martedì 31 maggio 2016

IL VETRO DEGLI ARCHITETTI

Il Vetro degli Architetti. Vienna 1900 – 1937

Il Vetro degli Architetti. Vienna 1900-1937 a cura di Rainald Franz, aperta fino al 31 luglio 2016 sull’Isola di san Giorgio Maggiore a Venezia, mette a fuoco per la prima volta l’influenza epocale che i progetti dei giovani architetti del Modernismo Viennese esercitano sullo sviluppo dell’arte vetraria a Vienna. Con oltre 300 opere provenienti dalla collezione del MAK –Museo Austriaco di Arti Applicate /Arte
contemporanea di Vienna e da collezioni private, la mostra presenta infatti la genesi della moderna arte vetraia in Austria tra il 1900 e il 1937, un periodo molto fervido, compreso tra gli ultimi decenni dell’Impero Austro-Ungarico e la Prima Repubblica. Dopo Il vetro finlandese nella collezione Bischofberger, questa è la seconda esposizione sulle scuole nazionali dell’arte vetraria in Europa del XX secolo, organizzata da LE STANZE DEL VETRO, progetto culturale pluriennale promosso dalla Fondazione Giorgio Cini e Pentagram Stiftung, per lo studio e la valorizzazione dell’arte vetraria del XX e XXI secolo.

A cavallo del 1900, un gruppo di giovani architetti e designer, allievi di Otto Wagner, delle accademie e delle scuole di architettura, sviluppò uno speciale interesse per la lavorazione del vetro, al tempo eletto anche in architettura come materiale modernista per eccellenza. Protagonisti del Modernismo Viennese, come Josef Hoffmann (1870-1938), Kolman Moser (1868-1918), Joseph Maria Olbrich (1867-1908), Leopold Bauer (1872-1938), Otto Prutscher (1880-1949), Oskar Strnad (1879-1935), Oswald Haerdtl (1899-1959) e Adolf Loos (1870-1933), oggi famosi in tutto il mondo, aprirono la strada ai primi pioneristici sviluppi nella moderna produzione vetraria ornamentale e funzionale, lavorando direttamente nelle fornaci con l’obiettivo di comprendere a fondo il materiale.

Gli architetti viennesi misero in atto il profondo rinnovamento dei metodi e dei materiali avviato dall’Accademia di Vienna e della scuola viennese di arti e mestieri (Wiener Kunst-gewerbschule ) anche attraverso scuole di specializzazione (Fachschulen) come quelle di Steinschӧnau e Haida, centri dell’industria vetraria Boema. La collaborazione tra architetti e designer e l’integrazione di queste innovazioni nella produzione, grazie al contatto diretto con i vetrai viennesi e intermediari come E. Bakalowits & Sӧhne e J.& L. Lobmeyr e con aziende produttrici come Johann Lӧtz Witwe, consentì la diffusione di una concezione del design radicalmente innovativa. Gli architetti avevano infatti la possibilità di visitare le vetrerie e di elaborare le loro concezioni.

Questo nuovo approccio era in linea anche con l’atmosfera di riforma artistica diffusa dal movimento della Secessione Viennese, così come dalla Wiener Werkstӓtte (1903-1932) e dal Werkbund tedesco e austriaco (associazione di artigiani fondate rispettivamente nel 1907 e nel 1912) con l’obiettivo di “nobilitare” il lavoro dei produttori e di incoraggiare la collaborazione tra arte, artigianato e industria.

Il Vetro degli Architetti. Vienna 1900-1937, attraverso l’accostamento di oggetti di vetro, e dei loro progetti con disegni e fotografie d’epoca, in un allestimento originale che restituisce il gusto dell’epoca, mira a far rivivere le impressioni sbalorditive che questi oggetti così radicalmente moderni, crearono nel pubblico. L’allestimento ripropone, inoltre, esempi di carta da parati e tessuti della Wiener-Wisgrill, che complementano gli elementi decorativi dei vetri.
La mostra ripercorre cronologicamente le tappe attraverso cui il vetro d’arte disegnato dagli architetti viennesi divenne un marchio e una costante nelle importanti esposizioni del periodo. Partendo dagli esordi dell’ottava mostra della Secessione, presentata a Vienna nel 1900 (stanza 1) e dalla fondazione della Wiener Werkastӓtte nel 1903 con la sua produzione successiva (stanza 2 e 3),
il percorso passa in rassegna i vetri del periodo bellico e classicista dell’esposizione del Werkbund a Colonia nel 1914 (stanza 4 e 5)
, per arrivare fino ai lavori presentati all’Esposizione internazionale di Parigi del 1925 e ai vetri degli anni Venti e Trenta, tra i quali spicca l’unico progetto in vetro di Adolf Loos, il Trinkservice No.248 del 1931, uno dei servizi di bicchieri più noti della Lobmery, ancora oggi in produzione (stanza 6).


La settima sala ospita la ricostruzione integrale, realizzata dal MAK, del Boudoir d’une grande vedette,



la sala di vetro progettata da Josef Hoffman per il padiglione austriaco dell’esposizione universale di Parigi del 1937.

Maria Paola Forlani



lunedì 30 maggio 2016

BIENNALE ARCHITETTURA 2016

Biennale Architettura 2016


REPORTING FROM THE FRONT

Durante un suo viaggio in America del Sud, Bruce Chatwin incontrò un’anziana signora che camminava nel deserto trasportando una scala di alluminio sulle spalle.
Era un’archeologa tedesca Maria Reiche, che studiava le linee Nazca. A guardarle stando con i piedi appoggiati al suolo, le pietre non avevano alcun senso, sembravano soltanto banali sassi. Ma dall’alto della scala, le pietre si trasformavano in uccelli, giaguari, alberi o fiori.
Maria Reiche non aveva abbastanza denaro per noleggiare un aereo e studiare le linee dall’alto, e la tecnologia dell’epoca non disponeva di droni da far volare sul deserto. Ma l’archeologa era abbastanza creativa da trovare comunque un modo per riuscire nel suo intento. Quella semplice scala è la prova che non dovremmo chiamare in causa limiti, seppure duri, per giustificare contro la scarsità dei mezzi: l’inventiva.
D’altra parte, è molto probabile che Maria Reiche si sarebbe potuta permettere un’automobile o un furgone per viaggiare nel deserto, salire sul tetto della vettura e guardare da una certa altezza; e così facendo si sarebbe anche potuta spostare con maggiore rapidità. Ma questa scelta avrebbe distrutto l’oggetto del suo studio. Quindi, in questo caso, si è arrivati a una valutazione intelligente della realtà grazie all’intuizione dei mezzi con cui prendersene cura. Contro l’abbondanza: la pertinenza.
Il curatore Alejandro Aravena ha voluto che la 15. Mostra Internazionale di Architettura offrisse un nuovo punto di vista, come quello che Maria Reiche aveva dall’alto della scala. Di fronte alla complessità e alla verità delle sfide che l’architettura deve affrontare, REPORTING FROM THE FRONT si propone di ascoltare coloro che sono stati capaci di una prospettiva più ampia, e di conseguenza sono in grado di condividere conoscenza ed esperienza, inventiva e pertinenza con chi tra noi rimane con i piedi appoggiati al suolo.
L’architettura si occupa di dare forma ai luoghi in cui viviamo. Non è più complicato, né più semplice di così. Questi spazi comprendono case, scuole, uffici, negozi e aree commerciali in genere, musei, palazzi ed edifici istituzionali, fermate dell’autubus, stazioni della metropolitana, piazze, parchi, strade (alberate o no), marciapiedi, parcheggi e l’intera serie di programmi e parti che costituiscono il nostro ambiente costruito.
La forma di questi luoghi, però non è definita soltanto dalla tendenza estetica del momento o dal talento di un particolare architetto. Essi sono la conseguenza di regole, interessi, economie e politiche, o forse anche della mancanza di coordinamento, dell’indifferenza e della semplice casualità. Le forme che assumono  possono migliorare o rovinare la vita delle persone. La difficoltà delle condizioni (insufficienza di mezzi, vincoli molto restrittivi, necessità di ogni tipo) è una costante minaccia a un risultato di qualità.
Le forze in gioco non intervengono necessariamente a favore l’avidità e la frenesia del capitale, o l’ottusità e il conservatorismo del sistema burocratico, tendono a produrre luoghi banali, mediocri, noiosi. Ancora molte battaglie devono essere dunque vinte per migliorare la qualità dell’ambiente costruito e, di conseguenza, quella della vita delle persone.
Inoltre, il concetto di qualità della vita si estende dai bisogni fisici primari alle dimensioni più astratte della condizione umana. Ne consegue che migliorare la qualità dell’ambiente edificato è una sfida che va combattuta su molti fronti, dal garantire standard di vita pratici e concreti all’interpretare e realizzare desideri umani, dal rispettare il singolo individuo al prendersi cura del bene comune, dall’accogliere lo svolgimento delle attività quotidiane al favorire l’espansione delle frontiere della civilizzazione.
La proposta del curatore è stata duplice: da una parte, ha ampliato la gamma delle tematiche affinchè l’architettura fornisca delle risposte, aggiungendo alle dimensioni artistiche e culturali che già appartengono al nostro ambito, quelle sociali, politiche, economiche e ambientali. Dall’altro, Aravena ha cercato di evidenziare il fatto che l’architettura è chiamata a rispondere a più di una dimensione alla volta, integrando più settori invece di scegliere uno o l’altro.
REPORTING FROM THE FRONT riguarda la condivisione con un pubblico più ampio dell’opera delle persone che scrutano l’orizzonte alla ricerca di nuovi campi di azione, offrendo esempi in cui più dimensioni vengono sintetizzate, integrando il pragmatico con l’esistenziale, la pertinenza con l’audacia, la creatività con il buonsenso. Questi sono i fronti da cui vari professionisti hanno portato contributi all’evento Biennale, dando notizie, condividendo storie di successo e casi esemplari in cui l’architettura ha fatto, fa e farà la differenza.
Credo che il merito di Aravena sia di essere riuscito a schivare in parte il pericolo di una assunzione ideologica e moralistica, aprendo a una pratica curatoriale più aperta e problematica che, accanto agli slogan dell’architettura per tutti, apre spiragli verso pratiche più interstiziali e intriganti sulle responsabilità del progetto. Come nella bella e agghiacciante installazione – The Evidence Room – che, partendo dall’analisi forensica del campo di concentramento di Ausschwitz, replica le caratteristiche degli spazi e dei luoghi di detenzione ricostruendo gli strumenti architettonici di detenzione e di tortura: frutto dell’accurata progettazione di ingegneri e di architetti al servizio del terrore.
Qualcosa di concreto e duraturo vorrebbe portarlo anche il Padiglione Italia, alle Tese delle Vergini, dove il gruppo TAMassocciati presenta Taking Care, Progettare per il bene comune. I curatori hanno invitato cinque team di architetti, accoppiati ad altrettante associazioni, a proporre delle piccole architetture mobili in grado di attivare circoli virtuosi in zone difficili.

Nel Padiglione Italia possiamo ammirare un Legality Box, container da installare a presidio dei luoghi confiscati dalla mafia; l’ambulatorio pensato da Matilde Cassani con Emergency; l’Unità di Monitoraggio Ambientale per Legambiente; un “dispositivo per lo sport” (Marco Navarra con UISP)
E la biblioteca nomade BiblioHub pensata da Alterstudio Partners con l’Associazione italiana Biblioteche.

Maria Paola Forlani


sabato 28 maggio 2016

IPPOLITO CAFFI

Ippolito Caffi

Tra Venezia e l’Oriente
1809-1866

“Sono arrivato qui dopo un mezzo naufragio sul Mar di Marmora. L’imponenza di Smirne e la sua posizione mi ha sorpreso non poco, ma quando fui giunto dirimpetto a Costantinopoli, a Pera, Galata e il Bosforo, io mi credeva trasportato in Paradiso”
Ippolito Caffi a Lettera ad Antonio Tessari, 3 novembre 1843

150 anni fa muore durante la battaglia di Lissa nell’affondamento della Re d’Italia – sulla quale si era imbarcato per testimoniare le vicende belliche con l’incisività dei suoi disegni – Ippolito Caffi (1809 – 1866), bellunese di nascita e veneziano d’elezione, straordinario pittore-reporter, irrequieto osservatore della società e convinto patriota. 150 anni fa (quasi un segno del destino!) il Veneto e Venezia vengono annessi all’Italia. Venezia: la città che Caffi ha maggiormente amato, lottando per la sua libertà, e di cui ha tradotto in pittura la struggente bellezza, con una capacità di sintesi che non ha eguali in tutto il secolo.

Ѐ in questa coincidenza di ricorrenze che l’imponente fondo di dipinti di Caffi appartenente alla Fondazione Musei Civici di Venezia – che ha avviato un’intensa attività di valorizzazione del proprio patrimonio – viene esposto integralmente, a distanza di cinquant’anni, in una grande mostra al Museo Correr aperta fino al 20 novembre 2016, promossa dalla Fondazione MUVE insieme a Civita Tre Venezie e a Villaggio Globale International a cura di Annalisa Scarpa ( catalogo Marsilio ).

Una mostra che è un tributo a quello che possiamo considerare il più moderno e originale vedutista del tempo, insuperabile nell’immortalare con la sua pittura di luce l’anima di luoghi e di popoli incontrati in tanti viaggi in Italia, in Europa e nel bacino del Mediterraneo. Ma soprattutto un tesoro – pressochè inesplorato e stupefacente nel suo complesso – che finalmente riemerge: un nucleo pittorico di oltre 150 opere che la vedova Caffi, Virginia Missana, ha donato alla città nel 1889 insieme ad altrettanti disegni sciolti e a ventitrè album.

Definito per la sua abilità prospettica l’ultimo erede di Canaletto, Ippolito Caffi supera in realtà ed elude la tradizione canalettiana, arricchendola con un’accentuata comprensione del dato atmosferico e un ricercato studio sugli effetti di luce, fino a traghettare il genere del vedutismo verso la contemporaneità.

Ѐ una luce “emotiva” quella che Caffi traduce in pittura e che rende i suoi quadri tanto poetici, affascinanti e amati: una capacità di analisi di ogni sfumatura ambientale così come di ogni elemento architettonico e urbanistico percepito con inusuale empatia. Una miscela geniale di bagliori artificiali e di luce naturale: effetti chiaroscurali che scandiscono il concetto di vedutismo tradizionale, applicando un’inedita ottica che raggiunge formule modernissime, in un gioco continuo tra il “sublime” e il “pittoresco”. Ecco Ippolito Caffi, artista ma anche uomo travolgente: una vita che scorre come in un romanzo tra arte e passione politica.

“…Fra pochi giorni la mia Virginia mi raggiungerà qui, e allora forse andremo a passare l’inverno a Napoli, finchè si potrà vedere rotte le catene che tiene oppressa la nostra misera Venezia, ridotta all’ultimo della sua esistenza morale e materiale []. Se ami qualche dettaglio del nostro miserabile paese, fammelo sapere, che lo avrai, col patto di non compromettermi perché la polizia di Venezia sarebbe capacissima di vendicarsi sull’innocente mia Virginia []

Ippolito Caffi a Antonio Pavan, Milano 29 settembre 1860.
Reporter di viaggi e di accadimenti straordinari, Caffi viaggiò in lungo e in largo per mezza Europa e per il Vicino Oriente. Affamato di novità e di avventura si spingerà da Atene a Costantinopoli, dal Cairo a Gerusalemme e oltre. L’esilio lo porta poi a Genova come a Ginevra, a Nizza, a Parigi e Londra, in un girovagare perennemente creativo.

Non solo, ma nel panorama degli artisti viaggiatori italiani dell’Ottocento che sentirono il fascino della Grecia e appunto dell’Oriente, Ippolito Caffi fu il primo artista ad affrontare da solo un viaggio considerato all’epoca, periglioso e d’indubbia difficoltà. Prima di lui chi aveva intrapreso questo viaggio lo aveva fatto al seguito di spedizioni organizzate, per lo più archeologiche, con il ruolo d’illustratore.

Il desiderio di Caffi di conoscere quelle terre lontane ha più di una motivazione: le fonti letterarie contemporanee da un lato – da Chateaubriant a Hugo – e gli audaci viaggi dell’esploratore padovano Giambattista Belzoni dall’altro, non bastano tuttavia a spiegare quanto egli desiderasse realizzare questo sogno.
Ѐ il suo senso dell’avventura, la sua curiosità per ciò che appare meno noto, dai popoli ai monumenti, a fargli ascoltare questo canto di sirena. La sua straordinaria e pionieristica esperienza rafforza il suo vocabolario artistico, lo arricchisce di luce vivida e di colori smaltati, in un reportage dove l’esotico lascia sempre spazio al meraviglioso e all’incanto.

Maria Paola Forlani