mercoledì 29 luglio 2015

TEATRO POVERO DI MONTICCHIELLO Il Paese che manca

Teatro Povero di Monticchiello

Il Paese che manca
Autodramma della gente di Monticchiello

Fino al 15 agosto andrà in scena Il paese che manca, 49° autodramma del Teatro Povero di Monticchiello (Pienza- SI)): una drammaturgia partecipata da un intero paese che si interroga su questioni cruciali per la comunità, in cui chi guarda può di riflesso riconoscersi e ritrovarsi. Tradizione sperimentale che ogni anno propone un nuovo testo, gli spettacoli del Teatro Povero sono ideati, discussi e recitati dagli abitanti attori, sotto la guida e per la regia di Andrea Cresti. Nella cornice della
Val d’Orcia dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, un viaggio teatrale nell’anima espressiva della Toscana.


È dal 1967 che ogni estate a Monticchiello si torna ‘in piazza’ per un’esperienza teatrale seguita da migliaia di spettatori, un pubblico affezionato cui si aggiunge l’interesse di molti addetti ai lavori, uomini di teatro ma anche sociologi e antropologi. Un teatro, quello del borgo toscano, nato dalla crisi del mondo mezzadrile-contadino, patrimonio culturale e umano comune a buona parte d’Italia almeno fino alla grande trasformazione degli anni Cinquanta e Sessanta.

Giunto alla soglia dei cinquant’anni, che saranno festeggiati il prossimo anno, il Teatro Povero è oggi una realtà culturale e sociale attiva 360 giorni all’anno, che affianca alle attività culturali la gestione di servizi sociali, sostegno della comunità, attività di inclusione, integrazione e formazione: un’esperienza basata in gran parte sul volontariato, che cerca caparbiamente di opporsi alle logiche di marginalizzazione dei piccoli centri.

Alle spalle di ogni spettacolo del Teatro Povero vi è un lungo percorso partecipativo: da gennaio iniziano le assemblee pubbliche, aperte a chiunque desideri collaborare oltrechè ai membri della compagnia; si comincia così a raccogliere spunti e riflessioni fino ad arrivare ai temi ritenuti urgenti per l’anno in corso. Da qui parte la discussione collettiva che porta al soggetto e poi al copione. Un lungo percorso di creazione condivisa da cui prende vita l’autodramma: questa la definizione coniata da Giorgio Strehler per l’esperimento sociale e teatrale di Monticchiello. Momento di comunione con il pubblico, ogni spettacolo è il tentativo di questa piccola comunità di creare un senso condiviso delle trasformazioni in corso, delle nuove sfide, riavvolgendo ogni volta quel tenue filo rosso che riporta alle origini culturali, sociali e umane di quest’esperienza.

Lo spettacolo del 2015 prende avvio da una riflessione sull’andarsene: un tempo, anche qui, per fuggire da condizioni difficili, spesso di povertà, da una storia comune di emarginazione sociale e culturale. In cerca di riscatto. Oggi perché il paese offre poche possibilità e il tessuto sociale sembra sgretolarsi, lasciando tra le sue macerie confusi incubi di dismissioni e impotenza civile che inquietano e disorientano.

Così, in un piccolo paese di provincia, una comunità si ritrova incerta di fronte a una festa: quella dell’ultimo ventenne rimasto, Gigino. Compleanno ma forse anche festa d’addio per un’ennesima partenza cui non sembrano darsi alternative. I più anziani, le generazioni precedenti, non hanno neanche questa possibilità: troppo difficile per loro andarsene. Dovranno assistere così allo smantellamento degli ultimi baluardi sociali, di quei connettivi che ancora testimonierebbero la presenza di una società: l’ufficio postale, la scuola, i servizi…

Ma cosa significa davvero partire? È una condanna o una possibilità? Una resa o una reazione? Oppure soltanto un gioco del destino? Perché poi, mentre molti partono, tanti altri arrivano: migrazioni da una parte all’altra, mari da attraversare, confini incisi sulla carta e poi sulla pelle. Talvolta uscendone feriti, offesi, costretti alla resa.

A volte, nonostante tutto, trovando una nuova energia che permetterà poi di tornare, lottare, ricostruire. Affrontando i propri incubi…E intanto su tutti regna il ghigno di un misterioso Giocattolaio, un po’ matto un po’ santo, in cui ciascuno vede ciò che vuol vedere. Paure e inquietudini, attese, speranze, la ricerca di un’identità…


Daniele ho cominciato a correre perché volevo arrivare lassù, vedere il castello da vicino, vedere com’era dentro perché mi avevano detto che quello che avrei visto non era vero, ma era quello che si voleva che fosse vero…

-Allora era finto?

Daniele No. Era talmente vero da sembrare finto.


Per il paese che manca e per i suoi personaggi la ricerca di “identità”, dalle scene di vita, si rivela, anche, nel sogno. L’identità è la coscienza di se stessi – anzitutto “sentita” e “vissuta”, ma nella quale bisogna pur sforzarsi di acquisire razionale consapevolezza -:

pertanto della propria specificità, di quel che distingue “noi” dagli “altri” e della gradualità, appunto, dell’essere “noi” rispetto agli “altri”, secondo criteri di maggiori o minori prossimità e/o affinità. Il che significa che l’identità è per sua natura dinamica (in quanto si modifica nella storia) e imperfetta (in quanto nessuna comunità, come del resto nessun individuo, può vantare un’identità assoluta, metafisica e metaforica “globale”: ciascuna identità si misura su concreti parametri storici, spaziali, genetici, linguistico-dialettali, religiosi antropologici).

Nella scarna scenografia, accompagnata, soprattutto, dalle luci le immagini trasmigrano progressivamente in territori dove la “forma” è meno riconoscibile, perché interpretata. Immagini che oltrepassano la “forma” e producono una totale rottura dal “vero”, ricostruendosi in territori dove domina il grottesco, il gusto dell’assurdo, l’amaro graffiante del paradosso che descrive il possibile futuro di un presente difficile; alla ricerca di quell’ “identità” che potrà dare un senso alla perdita del proprio mondo colmo di orpelli rassicuranti (l’ufficio postale, la banca…), un futuro, forse, fuori da quei confini…Per Gigino è certo, lui che con il Giocattolaio misterioso ha progettato un ‘mondo in 3D’.


Maria Paola Forlani






domenica 19 luglio 2015

Inbox - Enki Bilal

INBOX – Enki Bilal

Venezia Fondazione Giorgio Cini

La Mostra Inbox – Enki Bilal realizzata con il supporto di Arcurial, e in collaborazione con la Fondazione Giorgio Cini è inserita nel cuore del convento adiacente la famosa Chiesa di san Giorgio che fronteggia Piazza San Marco.

Enki Bilal espone per la prima volta sull’Isola di San Giorgio Maggiore durante la Biennale di Venezia fino al 2 agosto 2015.
La Fondazione Giorgio Cini ospita l’istallazione inedita Inbox, accessibile liberamente al pubblico, insieme a quelle di Magdalena Abakanowicz e Matthias Schaller.  Inbox è un audace progetto artistico pensato specificatamente per questa manifestazione internazionale, dove Enki Bilal gioca con i sensi dei visitatori e con la loro percezione della realtà.

Proseguendo il suo lavoro di distrutturazione pittorica, Bilal si spinge ancora più lontano, proponendo una nuova esperienza: la presa di coscienza della voluttà inquietante, ma al contempo accattivante, dell’oscurità. In uno spazio chiuso nero, caratterizzato da un’architettura minimalista, lo spettatore è solo davanti a un grande schermo che riproduce, a ciclo continuo, le immagini indefinite a colori che creano un’instabilità destinata a fissarne e a sbilanciarne lo sguardo.

Dopo una prima fase ipnotica, lo spettatore affronta un dittico che non viene mai completamente rivelato e che, per meglio sottolineare il rapporto tra discontinuità luminosa e sensualità dei corpi, rimane sotto l’effetto alternante della chiarezza e del silenzio. Questi caratteri rappresentano il passionale e oscuro romanticismo che caratterizza l’opera di Enki Bilal che insiste sulla fragilità e sulle incertezze della nostra memoria visiva, sull’ambivalenza e sulla materialità delle immagini.

Appoggiandosi alla necessità di concentrarsi sul momento e facendo appello alla sensibilità e alle risorse intuitive, lo spettatore può immergersi nel cuore dell’opera in una poetica che è allo stesso tempo fisica e mentale.



<<È un gioco sui sensi e sulla loro perdita, ma anche sulla nostra percezione della realtà. Il visitatore, interfacciandosi con l’impossibilità di focalizzarsi sul convenzionale dettaglio di un’opera da uno specifico punto di vista, scopre la frustrazione della memoria visiva e deve lasciare la stanza mentre le immagini sono ancora impresse nella sua retina. Si tratta di un’esperienza effimera e solitaria.>> Enki Bilal



 Enki Bilal (Belgrado, 7 ottobre 1951) è un fumettista e regista francese, nato nella ex-Jugoslavia.


giovedì 16 luglio 2015

CAGNACCIO DI SAN PIETRO - Il richiamo della nuova oggettività

Cagnaccio di San Pietro

Il richiamo della nuova oggettività

A ventiquattro anni dalla retrospettiva al Museo Correr, Cagnaccio di San Pietro (1897 – 1946) torna a casa: nella sua Venezia e in quel museo – Ca’ Pesaro – dove mosse i primi passi ufficiali della sua carriera, con una mostra dal titolo Cagnaccio di San Pietro. Il richiamo della nuova oggettività, aperta fino al 27 settembre 2015.
Il tributo della Fondazione Musei Civici di Venezia a un grande e ormai internazionalmente riconosciuto campione del Realismo magico e del ritorno alla classicità, tra gli Anni Venti e Trenta, si collega espressamente alla mostra sulla
Neue Sachilichkeit in corso a Museo Correr (Nuova oggettività – arte in Germania al tempo della Repubblica di Weimer 1919 – 1933 fino al 30 agosto), giacchè la visione iperrealista di Cagnaccio di San Pietro è forse tra i principali artifici del suo rilancio, la più apparentabile agli schemi linguistici della Nuova Oggettività tedesca.
Una selezione di capolavori, curata da Dario Biagi con la collaborazione di Elisabetta Barisoni, illustra il ventaglio tematico di questo maestro schivo e appassionato, scomparso prematuramente all’età di quarantanove anni.


In mostra dall’audace nudo di Primo denaro, parte di una “scandalosa” trilogia del 1928, sfilano una potente serie di ritratti di uomini, donne e bambini, tra cui l’inedito
Ritratto di Giuseppina Dalla Pasqua; da alcuni smaglianti esempi di natura morta ai soggetti di carattere religioso e allegorico come La tempesta e La furia che suggellano, sovrapponendosi, l’inizio e la fine della sua intensa parabola.

Ribelle, anticonformista, Cagnaccio di San Pietro, alias Natale Bentivoglio Scarpa (Desenzano sul Garda 1897 – Venezia 1946), segue i corsi di Ettore Tito all’Accademia di Belle Arti a Venezia e, intorno al 1911, il futurismo allora nascente lo sconvolge con la sua portata innovativa profonda e ricca di stimoli. La vicenda drammatica della guerra segna una profonda linea di demarcazione tra un prima e un poi modificando la sua visione del mondo, un’esperienza estrema che investe tutto l’ambiente artistico di quel periodo. Nel 1919 partecipa insieme a Gino Rossi, Casorati, Garbari, Semeghini alla mostra di Ca’ Pesaro a Venezia, esponendo ‘Cronografia musicale’ e ‘Velocità di linee-forza di un paesaggio’, due opere di impronta futurista. Intorno al 1920 comincia a firmare i suoi lavori con il nome di Cagnaccio con cui era conosciuto nella piccola isola di San Pietro. Ma Cagnaccio si sente un autsider e agisce come tale, apprezzato più dai colleghi che dalla critica che, in vita, non lo comprende.


La Tempesta, datata 1920, segna la riconquista della bellezza classica, dopo la giovanile infatuazione futurista e il recupero dei capisaldi della tradizione pittorica, ma anche il suo approdo alla fede – di fronte a un dramma familiare – la riscoperta dei valori umili e semplici dei compaesani di San Pietro in Volta, borgo dell’isola di Pellestrina.

Un ritorno all’ordine che non lo porta tuttavia sul carro del novecentismo sarfattiano, sia per ragioni “ambientali” – in una Venezia che si rifà comunque alla tradizione del colorismo cinque-settecentesco – sia per il rifiuto sistematico di Cagnaccio d’aderire a manifesti e movimenti e, infine, per la sua avversione al fascismo: un avversione viscerale prima ancora che ideologica.

Alla Biennale del ‘28, ove siede in commissione Margherita Sarfatti, propone provocatoriamente l’opera Dopo l’orgia – ovviamente respinta – in cui fustiga la deriva morale del regime. Respinto per soggetto, titolo e dettagli che rivelano, con sfrontata chiarezza (a terra anche i polsini con il fascio littorio), la corruzione del fascismo. Espressione quasi fotografica delle contraddizioni di un potere e di una borghesia che voleva comunicare, sempre e comunque, perbenismo, fede in Dio e nel duce. Qualche anno dopo rifiuta platealmente la tessera del Partito fascista: talora deve fingersi squilibrato e accettare un giorno o due di essere ricoverato a San Servolo, il manicomio di Venezia, per scontare in carcere le sue dichiarazioni anti-regime, oppure si fa ricoverare all’ospedale del Lido.


Certamente a Cagnaccio interessa la realtà, ma sempre mediata, attraversata da quella portata emozionale che, attraverso l’arte può rivelarsi, la coscienza si ritrama ogni volta, assume in se’ il mondo delle cose, si riafferra con costanza in esse, ma nello stesso tempo ne scuote l’evidenza rappresentativa che giunta al culmine del visivo, del rappresentato, si spalanca in un vuoto dove ogni sguardo si smarrisce.

Suoi temi preferiti sono le nature morte, i bambini, il quotidiano, restituito però in chiave straniata e talvolta drammatica, con il rigore di una ricerca sempre estremamente tesa e una lucida, esasperata attenzione per il dettaglio. Cagnaccio di San Pietro un anarchico, un cane sciolto, dimostra di non voler rinunciare all’impegno morale, condito sine qua non di tutto il suo lavoro, sostanzialmente autonomo e spesso eccentrico rispetto all’ambiente artistico del tempo segnato dalla presenza del Novecento. Come già sottolineato l’artista non è formalmente lontano dalla Nuova Oggettività tedesca; in ogni caso Cagnaccio spinge il realismo fino alla sua dimensione più estrema e straniata, non di rado avvalendosi di tagli, rese cromatiche e punti di vista propri del mezzo fotografico.


Nel corso degli anni Trenta Cagnaccio continua ad affinare gli strumenti della sua ricerca, sempre più orientata verso un misticismo e una crescente attenzione per il mondo spirituale.


Nel 1934 realizza naufraghi, una grande tela che verrà esposta alla biennale di Venezia nel 1935, in cui è presente una doppia componete: da una parte una presa diretta sulla realtà e dall’altra la rarefazione della realtà stessa, cifra originale che caratterizza lo stile dell’artista. Tra il 1937 e il 1938 soggiorna a Genova. Tornato a Venezia viene ricoverato tra il 1940 e il 1941 all’ospedale del Mare del Lido: nascono così opere che affrontano direttamente e con lucidità il tema della sofferenza, sempre sottilmente sotteso al suo lavoro.



Maria Paola Forlani


mercoledì 15 luglio 2015

ARTS & FOODS - RITUALI DAL 1851

Arts & Foods

Rituali dal 1851



La mostra ufficiale dell’Esposizione universale 2015 è uno degli eventi più ampi e complessi mai realizzati nel nostro paese, grazie alla regia di Germano Celant, che ha ordinato una rassegna incentrata sul rapporto che intercorre tra le arti e la cultura del cibo. Non solo inteso in senso fisico e letterale, ma presentato soprattutto nelle sue implicazioni simboliche, concettuali, antropologiche, sociali e materiali in un percorso espositivo su tre livelli che si intreccia anche con la storia dell’Expo, intesa come palinsesto culturale internazionale.
Non a caso il sottotitolo della mostra
Arts & Foods, aperta alla Triennale di Milano fino al 1° novembre, è Rituali dal 1851. La data corrisponde alla prima edizione della manifestazione a Londra, dove comparivano alcune opere d’arte all’interno dell’esposizione: un primo segnale di interesse per le arti visive che avrebbe preso corpo due anni dopo a Dublino con una vera e propria mostra di arte antica, con opere di grandi artisti come Rubens, Caravaggio, Raffaello e altri.

La relazione tra l’arte e le esposizioni universali nel tempo è divenuta via via più articolata, fino a sfociare a Milano in una kermesse che riunisce millecinquecento opere tra dipinti, sculture, installazioni, fotografie, film e oggetti di design.
Tutto questo con l’intento di tracciare con <<Arts & Foods>> un percorso storico e multidisciplinare, sui riti legati al cibo, alla sua distribuzione, alla sua preparazione, al suo consumo: dal mercato alla cucina, dal bar al ristorante, dagli utensili al vasellame, dal packaging agli elettrodomestici, visti con lo sguardo dei grandi protagonisti della pittura, dell’architettura, del design, della fotografia, della moda, della letteratura, del cinema, della televisione e della musica.


Una mostra concepita da Celant come un’esperienza totale, basata <<sulla dinamica dell’intreccio tra i linguaggi come mezzo per spettacolizzare, e quindi garantire, una continua stimolazione visuale e sensoriale cosicché il pubblico si senta circondato e immerso nel gioco delle sensazioni fisiche e intellettuali>>.

Allestita da Italo Rota, Arts & Foods si sviluppa su una superficie di settemila metri quadrati sui tre piani del palazzo della Triennale, secondo un “fil rouge” di carattere cronologico. L’avvio è spettacolare: la sezione storica, dedicata alla seconda metà del XIX secolo e caratterizzata dalla trasformazione della società a seguito della rivoluzione industriale, appare come la più riuscita, sia per la qualità di materiali che per la loro varietà.
L’incipit è dato dalla contrapposizione tra cucina povera, dove si consuma il pasto contadino, e sala da pranzo aristocratica, che diventerà nel giro di pochi anni lo spazio conviviale della famiglia borghese. Non è un caso che il primo focus della mostra sia dedicato appunto all’evoluzione della sala da pranzo legata al rito del pasto consumato intorno al tavolo. Un’usanza documentata da opere di Medardo Rosso, Giuseppe de Nittis e Maurice Denis, che introducono all’affermazione di nuovi modelli sociali e culturali legati al nuovo secolo.


Gli stimoli che colpiscono lo spettatore sono vertiginosi: si passa da una collezione di coltelli da tavola alla ricostruzione di un bar del primo Novecento completo di prodotti d’epoca, per non parlare degli spezzoni dei film proiettati nelle sale, tra i quali spicca la scena esilarante di uno Charlot alle prese con i primi utensili elettrici da cucina in Tempi moderni, girato nel 1936.


Le sale sono affollate di oggetti e mobili di matrice cubista, futurista e déco, e da alcuni ambienti storicamente significativi, come la sala da pranzo futurista di Gerardo Dottori o lo studio dove cenava Gabriele d’Annunzio. Sorprendente e futuribile l’Autarca, un tavolo progettato nel 1935 dal notaio genovese Angelo Fasce, che permetteva a sei commensali di poter consumare un intero pasto senza doversi mai alzare e senza aiuto dei domestici.

In questo ambito gli artisti si dedicarono soprattutto al tema della natura morta, tra pittura e fotografia, che coinvolge artisti storici come Picasso, Braque, Boccioni, Severini, Morandi, Casorati, Man Ray.

Un altro interessante focus è dedicato al mercato, inteso come luogo di vendita e consumo di cibo, con una selezione di immagini scattate da maestri come Henri Cartier-Bresson, Nino Migliori e Andreas Gursky, mentre non poteva mancare un accenno al tema dell’Ultima cena, che tratta del rapporto tra cibo e spiritualità, con capolavori che vanno da El Greco ad Andy Warhol.
E il leader della Pop Art è protagonista del settore mostra Vietato agli adulti, dove i bambini possono ammirare novantatre dipinti di Warhol legati al mondo dei giocattoli. La panoramica si conclude con la Maison des jours melleurs, realizzata nel 1956 da Jean Prouvé e ricostruita in mostra con arredi originali: mobili e dipinti di artisti come Pablo Picasso e Giorgio Morandi. La sua peculiarità era che poteva essere montata da due persone in sette ore, ed era perfettamente funzionante.

La mostra riprende al piano superiore con uno spaccato degli anni Sessanta e Settanta. Questo viaggio si tuffa, dunque, con gli anni Sessanta con l’esplosione iconografica pop, da Claes Oldenburg a Tom Wesselmann, che fanno del cibo un tema centrale, fino ad arrivare ai ristoranti d’artista, quali di Daniel Spoerri, o agli assemblaggi di Fluxus, fino alla cucina naturale e biologica della controcultura hippy.

In quest’area spicca la sezione dedicata alla necessità di nutrirsi durante il viaggio nello spazio, documentari da una selezione di film di fantascienza, da 2001 Odissea nello spazio a Guerre stellari.

Infine arrivano i nostri giorni, dominati dalla contaminazione tra le arti.
Dagli anni Ottanta, l’interesse per l’esperienza materia e corporale dilaga e i linguaggi, da Frank O. Gehry a Jannis Kunellis, da Cindy Sherman a Robert Mapplethonrpe, si fondono e confondono: portano al banchetto di alimentari colorato di Antoni Miralda, al tavolo originale di Mona Hatoum e alla casa di pane di Urs Fischer.
Degna conclusione per una mostra capace di mostrare come tema del cibo rivelati chiavi di lettura inaspettate e originali per riflettere sull’evoluzione del mondo negli ultimi due secoli.

Maria Paola Forlani