martedì 30 gennaio 2018

KEITH HARING

Party of Life

Keith Haring


I suoi omini radioattivi e danzanti, i suoi angeli, i suoi cani, i suoi cuori sono diventati delle icone senza tempo che hanno lasciato la strada per entrare prima nelle gallerie d’arte e poi, come motivi decorativi, su oggetti di vita quotidiana.

Ma Keith Haring dietro a quel mondo colorato veicolava messaggi sociali e invitava a lotte contro il perbenismo. Lo si può ammirare nella mostra “Party of Life”, organizzata da Contemporary Concept, fino al 25 febbraio, mostra che fa vivere le opere dell’artista americano a Bologna in Pinacoteca, aperta in occasione di Arte Fiera fino al 25 febbraio, con una sessantina di opere provenienti da collezioni pubbliche e private, a cura di Diana Di Nuzzo.


Keith Haring nacque il 4 maggio 1958 a Reading, in Pennsylvania, da Allen e Joan Haring, primogenito di quattro figli. La sua famiglia si trasferì a Kutztown pochi anni dopo la nascita, e fu qui che trascorse gran parte della sua infanzia; ancora fanciullo rivelò una forte inclinazione per il disegno, apertamente incoraggiato dal padre Allen, il quale aveva per tempo intuito le inclinazioni e il talento artistico del figlio.
Ricorda Haring: << Mio padre realizzava per me personaggi dei cartoni animati, e questi erano simili a come disegnavo io – con un’unica linea e un contorno fumettistico>>.

Furono proprio i personaggi dei fumetti come di Walt Disney e di Dr. Seuss a esercitare su lui un’influenza duratura. In ogni caso, divenuto adolescente, Haring diede prova di temperamento ardente: era insofferente ai freni, e non di rado consumava droghe e alcool con amici. Malgrado ciò, egli continuò a coltivare la propria passione per il disegno; decisiva, in tal senso, fu la visita al museo Hirshhon di Washington D.C., dove era esposta la produzione di Andy Warhol.

Terminati gli studi secondari nel 1976, Haring si iscrisse all’Ivy School of Professional Art di Pittsburgh, dove, persuaso dai genitori, iniziò a frequentare le lezioni di grafica pubblicitaria. Ben presto, però, il giovane Keith capì che non era quella la sua strada, e abbandonò il corso dopo due semestri; con l’allontanamento dagli studi accademici affrontò un periodo di nera miseria e di attività spuria e si adattò a qualsiasi lavoro per sopravvivere. L’elasticità d’orario di questi mestieri (importante quello del cuoco in caffetteria, dove espose per la prima volta i suoi disegni) gli permise di fare copiose letture: proprio in questi anni, infatti, Haring divorava le opere monografiche su Jean Dubuffet, Suart Davis, Jackson Pollock, Paul Klee, Alfonso Ossorio e Mark Tobey. Nel 1977, poi, entrò in contatto con un artista che gli suscitò una grande emozione, e la <<nuova spinta e confidenza>> necessaria per assecondare la propria vocazione: si tratta di Pierre Alechinsky, in quell’anno protagonista di una mostra al museo d’arte di Pittsburgh. Giunto un anno dopo Haring, forte della conoscenza estremamente variegata raggiunta nel campo dell’arte, organizzò la sua prima mostra personale riscuotendo un enorme successo. Nel 1979 stringe amicizia con un artista emergente di Brooklyn: Jean-Michel Basquiat, col quale rimase amico fino alla morte di quest’ultimo avvenuta due anni prima della sua.

Intanto da Pittsburgh si trasferì a New York, alla ricerca di nuove sfide e di artisti con idee e interessi affini; fu proprio in questo periodo, inoltre, che iniziò a diventare consapevole del proprio orientamento omossessuale, che avrebbe poi riconosciuto apertamente in seguito. Nella grande Mela Haring potè seguire i corsi della School of Visual Art (SVA), dove apprese i rudimenti del disegno, della pittura e della scultura; in questo periodo crebbe l’amicizia e collaborazione con Kenny Scharf e Jean.Michel Basquiat e realizzò inoltre diverse opere, fondendo le influenze esercitate dal poster Truisms di Jenny Holzer con la tecnica di Williiam S. Burroughs e Brion Gysin.
A New York il giovane pittore si divideva tra un’intensa attività di studio e gli svaghi concessi da una grande città: Haring, in particolare, frequentò assiduamente il Club 57, rendez-vous assai popolare tra gli artisti, gli attori e i musicisti di Manhattan.

Ormai ben inserito nella scena artistica newyorchese, Haring decise di non proseguire i propri studi alla Scool of Visual Art, rinnegando definitivamente la possibilità di conseguire una laurea (che gli sarà consegnata post mortem nel 2000) Intanto, essendo insofferente alle forme espressive e ai sistemi di diffusione artistica tradizionali, per esprimere la propria vocazione Haring scelse la scena urbana cittadina, riconoscendo nel tessuto metropolitano di New York un luogo ricco di fermenti e di indirizzi. Fu proprio sotto l’egida del graffitismo che Haring iniziò a definire la propria identità artistica, divenendo gradualmente consapevole dell’originalità delle proprie creazioni grafiche; celebre l’icona del cane angoloso che abbaia, immagine di vitalità per eccellenza.

Nel frattempo, nel giugno 1980 Haring venne invitato a partecipare al Times Square Show, la prima mostra artistica dedicata allo spettro dell’arte underground statunitense; qui ebbe l’opportunità di confrontarsi e stringere amicizia con i più significativi esponenti della street art, tra cui Lee Quinones, Fab Five Freddy e Futura 2000. Haring subì indubbiamente il fascino e l’influsso di questi ultimi, e non nascose affatto il proprio ardente entusiasmo per il graffitismo.


Successivamente, forse per caso, forse per scelta, Haring decise di esprimere il proprio estro artistico intervenendo sugli spazi pubblicitari vuoti della metropolitana di New York, che divenne un <<laboratorio>> pubblico dove sperimentare infinite soluzioni.
Intanto, Haring iniziò ad acquistare una fama sempre più solida, confermata dal successo riscosso dalla mostra personale che organizzò nell’ottobre 1982 con la collaborazione del gallerista Tony Dhafrazi, al cui evento parteciparono tutti gli artisti e galleristi più famosi della Grande Mela. L’esibizione arricchì notevolmente la fama di Harring, ormai divenuto noto anche in Europa: in questo periodo l’artista si recò in Italia, in Germania, nei Paesi Bassi, in Belgio e in Gran Bretagna, lasciando segni di sé e della propria arte nei paesaggi urbani visitati.



Haring consacrò definitivamente il proprio talento nell’aprile del 1986 con l’inaugurazione a SoHo del Pop Shop; si tratta di un punto di vendita di gaget e magliette ritraenti le sue opere, così da mettere il proprio operato a disposizione di tutti.



La salute di Haring, a causa dell’AIDS, si fece via via sempre più malandata, fino a quando gli fu persino impossibile dipingere. L’ultima opera pubblica che eseguì fu Tuttomondo, sulla parete esterna del convento di Sant’Antonio a Pisa; si tratta dell’ultimo inno alla vita di Haring, e di uno dei progetti più importanti che abbia mai fatto. Malgrado la salute declinante, inoltre, Haring fondò la Keith Haring Fundation, che si propone di continuare la sua opera di sostegno alle organizzazioni a favore dei bambini e della lotta contro l’AIDS.



Keith Haring, morì il 16 febbraio 1990 a New York a causa delle complicazioni legate all’AIDS: aveva solo trentun anni.  
La versatilità delle opere di Haring trascende i mezzi espressivi tradizionali, tanto che per dare sfogo al proprio inesauribile estro artistico egli non esitò a sfruttare qualsiasi elemento avesse a portata di mano: le sue opere sono tracciate sui muri, carrozzerie di automobili, teloni in vinile, capi di abbigliamento, carta plastica recuperata dagli scarti, e tele.

<<Mi è sempre più chiaro che l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare>>
Keith Haring



Maria Paola Forlani


venerdì 26 gennaio 2018

LUIGI BUSI

Luigi Busi

L’eleganza del vero
1837 – 1884


L’artista Luigi Busi è protagonista della quattordicesima mostra retrospettiva promossa da Bologna per le Arti, associazione culturale da anni impegnata nel percorso di riscoperta e valorizzazione della pittura bolognese tra Ottocento e Novecento.
Si tratta della prima grande esposizione monografica dedicata al pittore nella sua città natale, che accoglie circa sessanta opere, tra dipinti e opere grafiche, di provenienza sia pubblica che privata affiancate dalle tele dei maestri che hanno segnato la sua formazione e degli artisti contemporanei che ne hanno influenzato l’iter creativo.
La mostra curata da Stella Ingino, è aperta a Bologna presso la Sala Ercole di Palazzo d’Accursio fino al 18 marzo 2018 (catalogo Grafiche dell’Arte).


Luigi Busi, figlio del maestro di musica Giuseppe Busi e di Maria Passarotti, discendente dai celebri pittori bolognesi Passarotti e pronipote dell’illustre paesista Rodolfo Fantuzzi, nasce il 7 maggio 1837 ed incline alle belle arti già all’età di dodici anni, fin dalle prime opere, lascia intravedere le sue doti di cui darà prova al Collegio Venturoli a partire dalla data della sua ammissione (1849).


Giovanissimo nel 1860 data del bellissimo Autoritratto, con alle spalle una formazione artistica che inizia proprio nel Collegio Venturoli in cui l’opera, insieme ad altre, è tutt’oggi conservata, Busi si ritrae all’età di ventitrè anni. Il pittore rivolge lo sguardo verso l’osservatore con un’aria distinta, signorile ed affascinante, con atteggiamento fiero che riflette la consapevolezza delle sue capacità.

Il Busi, giovane lodato per “diligenza” e “di belle speranze” – come scrivono i Professori tra cui il celebre pittore Giuseppe Guizzardi ed il rettore del Collegio Venturoli, il Canonico Giulio Evangelisti – che aveva saputo coltivare bene, su quella base solida, gli insegnamenti ricevuti, al 1860 vantava premi, medaglie e opere vendute alla Società Protettrice di Belle Arti. Del periodo giovanile vanno ricordate certamente la Properzia de’Rossi del 1854 realizzata all’età di 17 anni, l’Incontro di Giacobbe e Rachele del 1855, Nicolò de Lapi dell’anno successivo e la Figlia di Jefte del 1857.
In quest’ultimo anno, ormai ventenne, lascia il Collegio Venturoli e realizza il Ritratto dell’Amministratore Conte Agostino Salina.
Nei primi anni della formazione, sono da considerare senz’altro di grande importanza gli insegnamenti dei Professori Gaetano Serrazanetti, Antonio Muzzi, Napoleone Angiolini e del suddetto Guizzardi. Al termine della sua istruzione al Collegio, vince il concorso Angiolini e, designato come pittore storico, beneficia di una pensione di mantenimento. Si appresta così a conoscere l’arte italiana, viaggiando verso Roma e Firenze fino ad arrivare a Milano. Quest’ultima meta fu agognata dal pittore tanto che durante il penultimo anno di pensionato, sempre nel 1860, scrive agli Amministratori del Collegio Venturoli riguardo la sua volontà di voler proseguire gli studi nell’Alta Italia. Scrivendo da Genova, poi, presenta agli Amministratori del Collegio Venturoli alcuni soggetti per il saggio finale Angiolini ma sembra abbastanza convinto, già a quella data, di voler realizzare il dipinto raffigurante Le ultime ore del Doge Foscari (1861).

Sempre negli anni ’60, Luigi Busi è impegnato nella realizzazione delle scene del Rigoletto di Giuseppe Verdi presso il teatro di San Giovanni in Persiceto in collaborazione con Tito Azzolini e Luigi Bazzani.

E ancora lontana l’importante commissione ricevuta per la decorazione della Sala Rossa di Palazzo D’Accursio in cui realizza, insieme al quadraturista Luigi Samoggia, una tempera condotta con grande sapienza tecnica. Negli anni successivi si accosta a svariati temi del mondo borghese cui mostra di volersi costantemente ispirare, prediligendo scene di vita signorile caratterizzate dalla presenza di donne abbigliate elegantemente che, nonostante alcune critiche faranno onore alla sua carriera.
Risulta chiaro, in questo periodo, che il vecchio asse Firenze-Napoli è spezzato, tra coloro che propongono un confronto con il reale, interessato esclusivamente a tematiche contemporanee, e i nuovi interpreti di una risorta accademia che ripropone il vero ridotto a mera cifra stilistica.


Al di là delle polemiche, fondamentale è l’attenzione del macchiaiolo Signorini all’Esposizione Nazionale del 1870 svoltasi a Parma, che sarà calamitato verso l’opera di Busi Una visita di condoglianze, in cui l’artista bolognese, nel dipinto unisce al sentimento intimo della scena “tante altre qualità d’arte” che lo rendono, per Signorini, uno degli artisti veramente interessanti in quella Esposizione.

Ma perché, dirà qualcuno, il Busi non persiste a dipingere quadri d’argomento storico. La risposta è facile e semplice. I quadri storici, dipinti con coscienza, costano all’artista molto tempo e molto denaro e poi nessuno li compra.
Busi quindi si adegua alle esigenze del pubblico e persegue la via più sicura, abbandonando l’anima del pittore di storia per divenire poeta degli affetti. I quadri si popolano di madri con pargoli dando vita a tenere scene familiari ambientate in ricchi interni borghesi. Una pittura delicata che commuove ed emoziona e che gli garantisce successo tra i contemporanei al punto da essere definito il “vero pittore familiare moderno” ed essere selezionato per l’Esposizione Universale di Vienna del 1873.
Nel panorama bolognese Busi continua ad essere tra le punte più avanzate dell’arte moderna, ed è chiamato nel 1873 a realizzare il grande dipinto Martirio dei Ss. Vitale e Agricola per l’altare maggiore della omonima chiesa di Bologna.
Agli anni Ottanta risalgono le decorazioni della Sala Greca e della Sala degli Etruschi del Museo Civico Archeologico e della Cappellina Hercolani Belpoggio a Bologna, oltre agli interventi in Palazzo Pighini, Palazzo Vacchi Suzzi e nel Santuario della Madonna del Piratello ad Imola.

Il sopraggiungere di una malattia mentale lo costringe per alcuni mesi al ricovero presso il manicomio di Villa Sbertoli a Pistoia, ma nel 1883 Busi è nuovamente a Roma all’Esposizione Nazionale. Tra le sue ultime opere si ricorda Riunione di famiglia e una Madonna Addolorata recante la scritta “Mater dolorosa ora pro nobis”, probabilmente una preghiera prima che l’acuirsi della malattia lo costringa a letto, dove sopraggiunge la morte nel 1884, a soli 47 anni.


Maria Paola Forlani

mercoledì 24 gennaio 2018

ODISSEE

Odissee, Diaspore, Invasioni, Migrazioni, Viaggi e Pellegrinaggi


Torino presenta nella sede di Palazzo Madama fino al 19 febbraio 2018, la mostra Odissee, Diaspore, invasioni, migrazioni, viaggi e pellegrinaggi allestita nella Corte Medievale.

L’esposizione, ideata dal direttore di Palazzo Madama Guido Curto e curata insieme agli storici dell’arte del museo, racconta il cammino dell’Umanità sul pianeta Terra nel corso di una Storia plurimillenaria. In mostra un centinaio di opere provenienti dalle raccolte di Palazzo Madama e dai vari musei del territorio e nazionali: dipinti, sculture, ceramiche antiche, reperti etnografici e archeologici, oreficerie longobarde e gote, metalli ageminati e miniature indiane, armi e armature, avori, libri antichi, strumenti scientifici e musicali, carte geografiche, vetri, argenti ebraici e tessuti.

Il percorso si articola in dodici sezioni: la preistoria, i viaggi mitologici di Ulisse ed Enea, La Diaspora ebraica, l’espansione dell’impero Romano, le cosiddette invasioni Barbariche, l’espansione Islamica, le Crociate, i Pellegrinaggi, le Esplorazioni, le migrazioni contemporanee.

La mostra prende il via dal lento processo di diffusione della specie umana sulla Terra iniziato 60-70.000 anni fa dall’Africa verso gli altri continente. Interessante l’approfondimento sul concetto di “razza” che trapela vivacemente tra le immagini, i testi in catalogo e gli oggetti esposti.
Qui viene chiarito che la genetica umana, oggi assai sofisticata, ha dimostrato che la diversità biologica tra due individui qualsiasi della nostra specie è dovuta per l’85% al fatto che appartengono appunto alla stessa specie, e per il 10% al fatto che la loro origine geografica si colloca in continenti diversi, portando la differenza del colore della pelle, che più di ogni altra ha alimentato lo stereotipo razziale, occupa nello spettro della diversità biologica una frazione minima. A questa frazione tuttavia è stato associato il massimo valore sociale e culturale perché il nostro occhio è capace di distinguere differenze di colore e di forme, ma non differenze in sequenza di DNA, ben più determinanti nella nostra vita biologica.

Alla radice del problema del razzismo sta la risposta a un problema più fondamentale che la scienza da sola non può risolvere: dobbiamo augurarci una società culturalmente omogenea oppure una società multicultutale? La natura, e forse anche la cultura, ci hanno indicato che le affermazioni: 1) tutti gli individui sono uguali, 2) tutti gli individui sono diversi, conducono a pregiudizi cui può attingere l’ideologia razzista, è compito di chi si occupa di scienze biologiche, sociali e politiche indicarne le armi educative con cui combattere tali pregiudizi.  Ѐ necessario ricordare che né il comportamento razzista è la necessaria conseguenza di un pregiudizio razzista dell’esistenza o meno di “razze” umane geneticamente indefinibili.

 La mostra prosegue grazie a un impulso innato all’esplorazione ben rappresentato nella sezione Odissee.
 L’Odissea omerica è il vero prototipo letterario del viaggio nella civiltà occidentale e, oggi, un po’ in tutte le culture del pianeta. Il suo protagonista Odisseo o Ulisse, è uomo “polytropos” e “polymetis”, dai molti lati, dalle molte intelligenze. Tra gli eroi che combattono a Troia è, già nell’Iliade, il primo vero e proprio homo sapiens sapiens della letteratura: colui che, unico, pensa sempre prima di agire. La stessa distruzione di Troia non possa essere presa con la forza, ma debba invece essere espugnata con l’inganno. Ѐ lui, infatti, a inventare il famoso cavallo di legno.

Da Troia arsa in cenere sono due i personaggi miticamente centrali che partono: il troiano Enea, uno degli sconfitti, cui la semplice necessità della sopravvivenza richiede di “emigrare” e trovare un luogo dove fondare una “nuova” Troia; e il greco Ulisse, uno dei vincitori che affrontano il difficile ritorno a casa. Ulisse sfiora, nella concezione giudaico-cristiana, l’errare di Abrano e poi del popolo di Israele nell’esodo, sino a divenire, nella versione forse più importante dopo Omero, quella di Dante, precursore dell’uomo dedito all’esplorazione del mondo.


E nell’Odissea” dantesca, quella del canto XXVI dell’Inferno, i poeti, gli interpreti, e i navigatori stessi del Rinascimento vedono Ulisse come antenato di Cristoforo Colombo (Tasso) e di Amerigo Vespucci (Vespucci stesso), oppure come scopritore e fondatore della “Nuova Spagna”, cioè la civiltà americana (Pedro Sarmiento de Gamboa).

Tale visione si amplierà e approfondirà nel secolo XIX, quando l’Ulisse del vittoriano Tennyson ispirerà gli esploratori e conquistatori britannici dell’Africa e, non più di un secolo fa, coloro che tenteranno di vincere l’Antartide. Del resto l’Odissea ritorna, proprio in questa dimensione, sul finire del secolo scorso, nella trama e nel titolo di 2001: Odissea nello spazio, il celebre film “fantascientifico” e “fantastorico” di Stanley Kubrick.



Dopo un focus sulla diaspora ebraica, dall’antichità al XIX secolo d.C., il tema del viaggio è analizzato rivolgendo lo sguardo alla rapida espansione dell’Impero Romano lungo le vie consolari, che viene poi messo a confronto con le contrastanti “invasioni” delle popolazioni germaniche e asiatiche in arrivo da Ovest verso Sud.


In seguito alle quali, dal IV secolo d.C., avviene una profonda trasformazione del tessuto istituzionale e sociale dell’impero romano, fino alla sua repentina disgregazione. Alcuni reperti di arte ostrogota e longobarda rinvenuti in territorio piemontese testimoniano l’immissione di tradizioni e stili di vita che contribuirono nei secoli a definire progressivamente l’identità europea.

Momento cruciale è il confronto tra grande tradizione della cultura islamica e le élites europee avvenuto con le Crociate, germe di parallelismi anche culturali e figurativi. Comune a tutti i tempi e a tutte le religioni è la pratica del pellegrinaggio, che porta ogni anno milioni di persone a sportarsi, solitarie o in massa alla ricerca di un contatto più diretto con il sacro.



Il racconto prosegue con I viaggi di esplorazione verso l’Africa, alla ricerca di una possibilità di circunavigare il globo verso Oriente e verso Occidente, che portarono alla scoperta dell’America e successivamente a una politica di colonizzazione di nuovi territori da parte delle potenze europee.



Gli oggetti in vetro provenienti dal Museo dell’arte vetraria di Altare (Savona) e un pianoforte meccanico di inizio Novecento del Musée Savoisien di Chambéry sono invece gli emblemi di quell’emigrazione di cittadini italiani che tra Otto e Novecento si spostarono in Francia e in Sud America in cerca di un futuro migliore portando con sé competenze professionali importanti per lo sviluppo economico e culturale dei loro Paesi d’adozione.


Il percorso si conclude con un accenno alle migrazioni di oggi, emblematicamente rappresentate da un’opera specchiante dell’artista contemporaneo Michelangelo Pistoletto intitolata Love Difference che raffigura il bacino del Mar Mediterraneo sullo sfondo di una bandiera immaginaria.



Al centro dell’allestimento si libra un’antica piroga di Panama proveniente dai depositi del Museo civico di Arte Antica di Palazzo Madama, che qui assurge ad emblema del viaggio nei secoli.




Maria Paola Forlani