martedì 30 giugno 2015

Piero di Cosimo 1462 - 1522 Pittore eccentrico fra Rinascimento e Maniera

PIERO DI COSIMO

1462 – 1522
Pittore eccentrico fra Rinascimento e Maniera


Si deve a Serena Padovani, già direttrice della Galleria Palatina di Firenze, l’idea di proporre una mostra dedicata a Piero di Cosimo, pittore del Rinascimento fiorentino originale, fantastico, straordinario narratore di favole, ma la cui notorietà, al di fuori del ristretto mondo d’arte e dei collezionisti, non ha mai, ingiustamente, raggiunto quella di maestri suoi contemporanei, come Filippino Lippi o Fra’ Bartolomeo.


Resta quello del pittore Piero di Cosimo (1462 – 1522) uno dei casi più emblematici, al quale la Galleria degli Uffizi, raccogliendo l’avvincente proposta della studiosa Serena Padovani ha voluto dedicare la prima mostra monografica mai realizzata, dal titolo Piero di Cosimo 1462 – 1522. Pittore eccentrico fra Rinascimento e Mamiera, aperta fino al 27 settembre 2015  (catalogo Giunti) e curata da Antonio Natali (direttore degli Uffizi) assieme a Elena Caprotti, Anna Forlani Tempesti, Daniele Parenti e la stessa Serena Padovani.

Pur essendo uno dei pittori più geniali e originali della scuola fiorentina a cavallo del Rinascimento e Manierismo, questo maestro è ben noto a critici e storici dell’arte di professione, che da tempo ne hanno compreso il valore e si sono per questo impegnati a ricostruire il catalogo delle opere sacre e profane, conservate nei musei e nelle collezioni private delle principali città del mondo.


Ma chi era Piero di Cosimo? Dai pochi documenti pervenuti sappiamo che era figlio di un fabbro fiorentino di nome Lorenzo e che era stato messo a bottega, attorno ai 18 anni, presso Cosimo Rosselli, pittore non grandissimo ma dotato di una bottega polivalente molto ben organizzata. Giorgio Vasari racconta che il legame tra il discepolo Piero e il maestro Cosimo fu strettissimo, e che andò oltre il semplice
piano professionale.

Piero considerò il Rosselli alla stregua di un padre e, non a caso, volle assumerne il patronimico, passando alla storia, appunto, come Piero
“di Cosimo”. Sempre il Vasari narra che, quando Rosselli morì, Piero si chiuse nella bottega affranto dal dolore, senza farvi accedere nessuno per giorni e giorni.
D’altro canto, Piero di Cosimo ci viene restituito dalla biografia vasariana come personaggio a dir poco eccentrico, assai poco socievole e sempre assorto nella contemplazione degli aspetti più selvaggi e inconsueti della natura. Da questo carattere e da queste osservazioni bizzarre sarebbe derivato secondo Vasari, il linguaggio originalissimo del suo stile.

Allievo prediletto di Cosimo Rosselli, Piero di Cosimo visse però a contatto anche dei più grandi maestri fiorentini attivi nel secondo Quattrocento e da tutti loro trasse spunti e ispirazioni. Lo attrassero la monumentalità del Ghirlandaio, il disegno sinuoso di Botticelli, il decorativismo di Filippino Lippi, le speculazioni di Leonardo da Vinci e le finezze dei pittori fiamminghi, giunti a Firenze attraverso le opere avidamente collezionate dai banchieri fiorentini. È da questo cocktail di sollecitazioni che emerge e si compone lo stile “selvatico e severo” di Piero.


Gli esordi del maestro avvennero a Roma, accanto a Cosimo Rosselli, sulle pareti della Cappella Sistina (1482), e in particolare nella scena della “Predica della montagna” condotta praticamente a quattro mani. Successivamente la carriera di Piero si svolse a Firenze, dove per esercitare la professione egli si iscrisse regolarmente alla Compagnia di san Luca e dell’Arte dei medici e degli speziali.


Attraverso una trentina di opere ed altrettanti disegni, la mostra degli Uffizi tenta di definire le tappe, i generi e i soggetti della produzione del maestro.

L’originalità di Piero di Cosimo si può ammirare nella Madonna con Gesù Bambino 1485-1490 circa (Parigi Museo del Louvre). Questa particolare raffigurazione ha sempre suscitato commenti di stupita ammirazione per l’umiltà commovente della Vergine – contadina che, chiusa nel modesto <<scialletto malamente annodato>>, sembra  a stento in grado di leggere il testo sacro. La libera originalità di Piero di Cosimo nel trattare il soggetto sacro non ne diminuisce la densità simbolica: così la stuoia in cuoio o paglia intrecciata, tirata fuori per l’occasione con ancora evidenti i segni della piegatura, è il “drappo d’onore” che sottolinea la divinità di Maria; il piccione ironico e quasi grottesco con la sua piccola aureola (che ha dato origine al soprannome “ Madonna del piccione”) è lo Spirito santo; il povero davanzale di pietra sbrecciata non è solo un piano d’appoggio per il libro di preghiere magistralmente dipinto e scorciato con nastrini segna-libro serpeggianti fra le pagine, ma allude alla pietra del sepolcro di Cristo.

Con  Madonna col Bambino e due angeli 1505-1507 circa , (Venezia, Galleria di Palazzo Cini), siamo al cospetto di uno dei più strabilianti dipinti di Piero di Cosimo e in generale del primo Cinquecento fiorentino, in cui si manifesta al meglio l’interesse dell’artista verso la poetica degli affetti intrisa di vibrante naturalismo ed espressa in termini di assoluta originalità. Nella composizione, contro un blu cobalto del cielo e sullo sfondo di un paesaggio essenziale, la Madonna sorridente osserva Gesù che scivola dalla gamba della Madre per abbracciare l’angelo musicante dalle ali spiegate e, in quel mentre, solleva l’archetto della ribecca a tre corde.
È uno degli esempi più significativi di quel singolare plein air rinascimentale che Piero sa raggiungere nelle sue opere più realizzate; quell’effetto cioè di immagini “all’aria aperta” che il suo autentico lirismo vivifica di un sapore agreste e meteorologico, dove la luce più o meno cristallina, i prati, le rocce e gli alberi – ora scarni, ora nudi, ora verdissimi – fanno subito penetrare in un clima che, di volta in volta, è primaverile, autunnale, gelido.

Colmo di poesia è Satiro che piange la morte di una minfa 1495-1500  ( Londra, National Gallery).
Trasportato su una sponda tranquilla, l’osservatore si trova a un’immensa distanza dalla posia selvaggia e turbolenta della Battaglia tra centauri e i Lapiti, dipinti dallo stesso autore e presenti nello stesso museo.

Il paesaggio empatico contribuisce alla magistrale capacità di Piero di esprimere l’atmosfera della scena, con la natura che partecipa insieme allo spettatore alla tragicità della vicenda. Dai profili dolcemente digradanti delle montagne in lontananza, ai fiori rossi che contornano la scena a capo chino, la natura pare rispondere, anzi pare addirittura provare sentimenti. Il satiro, testimone della vita della ninfa che scorre via, è il ritratto della sollecitudine mentre scosta con la mano destra una ciocca di capelli della ninfa e pone la mano sinistra con dolcezza sulla spalla della fanciulla, quasi a svegliarla da un sonno profondo. Tre cani di vari colori vagano o siedono pigri sulla spiaggia in campo medio, in compagnia di un pellicano, consueto simbolo del sacrificio, e di aironi, uccelli che secondo Plinio il Vecchio piangevano di dolore proprio come gli esseri umani.
Il tenore emotivo della favola di Piero pare aver colpito anche i preraffaelliti, come si può notare, almeno in spirito, nel Pan e Psiche (1872-74) di Edward Burne-Jones, agli Harvard Museum.
Così il lirismo del pittore e cantore di storie fiorentine continua a incantare.

Maria Paola Forlani




giovedì 25 giugno 2015

La Cappella di Teodolinda, Regina dei Longobardi

La Cappella di Teodolinda, Regina dei Longobardi


Dopo un imponente lavoro di restauro affidato alla Fondazione Gaiani – ente di gestione, tutela e valorizzazione del patrimonio artistico del Duomo di Monza - alla società Anna Lucchini restauri srl, il pubblico può finalmente ammirare nella sua completa bellezza, la più vasta impresa decorativa dell’intero Gotico internazionale: la Cappella di Teodolinda, nel Duomo di Monza.


Una tipologia della produzione pittorica quattrocentesca definibile <<lineare>> può comprendere parecchie famiglie morfologiche: in linea di massima, tutte le conformazioni in cui prevale la presenza della linea su quelle del piano e del volume.
Cronologicamente un primo tipo di pittura lineare va ricercato nella produzione del <<Gotico internazionale>> o della <<civiltà cortese>>, che si sviluppò fra la fine del XIV e gli inizi del XV. Tale produzione, i cui centri furono le varie corti europee e nord-italiane, caratterizzata prevalentemente in senso laico e mondano e da una tematica basata sulle leggende cavalleresche medievali, comprende l’opera di numerosi artisti: dall’attività avignonese di Simone Martini a quella del gruppo di Milano (Giovanni de’ Grassi, Michelino da Besozzo, gli Zavattari, i Bembo), i cui lavori furono definiti in Francia Ouvrage de Lombardie, dalle scuole locali (Stefano da Verona) agli artisti operanti presso vari centri italiani (Gentile da Fabriano), Iacobello del Fiore, Pisanello).
Quanto alla pittura vera e propria – tranne qualche eccezione, viene accantonato l’uso del fondo oro uniforme (o lo si amalgama nella composizione pittorica), per indicare con analitica grazia tanto le linee delle immagini in primo piano, quanto quelle che configurano gli sfondi. Negli affreschi degli Zavattari per il Duomo di Monza, rappresentanti le Storie della regina Teodolinda, le lineari sagome delle figure e delle architetture si stagliano sì contro un fondo oro, ma questo è trattato come un filigranato arazzo.

La Cappella della Regina Teodolinda si apre nel braccio settentrionale del transetto del Duomo di Monza. Di snelle forme gotiche, fu eretta negli anni a cavallo del 1400, durante l’ultima fase dei lavori di ricostruzione della basilica avviati nel 1300.

La sua decorazione pittorica, risalente alla metà del XV secolo e dedicata alle Storie di Teodolinda, distribuite in 45 scene, si presenta come un sentito omaggio alla sovrana longobarda che aveva fondato la chiesa e nello stesso tempo come una testimonianza del delicato passaggio dinastico che si stava allora profilando nel ducato di Milano tra la famiglia dei Visconti e quella degli Sforza, cui rimandano i simboli araldici dipinti nelle incorniciature e le allusioni metaforiche al matrimonio tra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza presenti nelle immagini.

Il ciclo di affreschi della cappella è considerato uno dei capolavori della pittura del gotico internazionale in Italia, nonché il più importante esito dell’attività degli Zavattari: una famiglia di pittori milanesi attivi in Lombardia per tutto il Quattrocento, che ci viene presentata dai documenti come una vera e propria dinastia di artisti, composta dal capostipite Cristoforo, responsabile tra il 1404 e il 1409 di alcuni lavori del Duomo a Milano, da suo figlio Franceschino, anch’egli operoso nel Duomo di Milano dal 1417 al 1453, e dai tre figli di quest’ultimo, Giovanni, Gregorio e Ambrogio, con i quali Franceschino lavorò probabilmente a Monza e, solo con gli ultimi due, alla Certosa di Pavia. La serie è conclusa da Franceschino II, figlio di Giovanni e fratello di Vincenzo, Gian Giacomo e Guidone.

La cappella fu dipinta in due riprese tra il 1441-44 e, con ogni probabilità, da quattro diverse “mani”, che alcuni studiosi propongono di identificare con altrettanti membri della famiglia Zavattari. Sulla base di un’attenta analisi stilistica, essi ritengono infatti che la concezione generale del progetto del ciclo vadano riferite a Franceschino Zavattari, cui si devono anche l’esecuzione delle prime 12 scene; il cosiddetto “secondo maestro di Monza”, forse identificato con Giovanni, avrebbe invece condotto quelle dalla 13 alla 41, mentre il “quarto maestro di Monza”, forse Ambrogio, sarebbe l’autore delle quattro finali.

Le 45 scene narrano la storia della Regina Teodolinda a partire dai resoconti storici di Paolo Diacono (VIII sec.), autore del Chronicon Modoetiense. Sviluppata su una superficie di circa 500 mq ed organizzata da sinistra verso destra, e dall’alto in basso, ed è così suddivisa: le scene dalla 1 alla 23 descrivono i preliminari e le nozze tra Teodolinda, principessa di Baviera, e Autari, re dei Longobardi, concludendosi con la morte del re; dalla scena 24 alla 30 sono raffigurati i preliminari e le nozze tra la Regina e il secondo marito Agilulfo; dalla 31 alla 41 sono raffigurate la fondazione e le vicende iniziali della Basilica di Monza, seguite dalla morte di re Agilulfo e della Regina; dalla scena 41 alla 45 è infine illustrato lo sfortunato tentativo di riconquistare l’Italia da parte dell’imperatore d’Oriente Costante e del suo mesto rientro a Bisanzio. Nello svolgersi delle scene, il ritmo del racconto si fa più lento o più serrato a seconda dell’importanza dei momenti narrati.

Molte sono le scene che riguardano la vita di corte – balli, feste, banchetti, battute di caccia – ma anche i viaggi e le battaglie, e numerosi particolari sulla moda e i costumi dell’epoca presentati dai protagonisti: abiti, acconciature, armi e armature, suppellettili, atteggiamenti e attitudini. Tutto ciò fornisce uno dei più ricchi e straordinari spaccati della condizione e della vita di corte della Milano del XV secolo, l’ambiente forse più europeo nell’Italia dell’epoca.

Il complesso procedimento utilizzato dagli autori – nel quale convivono materiali e tecniche diverse come l’affresco, la tempera a secco, la pastiglia a rilievo, le dorature e le argentature in foglia – mostra la straordinaria versatilità operativa della bottega e risponde perfettamente al clima sfarzoso che dominava nelle corti e presso l’aristocrazia dell’epoca. Nell’altare della Cappella, realizzato nel 1895 – 96 in stile neo-gotico su progetto di Luca Beltrami, è custodita la Corona Ferrea, la più celebre e sacra tra le oreficerie del Tesoro del Duomo di Monza.



Maria Paola Forlani

sabato 13 giugno 2015

FILIPPINO LIPPI- L'Annunciazione di San Gimignano

Filippino Lippi
L’Annunciazione di San Gimignano

La Pinacoteca di San Gimignano ospita una mostra dedicata al pittore fiorentino Filippino Lippi (Prato 1457 c –Firenze  1504) fino al 2 novembre 2015  (catalogo Giunti) a cura di Alessandro Cecchi, promossa dal Comune di San Gimignano e della Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio delle Province di Siena, Grosseto e Arezzo in collaborazione con la Fondazione Musei Senesi. L’esposizione prende spunto dall’Annunciazione, opera realizzata dall’artista in due tondi distinti raffiguranti l’uno l’Angelo, l’altro l’Annunziata così come gli era stato richiesto dai Priori e Capitani di Parte Guelfa per il Palazzo Comunale di San Gimignano, che gliela commissionarono nel 1482.
Filippino Lippi nasce dall’avventurosa relazione di Fra’ Filippo con Suor Lucrezia Buti, per due volte fuggita con lui dal convento prima di essergli legittimamente unita in seguito all’annullamento dei voti di entrambi da parte di papa Pio II.
Filippino è appena ragazzo quando il padre muore (1469) a Spoleto dove lo aveva condotto con sé; può quindi aver appreso poco da lui. Ma il linearismo paterno gli viene trasmesso dal Botticelli col quale collaborerà poco dopo.
Anche per lui, dunque, è la linea il mezzo fondamentale di espressione, non la linea idealizzata del suo nuovo maestro, ma piuttosto un segno sensibile e morbido.
Quando porta a compimento gli affreschi lasciati incompiuti da Masaccio al Carmine,
egli raggiunge una certa monumentalità per adeguarsi alla solenne grandiosità del grande predecessore. Ma resta una grazia raffinata nel modo con cui la linea individua le figure.
Nell’Apparizione della Vergine a San Bernardo (Firenze Chiesa di Badia), è elegante la figura allungata della Madonna e il fluire della veste del Santo, mentre la figurazione si complica per molte notazioni e per dettagli naturalistici. I dettagli nascono dalla
suggestione esercitata sui pittori fiorentini dalla Adorazione di Hugo Van der Goes da poco giunta a Firenze. Ma Filippino si esprime sempre attraverso una linea dolce e aggraziata, visibile in modo particolare nella Madonna.

Negli affreschi della Cappella Carafa in Santa Maria sopra Minerva a Roma (1489 – 93) e in quelli della Cappella Strozzi in Santa Maria Novella a Firenze (1487 – 1502)
sbriglia la sua fantasia in complesse composizioni capricciose, risolvendo, a suo modo, in queste evasioni immaginose, il conflitto determinatosi a Firenze, sulla fine del secolo, fra i grandi valori ideali e la drammatica realtà.
In mostra assieme ai due tondi di Filippino, ripresentati vicini come dovevano essere originariamente al loro ingresso nella collezione della Pinacoteca, sono esposti anche disegni di grande qualità di mano del pittore, curati in ogni dettaglio, provenienti dal Gabinetto Disegni e Stampe della Galleria degli Uffizi e riferibili sempre agli anni 1482 – 1484.

Si trovano esposti inoltre anche i documenti relativi alla commissione dell’Annunciazione, un materiale storico custodito da oltre cinque secoli che animava i Priori e i capitani di Parte Guelfa, appartenenti a importanti famiglie di San Gimignano, di abbellire la sede del governo cittadino, in modo analogo a quanto le medesime istituzioni fiorentine stavano facendo per Palazzo Vecchio.

Nel XV secolo San Gimignano, sebbene non possedesse più l’antica forza economica e sociale del primo Trecento, continuò a manifestare una certa vivacità culturale che trovò un naturale riflesso anche nelle copiose committenze artistiche. La città, infatti, continuò ad essere meta di artisti tra i più famosi del Rinascimento: alcuni senesi e, soprattutto a partire dalla metà del secolo, molti fiorentini. Artisti di indubbia levatura come Benozzo Bozzoli, Piero del Pollaiolo, Giuliano e Benedetto da Maiano, Domenico Ghirlandaio, Filippino Lippi, portatori di nuovi stilemi e di un cambio di cultura.
Per la stessa Annunciazione, sei anni più tardi, furono realizzate le cornici di legno

intagliato, dipinto oltre che dorato e argentato, forse da attribuire ad Antonio da Colle, il legnaiolo responsabile della fattura del pulpito (1469) e del coro ligneo (1490) della Collegiata. Le cornici imitano una corona con foglie di quercia e alloro con ghiande e bacche, legate insieme da un nastro e, proprio in occasione della mostra, sono state restaurate dallo “Studio Nadia Presenti” di Forano della Chiana, Arezzo.
Il tondo con l’Angelo Annunziante presenta l’Angelo inginocchiato su  pavimento in prospettiva centrale a listre grigie su fondo color rosso mattone che ricorda l’antica pavimentazione di piazza della Signoria a Firenze. È avvolto in un panneggio
elegantemente annodato e come gonfiato dal vento, contro lo sfondo scuro di una parete con panca, percorsa dai raggi dorati dello Spirito Santo. Sulla sinistra s’intravede un loggiato con balaustra, aperto su un paesaggio “slontanante” e,
sulla destra, una nicchia bianca, forse marmorea, con mensola, su cui sono esposti vasi metallici di varie forme e dimensioni.
Il tondo suo pendant (Annunziata), appare più arioso e luminoso per la lama di luce riflessa in diagonale sul pavimento e per il maggior spazio conferito al paesaggio luminoso, con la solita città nordica e irta di guglie e tre figure, una maschile e l’altra femminile più in primo piano, e una terza chinata in avanti, sullo sfondo. La Vergine è inginocchiata, secondo l’iconografia tradizionale con lo sguardo rivolto in basso, in segno di umiltà e di accettazione della volontà divina. In primo piano, a destra, si intravede un faldistorio, luccicante di riflessi metallici, prezioso sedile riservato ai sovrani e agli ecclesiastici. In secondo piano c’è uno studiolo con un libro aperto e uno chiuso, ad alludere, probabilmente, a Maria come Sedes Sapientes.
Sopra la Vergine c’è una nicchia in cui sono disposti, in bell’ordine, alcuni oggetti fra cui si riconoscono albarelli e un vaso biansato di manifattura ispano-moresca.
Nella parte superiore c’è un cartiglio con la scritta <<BENE DICTUS DOM>> (Luca, I, 68) riferito all’Annunciazione, e, fuori dalla nicchia destra, c’è un orologio meccanico, oggetto raro nelle case e soprattutto nei dipinti.
La scelta di far dipingere un’Annunciazione da porre su una parete dell’Udienza dei Signori trae la sua origine dalla particolare solennità con cui si festeggiava a Firenze, come a San Gemignano, la Santissima Annunziata, essendo il 25 marzo, il primo giorno dell’anno fiorentino, di un calendario che si diceva, appunto, ab incarnatione.
Maria Paola Forlani