venerdì 18 agosto 2017

ZAHA HADID

Zaha Hadid

Il Maxxi rende omaggio all’architettura contemporanea con la mostra dedicata a Zaha Hadid, che progettò il Maxxi.


In un’epoca in cui salute e sicurezza, economia, clima e politica, sono pervase da una fluida incertezza, potrebbe sembrare logico che l’architettura contemporanea debba riflettere tale tendenza e che con tutta probabilità eviti di prendere una direzione ben definita, oscillando tra il minimalismo ascetico, il proselitismo ambientalista e le decorazioni neobarocche. Tuttavia, alcuni architetti trovano il coraggio di aggrapparsi con fervore a una filosofia di continuità, di affermare audacemente che può esistere, e di fatto esiste, un nuovo paradigma degno di attenzione o perfino di emulazione.
Tra i pochi artisti in grado di lanciare un simile appello c’è Zaha Hadid
(Baghdad, 31 ottobre 1950 – Miami, 31 marzo 2016), vincitrice del Pritker 2004.
 La sua morte prematura nel marzo 2016 è stata pianta universalmente.

Nel catalogo della Biennale di Architettura di Venezia del 2008, Patrik Schumacher, fedele collaboratore di Hadid, firma un testo in cui afferma: << Nell’architettura contemporanea d’avanguardia è possibile rintracciare un nuovo e inconfondibile manifesto di stile caratterizzato da una sensazionale linearità curva, complessa e dinamica. Al di là di questa evidente qualità immediatamente percepibile è possibile individuare una serie di nuovi concetti e metodi così distanti dai modelli architettonici tradizionali e moderni da poter suggerire la nascita di un nuovo paradigma architettonico. Le idee comuni, i repertori formali, le logiche tettoniche e le tecniche digitali che contraddistinguono queste opere stanno creando le basi di un nuovo stile predominante: il parametricismo, il primo grande movimento nato dopo il moderno. Il postmoderno e il decostruttivismo sono episodi transitori che si sono manifestati in questo nuovo e lungo percorso di ricerca e innovazione [] >>

Resta da vedere se il termine parametricismo riesce a prendere piede e passa davvero a denominare uno stile o una scuola di architettura contemporanea, ma è comunque chiaro che Zaha Hadid Architects ha richiamato l’attenzione su una metodologia e un approccio progettuale, nati solo 30 anni fa, che mettono in discussione diversi presupposti fondamentali della stessa architettura.

A prescindere dalla sua predisposizione a sfidare la geometria, o più precisamente l’organizzazione e la distribuzione spaziale degli elementi architettonici, Hadid ha mostrato notevole coerenza e continuità di pensiero durante tutta la sua carriera professionale, una costanza che non è affatto legata a quel genere di stile basato su griglie ortogonali che ha ispirato Richard Meier o Tadao Ando, per esempio. I suoi progetti e le sue realizzazioni hanno in comune la fluidità delle piante e il movimento degli spazi e delle superfici che l’artista è riuscita a generare, ma dalla spigolosità della Caserma dei vigili del fuoco del Campus Vitra (Weil am Rhein, Germania, 1988 – 1993) alla più recente installazione Dune Formations (David Gill Galleries, 2007), si può notare una tendenza a mettere in dubbio l’architettura e gli arredi del passato.
Zaha Hadid è nata a Baghdad, Iraq, da una famiglia benestante, è cresciuta in uno dei primi edifici bauhaus di ispirazione a Baghdad durante un’epoca in cui “modernismo” significava glamour e pensiero progressista in Medio Oriente.

Ha conseguito una laurea in matematica alla American University di Beiurut prima di trasferirsi a Londra, nel 1972, per studiare alla Architectural Association, dove ha incontrato Rem Koolhaas, Elia Zenghelis e Bernard Tschumi. Dopo aver conseguito il titolo ha lavorato con i suoi ex professori, Koolhaas e Zenghelis, presso l’Office for Metropolitan Architecture (OMA), a Roterdam, nei Paesi Bassi, diventando socia nel 1977. Attraverso la sua associazione con Koolhaas, ha incontrato Peter Rice, l’ingegnere che le ha dato sostegno e l’ha incoraggiata nella fase iniziale, in un momento in cui il suo lavoro sembrava difficile. Nel 1994 ha insegnato alla Graduate Scool of Design dell’Università di Harvard, occupando la cattedra che fu di Kenzo Tange. Nel 1980 fonda il suo studio a Londra. Dagli anni ottanta ha  insegnato alla Architectural Association.

Ѐ scomparsa nel 2016 all’età di 65 anni, a seguito di un attacco cardiaco mentre era in ospedale a Miami, dove era stata ricoverata per una bronchite.
Un anno dopo la sua improvvisa scomparsa, il Maxxi ospita fino al 14 gennaio 2018 la mostra “L’Italia di Zada Hadid” a cura di Margherita Guccione (direttore Maxxi Architettura) e Woody Yao (direttore Zaha Hadid Desin).

Organizzata in collaborazione con la Fondazione Zaha Hadid, la mostra intende evidenziare l’intenso e duraturo rapporto dell’architetto con il nostro paese a partire da progetti come il Terminal Marittimo di Salerno, il Messner Mountain Museum a Plan de Corones, City Life a Milano, e naturalmente, il Maxxi.


Allestita negli spazi della più spettacolare galleria del museo, la Galleria 5 con grande vetrata che si proietta sulla piazza, la mostra esplora a 360 gradi l’opera e il pensiero di Hadid: dai bozzetti pittorici e concettuali ai modelli tridimensionali, dalle rappresentazioni tridimensionali e virtuali, agli studi interdisciplinari, insieme a oggetti, video, fotografie capaci di rivelare lo sforzo costante di ricerca pionieristica e sperimentale. Un’ampia sezione è dedicata al rapporto di Zaha con il design made in Italy, con cui ha stretto interessanti e ripetuti sodalizi creativi e produttivi.

Anche quando disegna oggetti e arredi, Zaha rimane sempre e prima di tutto un architetto: i suoi oggetti occupano lo spazio come vere e proprie architetture. Dai divani per B&B Italia e Cassina alle sedie, le panche, i tavoli per Sawaya & Moroni; dalle lampade per Slamp, ai vasi e i centrotavola per Alessi e le librerie componibili per Magis, con incursioni nel mondo dell’alta gioielleria con l’anello B.zero1 e della moda con l’esclusiva borsa disegnata per un evento charity di Fendi.



Maria Paola Forlani

giovedì 17 agosto 2017

MUSEO NAZIONALE COLLEZIONE SALCE

Museo nazionale Collezione Salce

Illustri persuasioni. Capolavori pubblicitari dalla Collezione Salce


Proporre una definizione compiuta ed esauriente del termine “grafica” sarebbe un’impresa davvero ardua, tanta è la ricchezza dei materiali che vi si possono ricondurre. E proprio per questo, in verità, ci si dovrebbe limitare a classificare, piuttosto che presumere di definire: registrando le moltissime tipologie, indicizzando i formati e le funzioni, elencando le svariate – e invero assai complesse – tecniche di incisione e di riproduzione a stampa. Con spirito più elettivo che sistematico diventa interessante ripercorrere la storia della grafica illustrata databile tra il 1850 e il 1950, affascinati dall’opportunità di enucleare, per questo periodo, un’enorme quantità di prodotti – manifesti, soprattutto – eccellenti, straordinariamente innovativi tanto nelle funzioni quanto nei linguaggi.

In questo contesto è assodato, una volta per tutte, l’importanza assoluta di quest’arte applicata, che ancora troppo spesso ci si preoccupa di dover emancipare moralmente dalla propria funzionalità, spiccatamente commerciale o più genericamente comunicativa che sia.

Già il giovane Roberto Longhi si dimostrava conscio del suo imprescindibile valore: nel 1918, affermava sicuro che qualche tempo prima, << nel sottozero inesorabile dell’arte nostrana, i cartellonisti italiani rifugiati all’estero [] erano ancora gli unici connazionali che sapessero fare dei “quadri”>> (in Rassegna Italiana”, I) 
A Treviso ha aperto il Museo nazionale Collezione Salce, che ospita la vastissima raccolta di manifesti pubblicitari del collezionista trevigiano Ferdinando Salce, detto Nando, sotto la direzione di Marta Mazza.

Chissà se un museo dedicato era proprio ciò che aveva in mente Nando Salce (1878 – 1962), quando ormai cinquantacinque anni fa, nel dicembre 1962, donò la sua straordinaria collezione di manifesti pubblicitari allo Stato italiano. Di certo, come si evince dal testamento, era perfettamente conscio dell’importanza della raccolta <<per la storia degli stili e degli artisti, e per le evoluzioni degli usi e costumi della collettività>>; e certamente per questo auspicava che << servisse a studio e conoscenza di studenti, praticanti e amatori delle arti grafiche>>.

Ora il museo esiste – il Museo nazionale Collezione Salce – è un’eredità universale, pubblica, liberamente offerta a beneficio del sapere e del fare in un settore tanto specifico quanto sottovalutato.  L’evento espositivo inaugurale apre con il titolo Illustri persuasioni. Capolavori pubblicitari della Collezione Salce. Tale progetto viene concepito in tre puntate, propone infatti un campionario di eccellenze della raccolta, connotandone in modo spettacolare la rinnovata e permanente esposizione a Treviso; per parlare, come il ragionier Salce sperava, a chiunque possa ancora amare la grafica pubblicitaria, guidato da conoscenza e competenza tecnica o semplicemente mosso da istinto, reminiscenza, empatia.

La prima puntata delle Illustri persuasioni, aperta il 27 maggio fino al 1 ottobre, mette in scena La Belle Epoque  ( che è anche il titolo della mostra). Con materiali datati tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale, ripropone i fasti di un momento storico tra i più vivaci e innovativi dell’era moderna, caratterizzato da grandi trasformazioni urbane e di costume: le Esposizioni universali, l’architettura del ferro e del vetro, la bicicletta e l’automobile, la luce elettrica, la moda per tutti, i cabaret, l’assenzio e lo champagne. Un’epoca che, nonostante le oggettive diseguaglianze e povertà, ammantò se stessa di un’esuberante “Joi de vivre”, decorata di fiori e scintillante di luci. Un’epoca in cui, come ebbe a dire il grande Marcello Dudovich, << non si poteva non avere fiducia nell’avvenire>>.

Un’epoca che com’è noto, fu anche indiscutibilmente l’“âge d’or>> del cartellonismo, di quelle grandi immagini colorate, subito popolari e amatissime, che tapezzarono i muri della città e sollecitarono vere e proprie manie, dalla Parigi del “cafè chantan” fino alla provinciale Treviso del giovane Salce. Ogni linguaggio artistico, in quell’epoca, si fece manifesto, a fini commerciali o anche semplicemente ideologici: dai retaggi accademici ai fitomorfismi modernisti al rigore austero e raffinatissimo delle Seccessioni germaniche; e tutti sono documentati, in mostra, attraverso capolavori di Chéret, Cappiello, Hohenstein, Dudovich, Metlicovitz, Terzi, Villa; e dell’immancabile Mataloni che nel 1895, complici le nudità castamente velate ma non troppo di una novella Venere accovacciata – il manifesto per

 l’ Incandescenza a gas brevetto Auser -, folgorò il diciottenne Nando alimentando per sempre la sua gioiosa ossessione.
Tutte le mattine correvo alla colonna Morris, per vedere gli spettacoli che annunciava. Nulla era più felice dei sogni offerti alla mia fantasia [] e che erano condizionati a un tempo dalle immagini inseparabili delle parole che componevano il titolo e anche dal colore dei cartelloni ancora umidi e gonfi di colla su cui questo spiccava…”    Marcel Proust.

Gli ottanta pezzi esposti sono naturalmente un campione minimo di ciò che la collezione conserva nella sua interezza; ma grazie alla banca dati digitale, tutta la collezione è liberamente consultabile via internet.

Altre Illustri persuasioni saranno peraltro presto a disposizione: dal 14 ottobre 2017 al 14 gennaio 2018, un altro centinaio di pezzi andrà a raccontare gli straordinari decenni Tra le due guerre (anche questo titolo della mostra), forieri della grafica pubblicitaria di innovazioni formali e tecniche davvero sorprendenti, tra politiche aziendali e strategie di propaganda; e sarà la volta di Nizzoli, Carboni, Boccasile, Sironi, Codognato, Munari, Mauzan, Seneca.


Da giugno 2018, infine, la selezione di opere per la mostra Dal secondo dopoguerra al 1962 porterà alla luce la parte meno nota della Collezione; e sarà chiaro come nell’epoca in cui i terreni della grafica pubblicitaria cominciarono a essere contesi dai nuovi media, il manifesto fu costretto a effetti speciali completamente nuovi.



Maria Paola Forlani

martedì 1 agosto 2017

RESTAURO DEI RILIEVI DI SAN LORENZO DI DONATELLO

Donatello
Restauro dei rilievi dei pulpiti
nella chiesa di San Lorenzo a Firenze


Restaurati con sapienza dall’Opificio delle Pietre Dure sotto la direzione di Maria Data Mazzoni, i rilievi in bronzo di Donatello anziano che compongono i pulpiti in san Lorenzo a Firenze si offrono ora nella piena e completa visibilità della loro qualità artistica e intensità devozionale.
Ormai vecchio e malato, l’artista riceve dall’antico amico Cosimo de’ Medici l’incarico di realizzare i due pulpiti per la chiesa di famiglia, San Lorenzo. Donatello vi lavora fino alla fine dei suoi giorni: dopo la sua morte, a quanto sembra, non erano ancora stati installati in loco, Donato deve aver plasmato i modelli in cera e poi lasciato la fusione ai collaboratori.

I Pulpiti sono decorati con scene della Passione e della Resurrezione realizzate in bronzo a bassorilievo. Nella parte superiore il fregio sembra essere successivo alla fase donatelliana, così come i rilievi in legno che chiudono l’antico accesso ai pulpiti stessi. Le due tribune sono però identiche: differenti le dimensioni, la ripartizione delle scene.
Il pulpito meridionale è più corto ma più alto. I lati maggiori sono divisi in due scene: queste hanno inizio dalla Orazione nell’Orto, sul lato posteriore, cui seguono sul lato est: Cristo davanti a Pilato e Caifa: su quello frontale: Crocifissione e Compianto; sul lato ovest: Sepoltura. Il resto è completato dai rilievi secenteschi in legno con la Flagellazione e San Giovanni Evangelista.

Le scene meno conosciute, come Cristo davanti a Pilato e Caifa, presentano l’ormai sperimentato gioco fra una parte superiore dominata dal fondale prospettico e la parte inferiore popolata di figure. In quest’ultima porzione non vi è più nulla di ordinato: i personaggi affollano la scena uno accanto all’altro e, spesso, uno sopra l’altro. Possiamo solo intuire che i momenti sono due, appunto Cristo davanti a Pilato e davanti a Caifa, e riconosciamo la volta a botte cassettonata presente già a Padova nel Miracolo della mula. A causa della vicinanza con l’opera padovana, questa porzione della decorazione viene considerata quella che Donatello eseguì per prima. Nelle scene dal soggetto più intenso del pulpito sud di San Lorenzo, eseguito come quello nord per Cosimo il Vecchio, Donatello impiega un registro espressivo carico di accentuazioni drammatiche. I giochi prospettici degli interni sono quasi abbandonati e la sua attenzione si concentra sul tema da rappresentare.

Nel caso della Deposizione, l’artista fiorentino riprende l’idea, utilizzata anche a Padova, di rappresentare il corpo di Cristo parallelo al sepolcro. Il corpo sembra pesantissimo e appare singolarmente umana la posizione che raffigura la testa riversa all’indietro retta tramite il lenzuolo da Giuseppe d’Arimatea.
Tutta la parte centrale vede uomini e donne intenti nella dolorosa operazione funebre. Tra queste, colpisce la nostra attenzione la figura di spalle (Nicodemo probabilmente) piegata in avanti nell’atto di reggere le gambe di Gesù: era dai tempi di Giotto che non si vedeva un personaggio all’interno della scena dare le spalle allo spettatore nascondendo del tutto il volto in modo così composto.


Poco dietro il sepolcro si scorgono le Marie piangenti: in quest’occasione Donatello rispolvera l’antica tecnica dello “stiacciato” per acuire il senso del dramma, disegnando appena queste figure che sono dotate di un rilievo quasi impercettibile.
Ai lati della scena, come negli altri riquadri, Donatello ha posto sulle colonne delle figure che in qualche modo hanno il ruolo di intermediari fra lo spazio reale, quello dello spettatore, e quello rappresentato. Queste due figure sono senz’altro opera di Bartolomeo Bellano, uno degli scultori che aiutò il maestro nelle operazioni di modellato e di fusione. La sua mano è infatti riscontrabile anche nella scena narrativa, ad esempio nella figura barbuta di destra, ma la qualità generale e l’impostazione spaziale sono da tutti considerata opera di Donatello in persona.

Assieme al pulpito sud, quello posto a nord nella chiesa di san Lorenzo rappresenta l’ultima commissione prestigiosa giunta dai Medici. Nonostante in uno dei medaglioni compaia l’iscrizione “OPUS DONATELLI FLO”, l’opera è da considerarsi essenzialmente un prodotto di bottega: vecchio e malato, Donatello deve aver svolto un ruolo essenzialmente progettuale, lavorando sui modelli di cera in sito.

Al contrario del pulpito posto a sud, le scene raffigurate sui lati lunghi sono tre: da una parte sono visibili la Discesa al Limbo, la Resurrezione e l’ Ascensione; sui lati corti la Pentecoste e le Pie donne al sepolcro; sulla facciata posteriore il Martirio di San Lorenzo, completato dagli intagli lignei seicenteschi con Cristo deriso e San Luca.
La scena del Martirio di San Lorenzo è l’unica a soggetto non cristologico del ciclo ed è un evidente omaggio al santo cui era dedicato il tempio mediceo. Qui le forme sono esasperate dai gesti e dalla violenza commessa.

Domina la scena, ricordando le battaglie di Paolo Uccello, il boia che con una lunga tenaglia costringe Lorenzo sulla graticola. Quest’ultimo ha i tratti del volto sconvolti dal dolore e non  sembra provare conforto alcuno dall’angelo che accorre per portargli la palma del martirio.



Maria Paola Forlani