lunedì 25 luglio 2016

NOTTE DI ATTESA

Il Teatro Povero di Monticchiello compie 50 anni
Autodramma 2016
Notte di Attesa

Il Teatro Povero di Monticchiello è fra le più longeve esperienze di teatro di ricerca italiane e non ultimo per la “comunità” varia e affezionata di pubblico, amici, studiosi di teatro, antropologia, sociologia che ogni anno torna a partecipare a questo rito vitale, poetico e di ispirazione. Semplice e strabiliante è quello che accade dal 1967, in questo borgo medioevale della Val d’Orcia (Patrimonio UNESCO): un intero paese affronta la vita con il Teatro. Ogni estate va in scena uno spettacolo che è ideato e realizzato dai suoi abitanti, che, riflettendo su loro stessi, diventano specchio di quanto accade a tutti. Il momento dell’incontro col pubblico è il tentativo di creare un senso condiviso delle trasformazioni in corso, delle nuove sfide riavvolgendo ogni volta quel filo rosso che riporta alle origini culturali, sociali e umane di quest’esperienza. Tutto iniziò “dal basso”, in un piccolo centro senza un teatro e accadde mentre nel resto del mondo fervevano esperienze teatrali che dell’abbattimento del confine tra palcoscenico e vita avevano fatto il centro dell’indagine.

Come diceva Franco Patruno al convegno di Monticchiello su il “Teatro delle radici” del 1992
“…abitare una forma a cui inizialmente qualcuno ha dato un modello, e poi crescere insieme e andare, come dice Pareyson, verso la possibile riuscita, è una crescita personale e comunitaria. E quando parlo di crescita estetica, intendo proprio dire vivere una forma; in questo caso vivere e abitare una forma teatrale…
Il contenuto non è l’argomento storico [], ma è l’idea che via via si formalizza sino al momento dell’epifania, della messa in scena. E il contenuto diventa “forma” nella quale voi abitate, diventa necessariamente un autodramma, in cui voi esprimete voi stessi e la vostra visione del mondo”.

Il titolo di quest’anno racconta di una denuncia mai abbandonata, delle crescenti difficoltà per la sopravvivenza laddove il costante riferimento ai “numeri” ha segnato e segna un crescente abbandono del valore “umano” di chi vive realtà considerate insignificanti. Il filo conduttore dello spettacolo numero 50 si snoda e si sviluppa intorno al tema di un “assedio”.

Una notte di assedio, circondati di mura pericolanti e instabili, minacciati da oscuri crolli. Una notte insonne, di trepidazione, passata a confrontarsi sul da farsi e provando a rimanere saldi nei pensieri. Ma inevitabilmente aggrediti dal timore, dal bisogno di capire quel che davvero accade fuori e cosa è accaduto un tempo, prima che si arrivasse a questo punto. Una veglia inquieta, la “notte di attesa” del Teatro Povero, a cinquant’anni del primo spettacolo portato in piazza. Il nemico è dentro o è solo un pretesto per resistere, per darsi uno scopo e un progetto, un motivo per stare insieme? E la paura di disperdersi non nasconde forse anche il desiderio di partire, di vivere e reinventarsi, di incontrare l’altro e l’altrove, la possibilità? E se mai fosse: cosa sarà indispensabile portarsi dietro? A cosa non si vuol rinunciare? Forse solo a quell’antica capacità di sentire la sofferenza, fosse anche muta.

“Assedio” inteso solo apparentemente come assedio tradizionale, con un esercito fuori dalle mura e un popolo dentro le mura poiché il riferimento è alla complicata situazione che stiamo vivendo, all’impossibilità di vedere con chiarezza quello che accade fuori, a valutare gli accadimenti con lucidità.
Si può anche ritenere, poi, che non ci sia un nemico e quindi nessun assedio e allora la percezione di un pericolo imminente trasforma la narrazione in visione dove la paura diventa l’unica entità da combattere. Per scoprire che ieri come oggi l’unica vera forza è trovare il modo di unirsi, raccogliersi, scontrarsi magari ma uscendo dalla solitudine, col teatro, ad esempio.

Le belle scenografie di Andrea Cresti, con le mura merlate, dalle cui finestrelle spuntano, in un dialogico gioco delle parti, gli attori assediati da “un dramma esistenziale” di ribellione concitata, come in un ‘fabulistico quadro di Gentilini”.
Ad un certo punto dalla platea entra in scena una donna e dice la ballata dell’assedio.

Avete guardato davanti a voi senza paraocchi
e
vi siete accorti
quanto sia affascinante
il mondo globalizzato
e il vostro piccolo mondo.
Ricco di stimoli e d’incontri imprevisti
Gioiosi come un grande arcobaleno
Di vividi colori
Avete guardato davanti a voi, a lungo,
quando si è diradata la nebbia;
avete guardato senza paraocchi e senza pregiudizi
e
avete visto un mondo affascinante
per la bellezza delicata e aggressiva della natura
e avete detto grazie alla vostra piccola vita.
Ma poi
Guardando e riguardando
Vi siete accorti che l’ingordigia spregiudicata,
l’invidia, l’ipocrisia, l’indifferenza che offende
e molto altro ancora
sono capaci di spengere i colori
ed immergere il mondo in una notte d’inchiostro
come fosse un assedio senza scampo.
E allora non resta che ascoltare.




Ma la ‘catarsi’ di questo autodramma appare nella terza scena.
Le mura cadono e così, anche, i merli, si sente il suono di un concerto di ottoni fortemente dissonante, la luce si fa surreale e una voce chiama i comandanti di un esercito immaginario e i comandanti sopraggiungono vestiti di tutto punto, con abiti sontuosi e fantastici. E sono tutti vecchi, molto vecchi e malmessi.

Sono gli attori che hanno costruito la storia del teatro in  quella piazza nei cinquant’anni di autodrammi trascorsi ed ora come icone riappaiono, per ravvivare la coralità della comunità ‘in attesa’,  e dare forma al dramma con la “bellezza” .
Concludeva Franco Patruno nel suo intervento al convegno ‘Il Teatro delle Radici’ “…la crescita di una comunità, il vivere un’esperienza estetica è un fatto pedagogicamente ed artisticamente fondamentale.”

Notte di Attesa, autodramma numero 50  ha aperto una finestra sull’universo umano: uno sguardo in più, fra tanti possibili, sulla sua ricchezza e complessità, sulla profondità del suo vissuto interiore e sulla difficile declinazione di quei legami che traducono l’amore nelle sue forme più varie.

Maria Paola Forlani


Teatro Povero di Monticchiello (Pienza-Siena)
Piazza della Commenda
Autodramma 2016
NOTTE DI ATTESA
Fino al 14 agosto, ore 21,15
(escluso 1 agosto)




giovedì 14 luglio 2016

OLTRE

“Oltre. In viaggio con cercatori, fuggitivi, pellegrini.”


<<Trovai un agente, corsi da lui e, col fiato in gola, gli domandai la strada. Sorridendo mi disse: “Ѐ da me che vuoi sapere la strada?”. Gli risposi: “Sì, da solo non riesco a trovarla!”. “Rinuncia, rinuncia!” mi disse, voltandosi come quelli che ridono di nascosto.>>
Mi ha sempre impressionato questo frammento di un racconto di Kafka, emblematicamente intitolato Rinuncia! perché può diventare una parabola dell’<<uomo labirintico>> (alla Borges o alla Robbe-Grillet) che vive immerso in una rete di parole, voci, idee, sollecitazioni. Egli naviga nel mare di Internet come un Ulisse che non ha, però, alle spalle nessuna Itaca e, quindi, non sa dove volgere la prua della nave per puntare a una meta.

Viaggiare è il simbolo dell’ insopprimibile desiderio dell’uomo di trovare senso, di superare se stesso, di vivere in pienezza. La nuova mostra di Illegio (UD) – aperta fino al 9 ottobre 2016 – narra proprio  questo. E lo fa da subito con il suo titolo:
‘Oltre. In viaggio con cercatori, fuggitivi, pellegrini’.
Il percorso suggestivo e raffinato per la rarità delle iconografie e per la profondità e l’attualità dei temi, presentati in oltre quaranta dipinti su tela e su tavola, suddivisi in cinque sezioni tematiche, provenienti da 30 collezioni pubbliche e private italiane e europee. Le opere scelte in un arco temporale di cinquecento anni (le più antiche, come la tempera su tavola di Mariotto di Nardo, Storie di San Nicola, risalgono al primo ventennio del Quattrocento, le più recenti, La Barca di Caronte di Jose Benlliure y Gil, è datata 1919), riconducono a quattro fonti principali – la letteratura mitologica greca e latina, la Sacra Scrittura, la letteratura cristiana medioevale, la Divina Commedia – e immergono il visitatore in percorsi, cammini, naufragi tormentati e ricerche avventurose, esodi e fughe.

Il cuore della mostra di Illegio è specialmente in alcuni capolavori, che riflettono le diverse esperienze di mobilità umana. Uno è firmato dal grande fiammingo Jacob Jordaens, nel 1652, La Sacra Famiglia in fuga su una barca –
evento e prestito eccezionale: proveniente dall’imponente Castello di Skokloster, sul lago Mӓlaren, non lontano da Stoccolma -: c’è tutto, in quel quadro, intensità di fede e finezza d’arte, disperati e spensierati, passato e presente. Ѐ toccante, in effetti, rivedere in quella scena dipinta dal maestro di Anversa il barcone sul quale Cristo viaggia sulle rotte dei profughi di oggi. E di fuggitivi si ragiona anche davanti all’impressionante tavola del museo Borgogna di Vercelli, dipinta da Bernardino de’ Donati agli inizi del Cinquecento, che mette in scena Enea alla corte di Didone.
Altro momento forte dell’esposizione è la grandiosa Adorazione dei Magi proveniente dagli Uffizi, opera di Sandro Botticelli, del 1500 circa, tra le sue ultime opere, mistica, strana e popolatissima, intrisa degli echi delle profezie del Savonarola. Su quella tavola dipinta si danno convegno i cercatori di Dio del mondo intero. Quanto ai pellegrini, ne vediamo di antichi e di recenti, tra predelle di squisita ricchezza, come quella di
Lorenzo Monaco dal Museo di San Marco di Firenze, San Nicola che salva i naviganti, del 1415 circa, e tele che mostrano le vie della preghiera personale anche valicando i monti, come nell’infiammato dipinto del 1859, a firma di Ferdinando Walmüller, Il malore del pellegrino, dal Leopold Museum di Vienna. Sullo stesso piano, di ciò che era e di ciò che è, anche La barca della vita di Domenico Morell, il quale dipinge pensando all’Italia come a una barca impaludata. Sulla quale c’è Dante che indica la strada infervorando i presenti.

Un ricco nobile che sta seduto su un povero oppresso. Altra gente che pensa agli affari suoi. E c’è solo un ragazzino che si preoccupa di disincagliare la barca e fargli prendere finalmente il largo. Ѐ il 1859. La percezione degli intellettuali sulla situazione italiana vedeva un glorioso passato nelle arti e nella letteratura, una situazione sociale di immobilità e di oppressioni ancora evidenti, forse qualche giovane che li farà ripartire. In questo percorso fatto di ‘cercatori, fuggitivi, pellegrini’, <<la vera conclusione della mostra – ricorda Alessio Geretti, curatore della mostra – è la sua partenza>>: ‘La Sacra Famiglia in fuga su un barcone’, di Jacob Jordaens, scelto come ‘copertina’ della mostra. <<La barca della Chiesa e dell’umanità. Sempre in viaggio in un mare un po’ tempestoso, tra sereno e temporale nella ipotesi che il nostro viaggio non sia destinato al naufragio, ma ad approdare a un buon esito>>.


Il comitato San Floriano con le sue mostre ed attività culturali, ad Illegio ha coinvolto tutto il paesino di 360  anime, dove si è costruito, nel tempo, qualcosa di originale e dove tutti sono e si sentono parte integrante di un unico piccolo-grande progetto.
Dice mons. Angelo Zanello (presidente del comitato di san Floriano): <<Con le nostre iniziative desideriamo diventare sempre più capaci di uno sguardo sull’universo culturale che ha costruito la nostra civiltà. 
In questa stagione in cui siamo tentati a fronte di spinte mondiali e rintanarci nei nostri piccoli mondi chiusi, infastiditi da gente che ci obbliga comunque a misurarci con una mondialità giunta sulla porta di casa, le proposte illegiane obbligano a camminare su sentieri in controtendenza perché sono sempre: un evento di comunità che supera ogni  individualismo, ogni particolarismo e ogni chiusura [].

Le biblioteche, luoghi di studio e di aggregazione, stanno chiudendo in tutte le Università d’Italia e non solo, a Ferrara Casa Cini tempio di giovani che amavano la ricerca, le letture e le mostre in una profonda solidarietà la diocesi estense ha preferito disperdere tutte queste generazioni di ragazzi e chiudere la ‘loro casa’.
Ad Illegio, insieme a 36 giovani carnici che conducono i visitatori, ci sono giovani stranieri, con loro, per narrare le grandi migrazioni da loro stessi drammaticamente vissute.

Dai giorni lontani dell’alluvione di Firenze e degli <<angeli del fango>> che accorsero a mettere in salvo i capolavori, il richiamo emotivo dell’emergenza agisce sui giovani come una molla. E ci  ricorda sostanzialmente due cose. Che ragazzi, in mezzo a mille difetti, hanno riserve pressochè inesauribili di entusiasmo di energia. E che una società capace soltanto di umiliarli e di deprimerli, affogando i loro sogni esistenziali in lavori sottopagati, <<stage>> inutili, sta commettendo l’unico delitto che potrebbe distruggerla: quella della loro speranza.



Maria Paola Forlani


lunedì 11 luglio 2016

FRANCESCO CLEMENTE

Francesco Clemente

Fiori d’inverno a New York


Nessuna parola nella critica del dopoguerra è più discussa del termine “postmoderno”. Questo in buna misura perché esso può essere compreso solo in relazione ad altri termini ampi, che sono ugualmente difficili da afferrare, come “modernismo”, “modernità” e “modernizzazione”. “Postmodernismo” inoltre è già paradossale di per sé. Da una parte, suggerisce che il “modernismo” – compreso come raffinato di ciascuna forma d’arte verso la sua essenza distinta o, al contrario, come critica di ogni distinzione estetica – è in qualche modo finito. Dall’altra, nel lavoro di alcuni artisti e critici pure collegati al termine, il postmodernismo ha offerto nuove intuizioni sul modernismo.

Questo vale, soprattutto, per la Transavanguardia, movimento italiano, teorizzato e sostenuto alla fine degli anni Settanta del Novecento dal critico A. Bonito Oliva.
In linea col pensiero –postmoderno, il termine intendeva alludere all’<<attraversamento della nozione sperimentale dell’avanguardia>> rivendicando il <<nomadismo>> degli artisti e la loro libertà di muoversi da un territorio stilistico all’altro nonché di mutare sensibilità da opera a opera, praticando un ecclettismo stilistico all’insegna del recupero e della commistione dei linguaggi appartenenti a diverse tradizioni. Non diversamente dal – neoespressionismo tedesco la Transavanguardia, sanciva il ritorno, dopo alcuni decenni di egemonia delle poetiche concettuali, a una pittura dai tratti marcati e dalle cromie violente, seppure in parte mitigati da una visione solare e ironica dell’esistenza, e il recupero di una figurazione più tradizionale e di una sorta di artigianato pittorico. Il nucleo storico della Transavanguardia, consacrato dalla sezione Aperto alla Biennale di Venezia del 1980, curata dallo stesso Bonito Oliva, era formato da S. Chia, E. Cucchi, N. De Maria,
M. Paladino e da F. Clemente.

Proprio a Francesco Clemente (Napoli 1952) il complesso museale Santa Maria della Scala di Siena ha voluto dedicare una mostra dal titolo Francesco Clemente. Fiori d’inverno a New York curata da Max Seidel con la collaborazione di Carlotta Castellani, (catalogo Sillabe)

Con questa mostra, Clemente, grande interprete della transavanguardia per le sue continue contaminazioni pittoriche ed espressive, ha voluto rendere omaggio a Siena, città che già nel 2012 ha dimostrato un vivo interesse per la sua arte con la prestigiosa nomina per l’esecuzione del drappellone del Palio.
In seguito a tale collaborazione l’artista ha realizzato dieci opere inedite, suddivise in due cicli distinti, da esporre nella città su invito di Max Seidel. Si tratta di dieci tele di grande formato realizzate dal pittore napoletano a New York a partire dal 2010 – ed esposte per la prima volta a Siena. La serie dei “Fiori d’inverno a New York” è costituita da cinque opere che hanno impegnato  l’artista per più di cinque anni (2010-2016).
Questo ciclo nasce in collaborazione con la moglie dell’artista, Alba Primiceri, nota attrice e coreografa, la quale ha scelto alcuni fiori presenti a New York nei mesi invernali che hanno costituito la base per una rielaborazione pittorica da parte di Francesco Clemente, contraddistinta dall’accurata selezione dei pigmenti di origine vegetale utilizzati per ciascun lavoro.
Sono presenti in mostra anche le opere della serie – intitolata “l’Albero della vita” – che rappresenta la summa del linguaggio
   adottato dall’artista fin dai suoi esordi, con riferimenti ad alcuni motivi presenti nella sua produzione e collegati al ciclo della vita.
L’iconografia di Clemente attinge liberamente dalle fonti più svariate come la mitologia classica, il buddismo, la storia e la letteratura orientale e l’immaginario contemporaneo, ma in essa è particolarmente evidente l’interesse per le tradizioni contemplative dell’India, paese dove l’artista ha vissuto per lunghi periodi fin dai primi anni Settanta e dove continua a soggiornare per molti mesi dell’anno.

Nella continua esplorazione della manualità della sua arte, Clemente ha sperimentato ogni tecnica senza affermare alcuna gerarchia: disegno, affresco, encausto, pittura ad olio, arazzo, incisione e collage. Esse costituiscono la cornice dei suoi lavori, l’insieme degli strumenti con cui si mette ogni giorno all’opera, il consumato mestiere che conferisce rigore al suo processo creativo.
Laddove il disegno e l’acquarello si configurano come tecniche veloci, leggere e trasportabili, la pittura ad olio, utilizzata per la prima volta nel 1982 per la serie The Midnight Sun,

ha dei tempi lunghi che vincolano l’artista a lavorare nel suo studio. Si tratta di una tecnica lenta, che modifica profondamente il rapporto tra l’artista e la sua opera. Al contrario “nell’acquarello il colore si ferma sulla carta in modo imprevedibile, c’è un gioco tra controllo e libertà che è congeniale alla mia immagine del mondo, dove tutto è reale e tutto è cambiamento continuo”.


Maria Paola Forlani

domenica 10 luglio 2016

L'OTTOCENTO APERTO AL MONDO

Il tempo di Signorini e De Nittis

L’Ottocento aperto al mondo
Nelle collezioni Borgiotti e Piceni

Il nuovo appuntamento viareggino della Fondazione Centro Mateucci per l’arte Moderna (aperta fino il 26 febbraio 2017) è molto di più di una pur emozionante carrellata di capolavori di De Nittis, Zandomenighi e Boldini affiancati a opere non meno superbe di Signorini, Lega e degli altri protagonisti del momento macchiaiolo.
Ѐ il racconto per immagini di una ‘singolar tenzone’, mai ufficialmente chiarita eppure vissuta con passione, tra due fini intellettuali e grandi esperti d’arte nella Milano di via Manzoni, all’indomani del secondo conflitto mondiale.

I due, Enrico Piceni (1901 – 1986) e Mario Borgiotti (1906 – 1977), avevano abitazioni e collezioni a pochi passi di distanza. Entrambi frequentavano il bel mondo della cultura del tempo.
Il primo, Piceni, si occupava della Medusa e dei Gialli per Arnoldo Mondadori, era traduttore di Dickens e della Brӧnte, amico di Montale e di Vergani. E soprattutto appassionato estimatore degli “Italiani di Parigi”, ovvero Giuseppe De Nittis, Federico Zandomenighi e Giovanni Boldini. Di loro cercava, e sapeva conquistarsi, opere di qualità sublime.

Il secondo, livornese di nascita e di spirito, giunse a Milano dopo essersi “formato” alle Giubbe Rosse di Firenze, amico di Papini, Cecchi e Soffici. Musicista e violinista. Ma soprattutto innamorato dei “suoi” macchiaioli. Che naturalmente cercava, anche lui dopo una selezione quasi maniacale, di condurre nella sua collezione.
Giuliano Matteucci, grazie alla collaborazione con la fondazione Enrico Piceni e il comune di Viareggio è riuscito a proporre al pubblico, insieme, le collezioni personali dei due protagonisti, la prima confluita nel patrimonio della Fondazione Piceni, la seconda tutt’ora nella disponibilità della famiglia Borgiotti (catalogo Fondazione Centro Mateucci).

Imiti d’arte
lo dolce stile
sia buon semplice
puro e gentile
sempre il sussiego
metta da parte
ed ami l’Arte
solo per l’Arte
Ascolti sempre
le voci arcane
e con miseri
spezzi il tuo pane
Mai nel tuo cuore
Metta in oblio
Il VERO, il PROSSIMO
FAMIGLIA e DIO.

Questi versi  tratti da una ispirata e commovente lettera del padre Francesco Borgiotti (arch. Istituto Mateucci, Viareggio) contiene, nella forma di enfasi nozionale, una illuminata predizione, ricca di un repertorio metaforico di sorprendente chiarezza, rivolta ad un Mario Borgiotti poco più che trentenne ma dalle grandi capacità ed intuizioni artistiche ed intellettuali.

Nel tempo, il crescente prestigio di Borgiotti, non solo come mercante e elegante collezionista, attrae su di lui l’attenzione e la fiducia di uno dei più raffinati editori, Aldo Martello. Grazie al suo supporto Borgiotti trova lo stimolo per portare a compimento, in tempi ravvicinati, le pubblicazioni biografiche più rilevanti degli artisti, dotandole di un carattere di maggiore scientificità.
In mostra, della collezione Borgiotti è presente  il significativo olio su tavola Tre artiglieri di Giovanni Fattori.

Scrive Borgiotti:<< I suoi soldati gli ispirarono composizioni spaziate, ricche di immagini e di forme ritmiche, in un’aura potentemente suggestiva e rivelativa della sua grande anima>>.

La comprovata lungimiranza estetica ed un intuito raro condussero Borgiotti ad includere un piccolo olio “ Barocciai. Vecchio centro di Firenze”  nel volume Coerenza e modernità dei pittori labronici, con il titolo Coperte rosse riconoscendone
  a pieno il valore di opera cardine, non solo nella produzione fattoriana, ma in quella delle generazioni a venire.

L’acquisto de La passeggiata di Vincenzo Cabianca da parte di Borgiotti risale all’agosto 1964, anno in cui concluse le fatiche della pubblicazione dei due tomi del
Genio dei Macchiaioli. Nella composizione il muro, elemento caro alle ricerche macchiaiole, risulta la componente di innesco dell’audace meccanismo figurativo:
mentre, come un diaframma compositivo, stringe i soggetti sul primo piano, inducendo ad un’osservazione analitica, esso funge da schermo rispetto al paesaggio, il cui accenno nella chioma autunnale non cessa di destare lo stimolo immaginativo.

Così nell’opera di Telemaco Signorini L’uncinetto, l’effetto di incantata sospensione è ottenuto nella combinazione perfetta di paesaggio e figura, in cui il primo non cede il primato alla seconda divenendone la cornice, ma con essa si fonde andando a comporre un univoco messaggio di delicata liricità.

Nato con il secolo, il 26 marzo 1901, Enrico Piceni aveva giusto trent’anni e, all’epoca, vantava una carriera da critico letterario, teatrale e giornalista. Con Mondadori cominciò a pubblicare raffinate monografie di artisti dell’Ottocento e maturando, nello stesso tempo, un’attività da collezionista sapiente. Dopo il ’45, Piceni, ormai nel pieno della maturità, proseguì nella sua ricerca di opere d’arte, sempre diviso tra la capitale lombarda e quella della Belle Ѐpoque, quando la città si divertiva tra mille luci e can-can. Età felice e spensierata, ma già con i germi del cataclisma, così ben rappresentata da Giovanni Boldini, mostro sacro della Parigi fin de siècle, sempre circondato da affascinanti e compiacenti modelle, spesso di alto rango. Dell’artista ferrarese (Ferrara 1842- Parigi 1931) in mostra è presente

Ritratto dell’attore Coquelin Aînè. Innamorato della capitale francese, dove visse oltre mezzo secolo, Boldini ne descrisse instancabilmente i più diversi aspetti: le vie affollate e spiritose, i ritrovi notturni, le piazze illustri, gli angoli sconosciuti e soprattutto le donne. In questo caso, protagonista del quadro è Coquelin Aînè, anch’egli molto rappresentativo della Parigi inebriante fin de siècle.


Segue lo splendido olio su tavola La Toilette  (1885). Nella protagonista della scena si può riconoscer la contessa Gabrielle de Rasty, amante del pittore. Nel 1875, Boldini espose al Salon un’immagine della sua nuova musa ispiratrice e fu da quel momento, come ricordava Enrico Piceni, che iniziò “a stirare la sua pennellata, aggredendo le tele, sciabolandole con lunghi e dinamici tratti”.

Piceni parlava di ‘monumentale impudicizia’, mettendone in contrasto la femminilità moderna e aggressiva con “la grazia decente e casalinga delle donne di Zandomenighi”.

Maria Paola Forlani