martedì 30 marzo 2021

Lisetta Carmi

 Lisetta Carmi


Lisetta Carmi nasce a Genova da una famiglia borghese di origini ebraica.

Nel 1934 inizia a studiare pianoforte, frequenta la terza ginnasio ma viene espulsa dalla scuola perché ebrea. Così si dedica totalmente alla musica, in quanto ritrova lo strumento come “il suo unico compagno”. Nonostante le leggi razziali, riesce a seguire lezioni e a sostenere esami di livello presso il Conservatorio di Genova.

Con l’inizio della seconda guerra mondiale, la sua famiglia è costretta a spostarsi in Svizzera per sfuggire alle persecuzioni razziali. Lì Lisetta Carmi continua lo studio presso il conservatorio di Zurigo.

Finita la guerra, torna a Genova per riprendere a suonare con il maestro, Alfredo They, e nel 1946 si laurea in pianoforte presso il conservatorio di Milano.


Inizia presto a fare concerti in giro per il mondo e riceve apprezzamenti in recensioni su giornali quali il Nürnberger Zeitung e il Main Echo. Procede con l’attività di concertista in Svizzera, in Italia e infine in Israele, proponendo un repertorio classico, comprendente musica di artisti come Beethoven, Scarlatti, a cui accosta brani di musicisti italiani del Novecento quali Luigi Dallapiccola, Luigi Cortese e Tito Aprea.


Nel 1960, grazie all’amicizia con Leo Levi, torna in Israele per intraprendere, in varie città, una lunga turnée che si conclude con un’esibizione nel Kibbuz a Nethanya.

Si esibisce con il maestro They riproducendo la Suggestione diabolica, opera 4 e la toccata, Opera 11 di Prokofiev presso il Centro siderurgico Oscar Sinigaglia dell’Italsider di Conegliano e nelle Ferriere della Fiat a Torino, per il documentario L’uomo, il fuoco, il ferro di una collaborazione fra Kurt Blum e il fratello della donna, Eugenio Carmi.


Il 30 giugno del 1960 vuole prendere parte allo sciopero di protesta indetto dalla Camera del Lavoro di Genova. Il suo maestro è fortemente in disaccordo, perché spaventato dalla possibilità che una lesione impedisca alla donna di continuare a suonare.

<<Ricordo benissimo di avergli risposto che se le mie mani erano più importanti del resto dell’umanità avrei smesso di suonare il pianoforte>>

(Giovanna Calvezzi, Le cinque vite di Lisetta Carmi, Bruno Mondadori, 2013, p.24)

In quel momento, Lisetta Carmi sceglie di smettere di suonare rifacendosi ai suoi ideali a al bisogno di libertà che la musica e l’attività di concertista non le danno.

Inizia così la sua carriera da fotografa che porterà avanti solo fino al 1984, producendo però un vastissimo archivio.


Durante il suo secondo percorso lavorativo intraprende diversi viaggi verso l’Oriente i quali culminano nell’incontro con il maestro Babaji, avvenuto il 12 marzo 1976, data che segna la seconda svolta della sua vita. Nel 1979 fonda Cisternino, in Puglia, l’ashram Bhole Baba, e da quel momento in poi dedica alla diffusione degli insegnamenti del maestro.

In seguito i suoi interessi si sono orientati verso lo studio e la riproduzione di calligrafia cinese.

Le sue fotografie, però, sono rimaste oggetto di grande attenzione sia in Italia che all’estero.

Carriera da fotografa

Lisetta Carmi si avvicina alla fotografia nel 1960 grazie all’amico musicologo Leo Levi, che la invita a partire con lui per la Puglia, dove lo studioso avrebbe registrato i canti della comunità ebraica di San Nicandro Garganico. Per l’occasione la donna acquista la sua prima macchina fotografica, un’Afga Silette con nove rullini, e ritrae in foto esperienze di quel viaggio.


Al suo ritorno a Genova, sviluppa le fotografie e riceve molti apprezzamenti. Rendendosi conto della qualità del lavoro prodotto, decide subito di intraprendere la carriera di fotografa. Così grazie a suo fratello Eugenio, si reca a Berna dove Kurt Blum le insegna a stampare, sviluppare le fotografie e le dà alcuni consigli. Infatti la invita a “guardare sempre cosa c’è dietro” quello che intende immortalare, tecnica che la donna sfrutterà per tutto il suo percorso da fotografa. L’artista impiegherà dunque la fotografia come “strumento per la ricerca della verità.


Nel 1962 il fratello Eugenio le presenta il direttore del Teatro Duse, Ivo Chiesa, che decide di assumerla in qualità di fotografa i scena. Fino al 1965 Lisetta continua a lavorare a teatro entrando così in contatto con vari artisti quali Luigi Squarzina, Giuliano Scabia, Emanuele Luzzati, Carlo Quartucci e Aldo Trionfo. Nello stesso anno realizza un reportage in Sardegna.


Contemporaneamente crea un’opera grafica dedicata al Quaderno Musicale di Annalibera di Luigi Dallapiccola stampato e rilegato da maquette. In questo progetto accosta il lavoro musicale del compositore a un corrispettivo “segno fotografico” per ognuno degli 11 brani presenti nel quaderno: procede infatti stampando un negativo, esponendolo alla luce per farlo diventare scuro e quindi graffiandolo. Infine verrà pubblicato dalla casa editrice Sedizioni solo nel 2005.

Inoltre viene assunta dal Comune di Genova per alcuni servizi fotografici in vari luoghi della città quali l’anagrafe, gli ospedali Gaslini e Galliera, il centro storico e le fogne cittadine.

Nel 1963 inizia a frequentare la Galleria del Deposito, fondata dal Gruppo Cooperativo di Boccadasse, dove entra in contatto con le avanguardie artistiche del tempo.


Nel 1964 l’amica Enrica Basevi, allora dirigente della Società Cultura di Genova, le propone di aderire al progetto Genova porto: monopoli e potere operaio riportando un servizio fotografico che testimonia le condizioni di lavoro dei camalli. Le fotografie vengono diffuse attraverso una serie di mostre. Prima fra tutte quella alla Casa della Cultura di Genova-Calata del Porto organizzata dalla FILP-CGIL, che vede partecipare anche Giuliano Scabia, che redige le didascalie per le foto; e Aristo Ciruzzi, che collabora con l’allestimento. Molto apprezzata, la mostra viene esposta anche in altre città quali Torino, dove le fotografie vengono presentate presso il Circolo Gobetti di Noberto Bobbio, per finire in Unione Sovietica.


La fotografa collabora con alcune riviste italiane tra cui Il Mondo, Vie Nuove e L’Espresso.

Nel gennaio del 1965 si reca a Piadera, dove fa un reportage sui i luoghi e i personaggi, fra cui il mastro Mario Lodi e il Duo di Piadena, protagonisti di quel “laboratorio culturale”. Le fotografie verranno esposte nel 2018 con la mostra Un paese 50 anni dopo. Lisetta Carni a Piadena: fotografie 1965, a cura di G. B. Martini.

Dal 5 al 19 dicembre dello stesso anno si reca a Parigi, dove effettua un reportage sulla metropolitana. Torna a Genova e crea un volume Métropolitain, libro d’artista composto dalle sue fotografie e alcuni testi di Instantanés di Alain Robbe-Grillet, che l’anno successivo vince il secondo posto al Premio per la cultura della Fotografia di Fermo.



Il 31 dicembre, grazie all’amico Gasparini, Lisetta incontra la comunità di travestiti che occupava l’ex ghetto ebraico di Genova. Da qui nasce un vero e proprio legame alimentato attivamente per sei anni, in cui la donna fotografa la realtà di quella comunità. Le foto dei travestiti, inizialmente presentate solo in bianco e nero e in seguito ristampate a colori, oltre a essere del tutto insolite e percepite come scandalose dal sentimento comune dell’epoca, vanno nuovamente a mettere in luce il sentimento di vicinanza di Lisetta Carmi verso figure emarginate dalla società, riscontrabile nella maggior parte dei suoi reportage. Le fotografie accompagnate dai testi delle interviste dello psichiatra Elvio Fachinelli, verranno raccolte in un libro I travestiti pubblicato nel 1972 da Sergio Donnabella, che fonda appositamente la casa editrice Essedi. Inizialmente il volume viene rifiutato dai canali di vendita ufficiali per contenuti ritenuti scandalosi, ma nel corso del tempo acquisisce sempre più successo. L’11 febbraio del 1966 Lisetta va, assieme al direttore dell’ANSA di Genova, a Sant’Ambrogio di Zoagli a fotografare Ezra Pound, allora nella sua residenza ligure.

Nonostante il loro incontro sia brevissimo e privo di comunicazione, la donna riesce a scattare una serie di venti fotografie. Dopo averle sviluppate, selezione le dodici più significative e partecipa all’edizione italiana del Premio Niépece e lo vince. Il servizio su Ezra Pound nel 1967 viene pubblicato sulla rivista Marcatré e nel 2005 raccontato nel libro L’ombra del poeta. Incontro con Ezra Pound..

Successivamente si reca nei Paesi Bassi dove fotografa i protagonisti del movimento di protesta dei Provos.

Tornata a Genova effettua un reportage sulle tombe del cimitero monumentale di Staglieno intitolato Erotismo e autoritratto a Staglieno, che nonostante non sia immediatamente compreso e pubblicato, contribuisce a far conoscere la donna a livello internazionale.

A novembre del 1966 si reca a Firenze dopo l’alluvione che devastò la città, dove realizza vari still-life che fungono da testimonianza sul disastro accaduto.

Dal 10 al 12 giugno del 1967 durante il Convegno di Ivrea ha l’opportunità di eseguire diversi ritratti ai partecipanti, fra cui si ricordano Carmelo Bene, Sylvano Bussotti, Edoardo Sanguinetti, Cathy Berberian, Francesco Quadri e Alberto Arbasino.

Il 19 ottobre 1968 realizza un reportage sul parto naturale nell’Ospedale Galliera di Genova.

Nel 1969 la fotografa intraprende un viaggio in tre mesi in America meridionale, dove visita Venezuela, Colombia e Messico. Qui realizza diversi servizi fotografici sia in bianco e nero che a colori, che più tardi compaiono su vari periodici.

Al suo ritorno in Italia si reca a Roma per assistere al congresso di psicanalisi organizzato da Elvio Fachinelli, dove incontra e fotografa Jacques Lacan.



 

Nel 1970 viaggia in Oriente e con la sua macchina fotografica documenta l’Afghanistan, l’Ind

giovedì 25 marzo 2021

SCRIBENDO ATQUE PINGENDO

 


Scribendo atque pingendo

 

Nei secoli dal nono al dodicesimo, era compito delle badesse copiare e ritrarre i simboli sacri e dipingere i margini dei libri; e l’ornare gli scritti sacri doveva sollevare l’anima e ispirare la mente a Dio. Dipingere in calligrafia costituiva per molte dame sofferenti, una consolazione e un complemento agli esercizi religiosi. Queste artefici fecero molto per preservare l’arte dall’oblio, mentre gli uomini dedicavano il loro tempo e i loro pensieri (trovandovi distrazione) ai clamori delle battaglie o alle dispute delle scuole.


Prima della invenzione della stampa, la scrittura e la pittura erano strettamente collegate, ed essere uno scrivano comportava, frequentemente, il miniare in modo immaginoso il testo, oltre a trascriverlo accuratamente. Redegonda a Poitiers nel sesto secolo, e suor Giovanna Petroni a Siena nel quattordicesimo secolo, dirigevano conventi istituiti al preciso scopo di formare copiste e miniaturiste. Le sante Arlinda e Relinda nell’ottavo secolo divennero anche maestre, e la cronaca della loro storia è narrata in una biografia del nono secolo, tanto altamente erano apprezzate la loro erudizione e produttività artistica.


L’antico biografo racconta che queste due sorelle <<mostrarono una seria inclinazione sin dalla prima età>> e furono educate in un convento a Valeciennes, dove vennero istituite <<in quel che ai giorni nostri stimasi meraviglioso, nella scrittura e pittura (scribendo atque pingendo), opera invero faticosa sinanche per gli uomini>>. Ritornate dalla scuola conventuale, Relinda e Arlinda fondarono un centro a Maaseyck, cui si unirono molte giovani donne, le quali seguirono l’esempio delle loro maestre che <<aborrivano la pigrizia ed erano dedite al lavoro>>. A prescindere dai loro doveri amministrativi, le due sorelle portarono a termine molti arazzi ricamati in modo ricercato con oro e gemme, trascrivendo e miniando nel contempo libri di salmi ed evangeli. Frammenti di queste opere rimangono ancor oggi nella chiesa di Maaseyck, a testimonianza delle loro fatiche.


Adelarda, S. Gisella, S. Ratrude, e numerose altre monache divennero famose come miniaturiste e il nome d’una di loro Diemud, divenne sinonimo di produttività. Lavorando assiduamente nel monastero di Wesobrun dal 1057 al 1130. Diemud produsse circa quarantacinque manoscritti <<di rara bellezza>> contraddistinti da lettere iniziali estremamente ornate e da una scrittura minuscola di <<grande eleganza>>. La sua penna straordinariamente prolifica indusse il suo biografo a tributarle il complimento, sincero seppure ambiguo, che la sua opera <<superava quella che avrebbe potuto fare numerosi uomini>>.


L’argomento del manoscritto – la fine del mondo, tema prediletto del decimo secolo- ha senza dubbio stimolato l’immaginazione della pittrice. Coloratissimi draghi, demoni, angeli, animali e santi riempiono le pagine della sua opera, <<non superata da nessun’ altra del decimo secolo>>. Le sue composizioni fortemente accentrate danno un senso di equilibrio teologico ed estetico, e le ampie fasce di colore in alcuni sfondi danno ordine alla complessità della visione


I nomi di donne di questo periodo che di solito vengono registrati sono quelle di badesse potenti come Aelflaed, badessa di Whitby; Aethalthrith di Ely; Cristina di Mergate; Eustadiola di Bourges; Hitda di Meschede; Agnese di Quedlinburg; Ada sorella di Carlomagno; Uta, badessa di Regensburg. Talvolta erano esse stesse

le artiste, talvolta erano le patrone di opere d’arte cui legavano i loro nomi. Queste donne esercitarono una influenza importante sulla Chiesa nel suo insieme (come narra Joan Morris nel suo libro, intitolato The Lady was a Bistratrici ed educatrici attivissime.


 Sant’Ildegarda di Bigen (1096-1179) fu una tra le più notevoli di queste badesse. Conosciuta principalmente come mistica, si occupò anche di scienza naturali e di medicina, del dibattito politico e religioso del suo tempo, di musica e di riforma della lingua (inventò un linguaggio segreto di 920 parole; e il titolo del suo libro di visioni, Scrivias, potrebbe essere una di queste). Nel 1136 fu nominata badessa, e immediatamente fece spostare la comunità in una località nuova, Rupertseberg, presso Bighen, sul Reno.


Fu soltanto dopo il quarantatreesimo anno che le sue visioni interiori si rivelarono in tutta la loro forza:

Ero stata consapevole, sin dalla prima fanciullezza, di un potere di intuizione e di visioni di cose nascoste, sin dall’età di cinque anni, allora e poi sempre d’allora in avanti. Ma non ne feci menzione se non a poche persone religiose, che seguivano la stessa mia regola; lo tenni nascosto nel silenzio, sino a che Dio nella sua grazia non volle che ciò fosse manifesto…Fu nel mio quarantatreesimo anno, mentre fremevo nella trepida aspettativa d’una visione celestiale, che scorsi un grande splendore attraverso cui una voce dal cielo si rivolgeva a me: <<O fragile figlia della terra, cenere delle ceneri, polvere della polvere, esprimi e scrivi ciò che vedi e odi. Tu sei timorosa nel parlare, ingenua nello spiegare, ignorante nello scrivere, purtuttavia esprimiti e scrivi non secondo l’arte ma secondo la abilità naturale, non sotto la guida dell’umano comporre bensì sotto la guida di ciò che vedi e odi lassù, nel cielo di Dio…>>


In verità lo Scrivas è dominato da visioni di luce – stelle, luna, sole e sfere fiammeggianti – che combattono, e infine sopraffanno, un’oscurità potente piena di demoni, draghi e mostri. È interessante confrontare la iconografia originale e il senso di tensione morale trasmesso da queste miniature con l’opera di Ende.


Mentre Ildegarda scriveva, chiaramente, per il mondo esterno alle mura del convento, Herrade di Landseberg, la badessa di Hohenburg nel dodicesimo secolo, si occupava particolarmente della educazione delle monache sotto la sua direzione. Ella intraprese, negli anni fra il 1160 e il 1170, la scrittura e la miniatura di un enorme manoscritto mirante a istruire le sue monache nella <<storia del mondo, dalla creazione agli ultimi giorni>>. Hortus deliciarum (Il giardino delle delizie) era senza dubbio di mano sua, e conteneva 636 miniature, comprendenti figure allegoriche, illustrazioni di scene bibliche, visioni apocalittiche, suggerimenti di giardinaggio e scene di vita contemporanea – una sorta di almanacco ed enciclopedia. Tale manoscritto per secoli custodito con gran cura nella biblioteca di Strasburgo, fu distrutto da un incendio durante il bombardamento della città nel 1870. Fortunatamente gli studiosi del diciannovesimo secolo avevano fatto calchi meticolosi di molte figure del manoscritto – senza l’argento e l’oro, il colore brillante dell’originale. – a comunicare oggi l’ampio respiro e l’audacia della concezione di Herrade.


M.P.F.

 

 

lunedì 22 marzo 2021

La Donna nel Medioevo

 


La Donna nel Medioevo

Esaminando lo status della donna nel Medioevo, si evince che purtroppo, contadina, commerciante, nobile o monaca che fosse, era sempre considerata un essere inferiore per sua specifica natura rispetto all’uomo. Le donne erano considerate non solo deboli fisicamente ma anche moralmente e, quindi, da proteggere dal mondo esterno e da se stesse; le si riteneva non in grado di discernere e quindi “in pericolo”.


La donna nel Medioevo è pressochè svantaggiata sin dalla sua nascita, e le veniva riservata un’esistenza da trascorrere in sudditanza e in totale dipendenza dalla famiglia di origine e poi dalla famiglia del congiunto. Rispetto alla materia giuridica, si assiste a un generale ritorno agli aspetti più arcaici del diritto romano, nel passaggio delle “tutele “paterne a quelle del marito e della famiglia dei suoceri ed a un generale irrigidimento normativo quanto a gestione del patrimonio e tutela filiale.

La vita delle donne in età medioevale era assolutamente limitata: non potevano esprimersi in pubblico e, se dovevano per qualche motivo partecipare ad un processo, un parente stretto doveva parlare al posto loro. Se non trovavano da sposarsi, avevano due alternative: o essere mandate a servizio presso qualche famiglia o recarsi in convento e trascorrervi il resto della propria esistenza.

Per esempio, la vita delle contadine era molto faticosa e richiedeva molte energie: a loro spettava l’accudimento della prole, degli animali allevati di piccola taglia, la gestione del focolare e della pulizia (di casa e di indumenti), alcune mansioni di raccolta (la fienagione e mietitura) in ambito prettamente agricolo e la produzione di latte e derivati. Si sposavano giovani e potevano mettere al mondo anche un numero elevato di figli, da 8 a 10, non necessariamente destinati a sopravvivere, più facilmente soggetti a morte per incidente o infezione di varia natura.

In ambito aristocratico, la vita delle donne non era particolarmente più agevole: per i genitori le figlie femmine erano una maniera per ottenere risorse in termini di alleanze politiche e potere e, a questo scopo, potevano essere concesse in spose anche all’età di 7 anni.


La loro educazione era gestita dalla componente femminile della casa e ad attività femminili venivano educate, perlopiù a dedicarsi alla tessitura e al ricamo.


In realtà, solo ed esclusivamente in casi di matrimoni di un certo livello, le donne potevano sperare di gestire un feudo intero con tutta una schiera di servi, capocuochi, camerieri e maggiordomi, ma anche in quel caso dovevano per prime seguire occupazioni di tipo domestico, quali la salatura della carne, la preparazione dei formaggi, di vini e dei prodotti della terra. Ma di fatto spettavano loro, però, mansioni di carattere amministrativo o di tipo organizzativo che andassero oltre lo spazio domestico.


M.P.F.

 

VELLUSA TESORI

La Donna nel Medioevo

 

domenica 21 marzo 2021

Giovanni Bellini

 

Giovanni Bellini


L’eccellenza del colore

Di Peter Humfrey

In un ideale atlante delle immagini del Rinascimento Giovanni Bellini (1438/1516) occupa una posizione strategica. È l’artista che più di altri, sa tradurre in un linguaggio figurativo popolare la potenza e la devozione della Repubblica di Venezia. Le sue Madonne col Bambino, ambite dall’aristocrazia lagunare e poi dai musei del mondo, cristallizzano un’iconografia che sintetizza cultura orientale e occidentale. Mentre le sale e le chiese che raccolgano questo patrimonio materiale restano vuote, è possibile ripercorrere l’opera del maestro del colore attraverso la monografia appena pubblicata da Marsilio: una porta accessibile e dall’apparato fotografico impeccabili.


Il grande rinnovatore della pittura veneziana è fratello di Gentile Bellini, Giovanni Bellini (Venezia, 1425-30 ivi, 1516), talvolta detto <<Giambellino>>. Educatosi nella bottega paterna, egli sente il bisogno di più ampie conoscenze, di studi approfonditi sui maggiori artisti apportatori di novità rinascimentali, sia su quelli che hanno lasciato tracce a Venezia, come Andrea del Castagno, sia quelli che operano furi, da Piero della Francesca e da Roger Van der Weyden (che può aver visto a Ferrara). Al Mantegna, i rapporti col quale si fanno poi più stretti per il matrimonio di quest’ultimo con la sorella del Bellini, Nicolosia.


Fra i due pittori vi sono scambi reciproci, fruttuosi per ciascuno dei due. Giovanni conferisce però sempre alle sue figure un accento lirico, intimo, anche quando più evidenti sono gli elementi mantegneschi, come nell’Orazione nell’orto. La vicinanza e, al tempo stesso, la profonda divergenza dei due artisti è visibile in molte altre opere degli anni ’60: per esempio nella Trasfigurazione di Cristo (Venezia, Museo Correr) e, soprattutto, nella Pietà. Sono queste le caratteristiche che il pittore andrà sempre più sviluppando. La Trasfigurazione, dipinta fra il 1480 e il 1485, è opera capitale, Bellini rinuncia a rappresentare, secondo narrazione evangelica e secondo l’iconografia tradizionale, i tre protagonisti evangelici e i tre protagonisti (Cristo, Mosè, Elia) in alto e i tre apostoli (Pietro, Giacomo, Giovanni) in basso sul colle Tabor, limitandosi a indicare la differenza gerarchica fra i due gruppi con le diverse posizioni sono, tutti, uomini che vivono in un’unica natura amica. Per questo rinuncia anche alla prevalenza quantitativa delle figure sul paesaggio, stabilendo così un nuovo rapporto fra l’uomo e la natura.


Tutto è costruito con il colore. Cristo, dai riflessi luminosi della candida veste che lo avvolge, riceve leggerezza, quasi una levitazione, che esprime il suo <<trasfigurarsi>>.


Quale importanza abbia avuto per Venezia la breve permanenza di Antonello da Messina è evidente nella Pala di San Giobbe del Bellini che ben si confronta con quella di San Cassiano di Antonello (1470)

Nella Pala di San Giobbe le figure si dispongono dolcemente intorno alla Madonna, entro un’architettura albertiana. I colori con cui sono costruite le figure si fondono fra loro mediante una luce calda che tutto unifica nei riflessi del mosaico del catino absidale.


Quando dipinge la Pala di San Zacaria, Giovanni Bellini è ormai vecchio. Ma, proseguendo sulla strada intrapresa con la Pala di San Giobbe, raffina ancora più il suo delicato luminismo cromatico…

Giovanni Bellini, infaticabile ricercatore durante la sua lunga vita, artista sensibile e intimamente lirico, il più grande del’400 veneziano, chiude un’epoca e si pone, al tempo stesso, all’inizio di una età nuova.


M.P.F.

La Monografia

Giovanni Bellini.

L’eccellenza del colore

Di Peter Humfrey

Marsilio (pagg.290, euro 60

Con 180 illustrazioni

 

mercoledì 17 marzo 2021

 

S


Séraphine de Senlis

Seraphine Louis nacque ad Arsy, comune nella regione francese della Piccardia, il 3 settembre 1864, da padre orologiaio e madre proveniente da famiglia di pastori. Questa morì all’epoca del suo primo compleanno, e fu seguita sette anni dopo anche dal padre, il quale si era nel frattempo risposato. La situazione economica drammatica in cui la famiglia versava, costrinse la piccola Louis a lavorare inizialmente come domestica nel convento delle Sorelle della Providenza a Clermont, nel 1881.


Per un certo periodo accarezzò addirittura l’idea di farsi monaca; poi, mossa da esigenze economiche, trovò impiego come cameriera a ore nella vicina cittadina di Sanlis, dove si trasferì nel 1906. Furono anni bui, allietati solo dalla profonda fede religiosa e dalla frequentazione della maestosa cattedrale gotica della città, le cui vetrate policrome lasciarono un’impronta profonda sulla sua fantasia e servirono quali fonte d’ispirazione, per la brillantezza dei colori, delle sue creazioni. Parallela all’ardua attività lavorativa, ebbe anche inizio l’attività pittorica, alla quale Louis sosteneva di essere stata introdotta da un angelo o dalla Madonna stessa. In ogni caso, la donna, terminato il lavoro giornaliero, prese l’abitudine di dipingere durante la notte, in momenti di solitaria alienazione, tele a tema floreale. Un’estate puliva le stanze di un critico d’arte in vacanza, Wilhelm Uhde (era lo scopritore di Henri Rousseau). Quando egli per caso vide il suo lavoro, capì che aveva fatto un’altra scoperta.

Come egli stesso affermava, non era un semplice studio di frutta e fiori ma un’opera ispirata, dipinta con fervore medievale e notevole tecnica al tempo stesso. Egli fece una notevole pubblicità al lavoro di Seraphine e la rifornì di tele più larghe e colori migliori. Venivano sempre studenti di arte da Parigi (lei stessa non aveva mai visto quella città) per apprendere come facesse a ottenere un oro così brillante che si può ammirare, ad esempio, nello splendido ed iridescente ‘Albero del paradiso’.


Lei però pose un cartello sulla sua porta che diceva <<M.lle Seraphine non riceve>>, si barricava nella sua stanza con una complicata serie di lucchetti ogni volta che dipingeva e per questo il segreto del suo colore lucente morì con lei. Le sue visioni divennero sempre più apocalittiche e annunciò a tutti nel paese che era prossima la fine del mondo.

Grazie al mecenate Uhde, la pittrice-cameriera conobbe un periodo di benessere e successo finanziario che in precedenza non aveva conosciuto. Questa fase di floridezza, tuttavia, fu di breve durata, allorchè Uhde nel 1930 fu colto dalla Grande Depressione: il munifico mecenate, profondamente indebitato, non potè fare altro che interrompere l’attività mercantile e smettere di acquistare i sui dipinti, e anche i suoi pochi clienti sparirono.


Si manifestarono allora sintomi di un esaurimento psichico che la portò al ricovero nel manicomio di Clermont, dove le fu diagnosticata una forma di psicosi cronica con manie di grandezza. Fu quindi trasferita in una casa di cura a Villers-sous-Erquery, dove si spense lentamente, per poi morire lì l’11 dicembre 1942, all’età di settantotto anni: le sue ultime parole furono <<ho fame>>.


Séraphine Luis è ricordata tra i più significativi esponenti dell’arte naïf. La sua produzione pittorica si sostanzia di tele raffiguranti principalmente tappeti di fiammeggianti fiori e foglie lussureggianti, in un trionfo botanico di alberi, frutti e cespugli realizzati con un’intensa carica onirica, che avvicina l’artista al surrealismo. Il tema floreale è probabilmente una reminiscenza della fanciullezza trascorsa con la madre; per questo motivo i fiori di Seraphine non sono semplici decorazioni, bensì sono sostenuti da un’immediata e vibrante forza espressiva, e scossi da una bellezza candida eppure brutale.


Peculiare era anche la tecnica pittorica adottata da Louis. I colori e i pigmenti usati da Seraphine sono frutto di una formula di sua stessa invenzione, composta in parte da acquarello, in parte da sostanze che si era ben guardata dallo specificare, ma presumibilmente sono cera liquida per pavimenti in alcuni dipinti e l’antico legante ad uovo in altri. A questo personaggio enigmatico, inoltre, il regista Martin Provost nel 2009 dedicò un film Séraphine, vincitore di ben sette riconoscimenti alla 34 edizione dei Premi César.


Séraphine Louis è ben rappresentata al museo d’arte di Senlis, nel museo d’arte naïf di Nizza e nel museo d’arte moderna di Villeneuve-d’Ascq.



M.P.F.