo del confronto con se stessa, costante con la sua arte, Maria Lassnig era tutt’altro che vanitosa: era onesta, onesta fino alla soglia del dolore, e talvolta, anche oltre, esibendo apertamente i suoi sentimenti, la sua sensibilità. La sua auto-rappresentazione è, come dichiarò lei stessa, “solitudine della critica, incapacità di sfruttare gli altri, meditazione e applicazione di un bisturi chirurgico su un oggetto volontario, l’Io”.

Il concetto chiave che più di ogni altro caratterizza l’opera di Lassnig, è quello di Körpergefühl o “consapevolezza corporea”; infatti analizzando introspettivamente la vera natura della propria condizione, seppe usare il mezzo artistico per esprimere sensazioni corporee. Sono numerosi gli autoritratti che danno prova della particolarissima forma di autoanalisi cui l’artista dalla profonda sensibilità, si sottoponeva costantemente.


Nel corso degli anni Settanta durante il suo soggiorno in America, la Lassnig scoprì un ulteriore mezzo espressivo nei film di animazione e trovò tra l’altro un impiego alla Walt Disney Production. Realizzò cortometraggi con mezzi rudimentali, disegnati e scritti da sola, oltre che filmati e doppiati personalmente.

Queste opere, che risultavano molto più narrative e più facilmente comprensibili rispetto alla pittura interiorizzata e sublimata, oltre a portarle riconoscimenti in rassegne e festival di cinema di avanguardia avvicinarono l’artista ai movimenti femministi dei primi anni Settanta. Il loro contenuto ironico e facilmente comprensibile li rese utilizzabili anche come strumento di lotta.


Manifesto dell’impegno della Lassnig per l’emancipazione femminile, in particolare nell’ambiente artistico dominato dagli uomini, in mostra il dipinto Woman Power,
il cui titolo emblematico è stato ripreso anche per la mostra.

Nella maturità, a partire dal 1999, dopo la seconda grande retrospettiva su Lassnig a Vienna, si moltiplicano le produzioni caratterizzate come opere della maturità.
 I Pescatori di idee del 2001 succhiano i pensieri e qualità pittoriche dell’artista, i Cappelli dei contadini del 2002 raccontano esperienze rurali e Il dolore del 2003 sembra un’esperienza ricorrente.

Tralasciando la “ concezione drammatica del mondo”, una frase scritta nel 1956 da Werner Hofmann sull’allora settantenne Oskar Kokoshka può illustrare anche alcuni aspetti delle ultime opere di Maria Lassnig: “Questo lavoro della maturità non rappresenta un’appendice, ma pieno compimento e ramificazione, e al contempo approfondimento e sublimazione di una concezione drammatica del mondo in una semantica universale”. E qui si può aggiungere: in Maria Lassnig non solo pieno compimento e ramificazione, non solo approfondimento e sublimazione, ma anche la prosecuzione e il completamento di una visione pittorica unica.

Non esiste probabilmente altro artista – non solo nel XX e all’inizio di questo XXI secolo – che sia riuscito a dar vita a una tale ricchezza di composizioni formali pur mantenendo un nucleo tematico relativamente costante ed ampio. Un’ultima riflessione: una produzione matura di rilievo è qualcosa che, ad oggi, si riscontra solo nella cerchia dei grandissimi della storia dell’arte. Una cerchia in cui finora, come si sa, non è mai entrata nessuna donna.





Maria Paola Forlani