lunedì 15 luglio 2019

Mona Lisa


LEONARDO DA VINCI’S 
EARLIERS

Mona Lisa



Si è aperta fino al 30 luglio 2019 la mostra dedicata allo splendido ritratto della giovane Lisa Gherardini, commissionato a Firenze da suo marito, Francesco del Giocondo, e realizzato da Leonardo da Vinci (1503 – 1506), nella sede di Palazzo Bastogi. Cinquecento anni dopo la morte del Maestro, la “Earlier Mona Lisa” fa ritorno nella città in cui è stata dipinta.


La “Earlier Mona Lisa”, realizzata circa dieci anni prima dell’icona “Mona Lisa” del Louvre, viene esposta entro una cornice di una mostra multimediale interattiva, che prevede l’uso di tablet. L’esposizione racconta l’affascinante scoperta del dipinto, insieme alle testimonianze storiche, scientifiche, matematiche e comparative che ne dimostrano la paternità di Leonardo da Vinci.



Il dipinto è diventato oggetto di attenzione a livello internazionale quando è stato presentato ai media nel 2012 dalla Mona Lisa Foundation, che ha divulgato i risultati di oltre 35 anni di studi. La mostra “Leonardo da Vinci’s ‘Earlier Mona Lisa” è stata inaugurata a Singapore nel 2014, suscitando grande consenso e interesse mondiale. Questa è la prima volta in cui il pubblico può ammirarla in Europa.


Il Professor Jean- Pierre Isbouts della Fielding Graduate University, che per molti anni ha condotto ricerche sul dipinto, ricorda la prima volta che l’ha visto: “Non ero preparato per questo incontro, è stata un’esperienza veramente emozionante. In quel momento non avevo dubbi: stavamo guardando un ritratto realizzato da Leonardo da Vinci”


Nel 1584, Gian Paolo Lomazzo – uno degli storici dell’arte più rispettati del suo tempo – aveva già confermato l’esistenza di due Monna Lisa. Infatti, se si considerano tutte le importanti testimonianze storiche, diventa evidente che uno dei ritratti di Monna Lisa, quello con una giovane Lisa di circa vent’anni seduta tra due colonne, fu commissionato da suo marito a Firenze nel 1503 – 1506 circa e fu lasciato incompiuto. L’altro ritratto, un’opera completamente finita con Lisa più matura senza colonne ai lati,


fu invece commissionato da Giuliano de’ Medici e dipinto a Roma circa un decennio dopo. La tecnica utilizzata nella seconda versione, ossia quella che oggi è esposta al Louvre, fu sviluppata da Leonardo solo quando Lisa avrebbe avuto più o meno trent’anni, una differenza che chiaramente si riscontra nell’età delle donne nei due dipinti.


La “Earlier Mona Lisa”, che probabilmente è stata sottoposta a più test ed esami scientifici di ogni altro quadro della storia, affascina gli studiosi di tutto il mondo. Rispetto all’ultima mostra, si possono ora aggiungere questi nuovi e fondamentali punti fermi:

Nell’aprile del 2019, la Fielding University Press ha pubblicato “Leonardo da Vinci’s Mona Lisa: New Pers”, una raccolta di studi che riguardano il famosissimo ritratto di Lisa del Giocondo. Esperti provenienti da Stati Uniti, Italia, Francia, Russia e Brasile hanno collaborato a questa monografia, curata dal Professor Jean-Pierre Isbouts. In accordo con quanto affermato nelle ultime pubblicazioni e nei filmati su Leonardo del Professor Isbouts, la conclusione più importante a cui giunge questo volume è che la “Isleworth Mona Lisa”, conosciuta anche come “Earlier Mona Lisa”, è il ritratto di Lisa del Giocondo realizzato da Leonardo.


I risultati dello studio approfondito di tutte le versioni e delle copie del dipinto della Mona Lisa – condotto da illustri professori provenienti da Università di tutta Europa, sono stati pubblicati nel 2015 e nel 2019 su riviste di alto livello scientifico e concludono che: “La ‘Monna Lisa’ del Louvre e la ‘Earlier Mona Lisa’ devono essere due opere originali, dal momento che sono state realizzate da Leonardo in due momenti diversi”. Il Professor Lorusso aggiunge: “L’umiltà, insieme all’interdisciplinarietà, è molto importante nel processo di attribuzione di un’opera d’arte”.


Una recente indagine ha tracciato gli spostamenti del ritratto dall’Italia a Somerset, in Inghilterra, dove era stato portato da Thomas Marwood, di ritorno dal suo “Gran Tour” negli anni settanta del Settecento, quando risultava già chiaro che era stato realizzato da Leonardo. Da qui si arriva al suo acquisto da parte di Hugo Blaker, curatore e stimato esperto d’arte, che trasferì l’opera nel suo studio a Isleworth, Londra: è in questo momento che il dipinto diventa conosciuto come “Isleworth Mona Lisa”.

Mentre sono stati sollevati interrogativi su chi abbia commissionato la Monna Lisa, la versione del Louvre presenta alcune tecniche specifiche utilizzate da Leonardo che sollevano ulteriori domande a proposito del momento di esecuzione.

Nel complesso, i resoconti di Giorgio Vasari e Agostino Vespucci indicano che Leonardo dipinse il ritratto di Lisa del Giocondo tra il 1503 e il 1506.


Ciononostante, la specifica tecnica a velature usata nella versione del Louvre suggerisce che il quadro sia stato dipinto in un periodo successivo. Leonardo applicò infatti una “velatura sfumata”, tecnica pittorica a olio introdotta dai Primitivi Fiamminghi, che prevede l’utilizzo di strati multipli di pittura leggermente colorata sopra una superficie già dipinta, in modo da ottenere sottili differenze nel colore e nell’ombreggiatura. Tale procedimento aiuta a creare profondità e conferisce all’opera quell’aspetto di realismo nebbioso, tridimensionale e quasi magico. Questa non va confusa con la tipica tecnica pittorica leonardesca dello sfumato, che crea realismo eliminando spigoli e pennellate, sebbene l’uso della velatura sia uno dei segreti fondamentali dietro quell’enigmatico sorriso. La tecnica a velature fu un’evoluzione successiva di Leonardo, indipendente dallo sfumato.

Questo metodo di velatura, in ogni caso, sembra non fosse usato da Leonardo prima del 1508, quando ritornò a Milano. Molti esperti illustri ritengono che questa tecnica caratterizzi lo stile più tardo dell’artista, e collocano cronologicamente l’esecuzione del dipinto del Louvre dopo il 1510.


M.P.F.






domenica 14 luglio 2019

IL REGNO DELLA PUREZZA


Han Yuchen


Il Regno della Purezza

Palazzo Medici Riccardi, a Firenze, fino al 28 luglio 2019, ospita Il regno della purezza. Il Tibet nella pittura di Han Yuchen, la prima personale in Italia dell’artista cinese Han Yuchen, curata da Cristina Acidini, ideata da Xiuzhong Zhang, promossa e organizzata dalla Zhong Art International (catalogo Mandragora).


Nato nel 1954 a Jilin, nella provincia di Jilin, Han Yuchen si è formato all’Accademia Centrale di Belle Arti di Pechino. La mostra di Palazzo Medici Riccardi offre una selezione molto accurata dei suoi quadri, ventiquattro in tutto, che rispecchia solo in parte la sua ampia e varia attività artistica. Poeta oltre che pittore, si inserisce nella linea tradizionale della pittura d’inchiostri su carta e della calligrafia secondo l’uso antico.
Con altrettanta sicurezza, si è impadronito della tecnica più rappresentativa dell’arte occidentale, la pittura ad olio, esercitandosi nel ritrarre i compagni di lavoro nel periodo più tormentato della sua vita. Nonostante il suo talento precoce, circostanze avverse lo hanno tenuto lontano dall’arte, a causa della difficile posizione della famiglia, giudicata “controrivoluzionaria”. Costretto in gioventù a lavorare duramente, Han Yuchen ha avuto successo come imprenditore e questo ha fatto sì che potesse riprendere e dedicarsi con continuità a quella vocazione artistica che maturò fin dalla sua prima visita allo studio del famoso pittore Zhang Wenxin, a Pechino.


Al centro dell’esposizione fiorentina è il Tibet, con i suoi paesaggi mozzafiato, i monasteri spettacolari, le montagne altissime, le antiche città perdute, la sua cultura millenaria e i suoi abitanti. Il Tibet ha sempre esercitato un fascino profondo su Han Yuchen che ne conosce profondamente tutti i luoghi.
Negli ultimi dieci anni, ha attraversato, sia in estate che in inverno, gli altipiani e le vallate ai piedi delle montagne più alte del mondo, vivendo in tende, soggiornando con famiglie tibetane e visitando i pascoli. E questa intima familiarità emerge con forza in questa rassegna. Han Yuchen identifica in questa regione, innevata e mistica, il regno di una “purezza”, risposta nel candore fisico e spirituale. “I tibetani sono gente modesta e tenace” racconta l’artista. “I loro occhi sono pieni di gentilezza…La bellezza del Tibet sta proprio nella sua gente che vive felicemente e in maniera pacifica, ma in maniera intensa e passionale.
La loro felicità mi commuove, per cui attraverso la mia arte cerco di portare altra gioia alle persone”. L’osservazione ravvicinata dei dipinti di Han Yuchen ci rivela una pittura a olio materica, fatta di pennellate piccole, ma corpose e decise, quando costruisce le figure dalle carni sode e dagli abiti spessi mentre per il paesaggio, protagonista al pari degli esseri viventi, nella sua opera, riserva ampie stesure, tenute sottotono con leggerezza. I dipinti sono in stretto rapporto con l’attività di fotografo dell’artista, che col mezzo fotografico seleziona e prepara le sue inquadrature, collegandosi anche alla sua esperienza di calligrafo per il senso armonioso del ritmo compositivo.


Non è un caso che questa mostra si tenga a Firenze, in Toscana, dove il nome stesso del Tibet risveglia gli echi di un interesse appassionato e duraturo che si è espresso e continua a esprimersi nei musei e nelle attività culturali.
Nel Settecento, a Pistoia, il gesuita Ippolito Desideri, considerato il primo tibetologo in Occidente, accolto dal sovrano Lajang Khan durante un pionieristico soggiorno da missionario in Tibet, aprì la strada a numerose successive spedizioni italiane. A Firenze, nella sezione di antropologia ed etnologia del Museo universitario di storia naturale, fondato nel 1869 dall’antropologo Paolo Mantegazza, sono esposti rari oggetti liturgici tibetani mentre nel Gabinetto G.P. Vieusseux esiste un polo straordinario di documentazione fotografica e letteraria sul Tibet, grazie all’archivio di Fosco Maraini, che iniziò nel segno del Tibet la sua attività instancabile di orientalista. Lui stesso raccontò che il suo precoce interesse per i viaggi nacque, oltre che dalla passione infantile per gli atlanti, dalla presenza di un grosso volume sul Tibet nella biblioteca di famiglia.
E sul Tetto del Mondo si recò per due viaggi memorabili, nel 1937 come giovane neolaureato in scienze antropologiche, col ruolo di fotografo al seguito di Giuseppe Tucci, poi nel 1948, redigendo note di viaggio dalle quali trasse nel 1951
Segreto Tibet, un libro destinato a una diffusione planetaria. Contribuì così a far conoscere la civiltà del paese, medievale dal punto di vista della scienza e della tecnologia, ma ricca di raffinata spiritualità e di sensibilità artistica. Degli aspetti visivi, ritrasse forti impressioni chiaroscurali e cromatiche, descritte in prosa poiché non testimoniate in modo adeguato dalle immagini in bianco e nero.

Poi in cielo ci sono nuvole sciolte e veloci che galoppano all’impazzata nel vento di lassù; le loro ombre corrono pei fianchi dei poggi, li carezzano, ne mutano istantaneamente colori e umori; si passa dal giallo vivo all’ocra, al viola, al paonazzo, e dal severo o dall’imbronciato brutto alla festa di luce. Ė una danza continua d’ombre e di schiarite: i monti divergono fluidi come un mare dalle onde giganti.

Fosco Maraini, Segreto Tibet (1951) 

M.P.F.

sabato 13 luglio 2019

Tutti i colori dell'Italia Ebraica


Tutti i colori dell’Italia Ebraica

Tessuti preziosi dal tempo di Gerusalemme al prêt-à-porter






La storia degli ebrei italiani osservata da una prospettiva inedita e cromaticamente caleidoscopica, quella dell’arte del tessuto: è Tutti i colori dell’Italia ebraica, grande mostra aperta fino al 27 ottobre nell’aula magliabechiana della Galleria degli Uffizi di Firenze, a cura di Dora Liscia Bemporad e Olga Melasecchi, catalogo Giunti. Circa 140 opere, tra arazzi, stoffe, addobbi, merletti, abiti, dipinti ed altri oggetti di uso religioso e quotidiano, presentano per la prima volta la storia degli ebrei italiani attraverso una delle arti meno conosciute, ossia la tessitura, che nel mondo ebraico ha sempre rivestito un ruolo fondamentale nell’abbellimento di case, palazzi e luoghi di culto. Ne emerge un ebraismo attento alla tradizione, ma anche gioioso, colorato, ricco di simboli. Si riconosce inoltre il carattere interculturale e internazionale di questo popolo, soprattutto grazie all’eccezionale varietà dei motivi su tessuti, dove il colore spesso predomina in maniera stupefacente.


Si parte dai tempi antichi e si arriva fino alla moda del Novecento e all’imprenditoria tessile moderna, affrontando temi chiave quali il ruolo della scrittura come motivo decorativo, l’uso dei tessuti nelle sinagoghe, il ricamo come lavoro segreto, il ruolo della donna. Protagoniste già nella Bibbia, anche nei secoli recenti le stoffe hanno la capacità di esprimere l’anima del popolo ebraico attraverso i capolavori assoluti, spesso provenienti dal vicino e dal più lontano Oriente con cui gli ebrei italiani entravano in contatto per legami familiari e per commerci: si veda la spettacolare tenda (la parokhet), di manifattura ottomana del primo quarto del XVI secolo, prestato dal Museo della Padova Ebraica.


Le diverse comunità ebraiche italiane, in osmosi con la società circostante con cui si confrontavano, finivano per acquisire linguaggi ed espressioni artistiche locali: nelle opere tessili provenienti da Livorno, Pisa, Genova e Venezia, ad esempio, è manifesta l’influenza del vicino Oriente, molto diversa da quanto vediamo in quelle romane, fiorentine o torinesi, che si confrontavano con il gusto dei poteri dominanti in Italia.


Nel percorso della mostra è possibile ammirare alcuni pezzi rarissimi, provenienti da musei e collezioni straniere, che conducono idealmente il visitatore attraverso le feste ebraiche: tra questi i frammenti ricamati provenienti dal Museum of Fine Arts di Cleveland, le due tende dal Jewish Museum di New York e dal Victoria and Albert Museum di Londra che insieme a quella di Firenze formano un trittico di arredi (per la prima volta riuniti insieme) simili per tecnica e simbologia.



Straordinario e unico è un cofanetto a niello della fine del Quattrocento proveniente dall’Israel Museum di Gerusalemme che, come una specie di computer ante litteram ad uso della padrona di casa, tiene il conto della biancheria che via via era consumata dai componenti della famiglia.


Dagli abiti – in particolare quelli femminili – spesso si ricavavano le stoffe preziose per confezionare paramenti e arredi sinagogali, dove talvolta è possibile individuare le linee delle vesti e il loro uso originario. Nel Ritratto del conte Giovanni Battista Vailetti di Fra Galgano, del 1720 (un prestito delle Gallerie dell’Accademia di Venezia) il personaggio indossa una splendida marsina in prezioso broccato e nell’Allegoria dei cinque sensi di Sebastiano Ceccarini (1745), ad esempio, la veste della bambina è dello stesso tessuto della mappà Ambron realizzata a Roma nel 1791-92.


Splendidi ricami, alcuni con ’stemmi parlanti’ (gli ebrei non potevano ricevere un titolo nobiliare) entro fastose cornici barocche. Vere e proprie “pitture ad ago” che brillavano alle luci mobili delle candele e delle torce, in un trionfo di sete colorate, di fili d’oro e d’argento, sono opera delle abili mani delle donne che, pur rinchiuse tra le mura domestiche, esprimono una stupefacente inventiva e ampiezza di conoscenze.


Tra i tessuti più antichi in mostra, databili al Quattrocento, sono una tenda per l’armadio sacro proveniente dal Museo Ebraico di Roma, un’altra proveniente dalla Sinagoga di Pisa e un telo del ‘Parato della Badia Fiorentina’ che in origine ricopriva per le feste solenni tutte le pareti della chiesa. Sono tutti eseguiti in un velluto cesellato e tramato di fili d’oro nel motivo della ‘griccia’ – una melagrana su stelo ondulato – che è forse il disegno tessile più tipico del Rinascimento in Toscana.

Una scoperta sorprendente è l’Aron Ha Qodesh, un armadio sacro proveniente dalla più antica
sinagoga di Pisa. Le decorazioni dipinte e le dorature del mobile, ora riscoperto come originale del XVI secolo, sono riemerse sotto le innumerevoli mani di tinta bianca che l’avevano deturpato.

Le sezioni tematiche della mostra giungono ai giorni nostri, passando attraverso il collezionismo tessile dell’Ottocento, di cui fu massimo esponente Giulio Franchetti, che ha donato la sua raccolta al Museo del Bargello, ma anche l’imprenditoria – in particolare di quella pratese con la famiglia Forti-Bemporad – e la creatività di alcune famose stiliste.

L’esposizione termina con un capolavoro assoluto, il merletto Oceanic. Ė un collage di pezzi antichi e moderni che riproduceva incredibile forza espressionista.


La presidente della Fondazione per il Museo Ebraico di Roma Alessandra Di Castro, commenta: “La produzione ebraica dei tessuti, come anche gli argenti e di altre tipologie di arti decorative, è intimamente legata alla storia dell’arte italiana in una dimensione più generale; ha risentito nei secoli dei cambiamenti di gusto della civiltà artistica italiana e a sua volta li ha determinati, influenzati. E per questa ragione la mostra riguarda tutti e accende le luci della ribalta su un patrimonio comune – incredibile per qualità – che va valorizzato, promosso, tutelato e soprattutto raccontato perché lo si conosca in tutta la sua ricchezza”.



M.P.F




mercoledì 3 luglio 2019

DEPERO


Fortunato Depero




Con Fortunato Depero. Dal sogno futurista al segno pubblicitario si è riaperto il Lu.C.C.A (Lucca center of contemporanei art). La mostra curata da Maurizio Scudiero e Maurizio Vanni in collaborazione con l’Archivio Depero, è visibile fino al 25 agosto e comprende ottanta opere dell’artista, che documentano la sua pittura futurista, ma anche i suoi cartelloni pubblicitari. E le sue illustrazioni.


Bei tempi per la pubblicità, quando a crearla era un artista come Fortunato Depero ! Il pittore roverentano (1892-1960) è stato un protagonista del Futurismo – nel 1915 firma con Giacomo Balla il manifesto Ricostruzione futurista dell’universo – ma è stato anche uno straordinario creatore di immagini per réclam, come allora si diceva: dal cartellone per il liquore Strega, su cui è appollaiata una cicogna geometrica,
a quello per il Campari, bevuto da un simpatico automa
. Nel suo manifesto dichiarava che voleva “ricostruire l’universo rallegrandolo” e proprio in una cadenza giocosa, ilare, si racchiude tutta la sua poetica.
Nei dipinti, come nelle costruzioni di legno colorato, Depero ha messo in scena una sorta di opera buffa dove il mondo si trasforma in un palcoscenico con bambole, balocchi, figure che hanno la fisonomia di una famiglia di Pinocchi. Il suo è un Futurismo diverso da quello drammatico di Umberto Boccioni e vicino invece al Bauhaus e al Déco.

Nel 1919, tra l’altro fonda a Rovereto la Casa d’arte futurista Depero: un laboratorio, anzi un “antro del mago”, dove produce arazzi, scialli, mobili, soprammobili, giocattoli, oggetti di ogni genere. E anche i manifesti pubblicitari rientrano in questa produzione: un teatro di pupazzi, allegri e coloratissimi.


M.P.F

lunedì 1 luglio 2019

EX AFRICA


Ex Africa. Storie e identità di un’arte universale




Per capire la mostra ex Africa. Storie e identità di un’arte universale, organizzata da CSM Cultura e allestita al Museo civico archeologico di Bologna fino all’8 settembre, un buon punto di partenza è la biografia dei curatori: Ezio Bassani e Gigi Pezzoli, che in momenti e con ruoli diversi hanno dedicato la vita a spiegare le valenze propriamente estetiche dell’arte africana.


A dire il vero, questa diversità di ruoli è dovuta soprattutto a questioni anagrafiche, perché mentre Bassani, che è morto lo scorso agosto all’età di novantaquattro anni durante la preparazione del progetto espositivo (e per questo la mostra è dedicata a lui come omaggio alla memoria), ha cominciato a identificare i maestri e a lavorare sulla gerarchia delle opere già negli anni Settata partendo dalle ricerche sul collezionismo e diventando in breve tempo uno dei più importanti punti di riferimento a livello internazionale, Pezzoli, che è di una generazione successiva, ha cominciato ad affrontare queste tematiche un po’ più tardi, partendo dall’archeologia africana e dall’etnostoria.


All’inizio, non è stato facile vincere i pregiudizi e la pigrizia mentale di generazioni di specialisti e conservatori di musei, che erano abituati a collocare tutto nell’ambito dell’etnografia e che, peraltro, non si rendevano conto che le analisi estetiche non cancellavano i dati propriamente etnografici, ma, anzi, li arricchivano.


La mostra di Bologna cerca di andare oltre le esposizioni generaliste, apprendo nuovi percorsi di analisi e approfondendo, in particolare, due temi che sono un po’ il cuore delle nuove ricerche sull’arte africana: il suo spessore storico e la tematica delle attribuzioni.


La mostra mira a cancellare definitivamente lo stereotipo di un’arte “senza tempo”, che fino a qualche decennio fa negava la storicità delle arti africane. Infatti, solo attorno alla metà del XX secolo gli specialisti si sono posti il problema della datazione delle opere, fino ad allora considerate relativamente recenti per effetto di acritiche estrapolazioni, che pure partivano da un dato reale: il fatto che il legno, il materiale principe dell’arte africana, in certe condizioni può degradarsi rapidamente.
Questo nuovo interesse sull’antichità delle opere e, soprattutto, l’utilizzo di nuove metodiche scientifiche (il carbonio 14 per i reperti organici e la termoluminescenza per le terrecotte) hanno portato a scoprire che diverse tipologie e molti reperti sono vecchi di secoli, confermando così quanto riferivano le stesse popolazioni africane, che li facevano risalire a “tempi memorabili”.


Nell’esposizione, in particolare, e per la prima volta in Italia, viene proposta un’ampia sezione dedicata all’arte medievale della regione del delta interno del Niger e delle falesie di Bandiagara, che consente di ammirare diversi capolavori che sono espressione di una vicenda storica e artistica che va da X al XIX secolo.


Per quanta riguarda, poi, la tematica delle attribuzioni <<la mostra>> vuole spiegare, grazie ai curatori,


  in modo efficace e definitivo che l’idea di un’arte “anonima”, frutto di un generico sapere collettivo  è profondamente sbagliata ed è il risultato di un pregiudizio, che troppo a lungo ha condizionato il corretto apprezzamento dell’arte africana e, paradossalmente, ha per molto impedito che si conoscessero i protagonisti della scena: gli artisti.


Eppure, per l’Africa è stato così e l’identificazione delle “mani dei maestri” è stata una conquista recente, resa ardua dall’assenza di scrittura e anche da persistenti residui di razzismo intellettuale. Occorre ammettere, peraltro, che le indagini nel campo delle attribuzioni sono solo agli inizi e i risultati, pur promettenti, appaiono per ora solo agli inizi e i risultati, pur promettenti, appaiono per ora limitati, se comparati a quelli ottenuti nell’ambito dell’arte occidentale.


Nella mostra, in ogni caso, si possono ammirare capolavori di alcuni maestri importanti.


Uno degli oggetti più celebri è il piccolo poggiatesta Luba Shankadi del Maestro delle capigliature a cascata, un artista identificato negli anni Sessanta da William Fagg e Margaret Plass. Quest’opera che fu raccolta nel 1901 nell’attuale Repubblica Democratica del Congo, si differenzia dagli altri reperti attribuiti all’artista (una decina), perché in questo caso il maestro è riuscito a dare alla figura femminile una magnifica acconciatura e un dinamismo latente, che nasce dal contrasto tra la posizione delle braccia e la rigorosa postura frontale. Oltre al Maestro delle capigliature a cascata, a Bologna sono presenti altri cinque artisti.


Tra questi e le loro opere è difficile fare delle graduatorie, ma si può segnalare per la sua storia antica e documentata una figura femminile Bari del Maestro di Bilinian, raccolta da Giovanni Miani a Gondokoro nel 1960. La scultura che fu una delle prime opere d’arte di quella zona del Sudan ad arrivare in un museo europeo, era un oggetto molto importante e sacro, che apparteneva agli eredi del re Lokono, un famoso “invocatore della Pioggia”. Accanto alle realizzazioni dei maestri si devono, però, segnalare altre opere che finora non è stato possibile attribuire, ma che sono capolavori straordinari. Si tratta delle sculture e dei bassorilievi, prevalentemente in bronzo, della città Stato di Ife (XII-XV secolo).


Molti di questi reperti, che erano esposti o decoravano il palazzo del re del Benin, furono razziati dagli inglesi durante la famosa spedizione punitiva del 1897 e successivamente venduti per coprire le spese di questa impresa una delle pagine più imbarazzanti del non esaltante colonialismo europeo.

Significativamente, queste opere riuscirono a superare i pregiudizi etnocentrici degli stessi colonialisti, che non esitarono a parlare di creazione di un “Fidia dell’equatore”.