sabato 13 ottobre 2018

Hokusai Hiroshige


Hokusai
Hiroshige
Oltre l’onda


Il Museo Civico Archeologico di Bologna fino al 3 marzo 2019, ospita le opere dei due più grandi Maestri del “Mondo Fluttuante”: Katsushika Hokusai (1760 – 1849) e Utagawa Hiroshige (1797 – 1859).
La mostra Hokusai Hiroshige. Oltre l’onda. Capolavori dal Boston Museum of Fine Arts esposte, per la prima volta in Italia sono una selezione straordinaria di circa 150 opere provenienti dal Museum of Fine Arts di Boston. Il progetto, suddiviso in 6 sezioni tematiche, curato da Rossella Meneguzzo con Sarah E. Thompson, è una produzione MondoMostre Skira con Ales S.p.A Lavoro e Servizi in collaborazione con il Museum of Arts di Boston, promosso dal Comune di Bologna, Istituzioni Bologna Musei e patrocinato dall’Agenzia per gli affari Culturali del Giappone, dall’Ambasciata del Giappone in Italia e dall’Università degli Studi di Milano.
Gli anni trenta dell’Ottocento segnarono l’apice della produzione ukiyoe nota come “immagini del Mondo Fluttuante”. In quel periodo furono realizzate le serie silografiche più importanti a firma dei maestri che si confermarono – qualche decennio più tardi con l’apertura del Paese – come i più grandi nomi dell’arte giapponese in Occidente.

Tra questi spiccò da subito Hokusai, artista e personalità fuori dalle righe che seppe rappresentare con forza, drammaticità e sinteticità insieme i luoghi e volti, oltre che il carattere e le credenze della società del suo tempo. Egli è considerato uno dei più raffinati rappresentanti del filone pittorico dell’ukiyoe. Nei suoi dipinti su rotolo, ma soprattutto attraverso le sue silografie policrome, l’artista seppe interpretare in modo nuovo il mondo in cui viveva, con linee libere e veloci, un uso sapiente del colore e in particolare del blu di Prussia, da poco importato in Giappone, traendo spunto sia dalla pittura tradizionale autoctona sia dalle tecniche dell’arte occidentale.


I soggetti delle sue stampe coprono ogni ambito dello scibile: dalle bellezze paesaggistiche e naturalistiche dell’arcipelago, compresi piante e animali o leggendari, fino alla rappresentazione di personaggi famosi e luoghi della tradizione letteraria e poetica, oltre al ritratto di seducenti cortigiane dei quartieri di piacere, di famosi attori di Kabuki fino alle visioni di mostri e spettri raffigurati in maniera grottesca o comica.
Tra le serie di maggior successo degli anni trenta vanno ricordate senz’altro quelle dedicate alle cascate e ai ponti famosi del Giappone, anche se fu con Trentasei vedute del monte Fuji che Hokusai si affermò sul mercato delle immagini di paesaggio come grande maestro. Da allora in avanti nessun artista del Mondo Fluttuante poté esimersi dal far riferimento alla sua opera e, in particolare, a una stampa appartenente a questa serie divenuta icona dell’arte giapponese: La grande onda presso le coste di Kanagawa.

L’ammirazione verso la Grande onda, è dovuta a questa silografia che mostra il talento assoluto di Hokusa nella composizione grafica. Il monte Fuji appare piccolo e in lontananza quasi inghiottito dall’immensa onda in primo piano che si alza sfaldandosi in bianca schiuma a unghia di drago, dentro la quale alcune barche di pescatori sono in balia dei flutti. Si tratta di una raffigurazione della natura dalla forza violenta in rapporto all’uomo, ma anche sacra. Un’immagine di grande impatto universale.

Più giovane di circa vent’anni rispetto a Hokusai, Hiroshige divenne un nome celebre della pittura ukiyoe poco dopo l’uscita delle Trentasei vedute del monte Fuji del maestro grazie a una serie, nello stesso formato orizzontale, che illustrava la grande via che collega Edo (l’antico nome di Tokyo) a Kyoto. Si trattava delle Cinquantatrè stazioni di posta del TöKaidö, conosciute come “Höeidö Tökadö” dal nome dell’editore che lanciò verso il successo Hiroshige. Da allora l’artista lavorò ripetutamente su questo stesso soggetto, producendo decine di serie diverse fino agli anni cinquanta. La qualità delle illustrazioni di paesaggio e vedute del Giappone, la varietà degli elementi stagionali e atmosferici – nevi, piogge, nebbie, chiarori di luna – che Hiroshige seppe descrivere facendoli percepire in modo quasi sensoriale gli valse il titolo di “maestro della pioggia e della neve”.

La sua dedizione instancabile al lavoro, che fruttò centinaia di dipinti su rotolo oltre che silografie policrome, lo portò a sperimentare in questo campo diversi formati di foglio fino ad approdare a quello verticale, che sfruttò al massimo delle potenzialità grafiche, a partire dagli anni cinquanta. All’asimmetria della composizione, in un equilibrio di pieni e vuoti che si controbilanciano nello spazio mai mostrato per intero, come una sorta di close-up fotografico, lasciando tutti gli altri elementi del paesaggio sullo sfondo e in dimensioni molto ridotte. Puri espedienti per un gioco grafico, ottico, quasi illusionistico che sfrutta tutte le tecniche pre-fotografiche legate ai visori ottici, all’effetto di prospettiva aumentata grazie a lenti di ogni tipo e dispositivi come la lanterna magica importati dall’Occidente e utilizzati in gran quantità dai maestri dell’epoca.



Questa novità stilistica è ben visibile nella serie dedicata alle Trentasei vedute del Fuji, in cui Hiroshige a distanza di un ventennio della serie di Hikusai, cerca nuovi espedienti per imporsi sul mercato con un soggetto classico e segnato dalla fama del maestro. Lo fa appunto sfruttando il formato verticale e citando, in qualche modo, la Grande onda di Hokusai nella veduta Il mare di Satta nella provincia di Suruga (1858) e ancora nella veduta di Awa. I gorghi di Naruto, parte della serie illustrazioni di luoghi celebri delle sessanta e oltre province del 1855. Ma l’espressione massima delle novità grafiche introdotte da Hiroshige la possiamo trovare nel suo capolavoro finale, interrotto dalla morte nel 1858. Cento vedute di luoghi celebri di Edo, che chiude anche il percorso della mostra.


L’apertura del Giappone all’Occidente segnò, oltre che un movimento di professionisti e imprenditori in entrata, un’uscita enorme di prodotti, tra cui le fotografie ovviamente, ma soprattutto le stampe ukiyoe. Le pubblicazioni parigine come Le Japon Artistique, che in più uscite scelsero per la copertina silografie di Hiroshige e altri artisti ukiyoe, ma anche le tantissime lettere di Van Gogh al fratello Theo dove parla della sua ammirazione profonda e dell’influenza che la semplicità della natura giapponese stava avendo nella sua arte, della necessità di collezionare stampe ukiyoe e la volontà di farne una mostra, e ancora gli sfondi di alcuni dipinti come il ritratto di Pére Tanguy sempre di Van Gogh, che riporta come sfondo un collage di stampe perlopiù di Hiroshige, ma anche di Hokusai ed Eisen, sono tutte testimonianze dell’onda giapponese che travolse il mondo artistico europeo nella seconda metà dell’Ottocento, dando vita al fenomeno Japonisme.



Maria Paola Forlani


giovedì 11 ottobre 2018

BACCO E ARIANNA


Bacco e Arianna

Di Guido Reni
Singolari vicende
E nuove proposte


Grazie alla mostra “Bacco e Arianna di Guido Reni. Singolari vicende e nuove proposte” curata da Andrea Emiliani e in esposizione presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna fino al 15 novembre 2018 (Catalogo NFC edizioni), l’affascinante e complicata storia del famoso dipinto perduto “Bacco e Arianna” di Guido Reni (1575 – 1642), uno degli artisti più importanti nel panorama europeo del Seicento, si arricchisce con nuovi tasselli, intriganti particolari e interessanti prospettive di confronto.

Infatti, dopo ben quattro secoli dall’esecuzione, torna per la prima volta in Italia, in quest’occasione, il dipinto Bacco e Arianna nell’isola di Nasso, dalla collezione privata dell’Uruguay, che Andrea Emiliani, uno tra i maggiori studiosi di Guido Reni, dopo anni di ricerche ha attribuito a Giovanni Battista Bolognini (1611 – 1688), miglior allievo e collaboratore degli ultimi anni di attività del Reni. Questo quadro, pressochè coevo alla versione commissionata da Papa Urbano VIII per Enrichetta Maria di Borbone, dovette essere realizzato tra il 1640 – 1642 circa nella bottega del Reni.

Così afferma Andrea Emiliani nel catalogo della mostra “il Bolognini diviene la spalla destra per il lavoro tardo di Guido, e porta la sua collaborazione fino all’esecuzione di una replica – che deve così considerarsi di bottega – della grandissima tela di Bacco e Arianna a Nasso. Sulla base delle numerose testimonianze superstiti, sia pittoriche che grafiche ed incisorie, si può identificare in questo dipinto una copia dall’Arianna a Nasso di Guido Reni. Celebrato dalle fonti, ma sfortunato: esso è giunto vicino alla sua possibile distruzione. La recente tela è copia forse ordinata al Bolognini dallo stesso Reni vecchio”.

L’articolata storia delle Nozze di Bacco e Arianna eseguite da Guido Reni per la Corona d’Inghilterra è ben nota per gli studiosi di storia dell’arte.
La complessa vicenda ha inizio nel 1637, con la commissione di Papa Urbano VIII e del cardinale nipote Francesco Barberini a Guido Reni delle Nozze di Bacco e Arianna, ambiziosa opera di imponenti dimensioni, da recapitare alla cattolica Enrichetta Maria di Borbone, moglie del Re d’Inghilterra Carlo I Stuar.
La composizione doveva ritrarre il mito antico delle vicende che, perduto Teseo sulla spiaggia deserta di Nasso, assiste al sopraggiungere di Bacco, introdotto da Venere e accompagnato dal consueto corteo. L’opera destinata a onorare il soffitto della camera da letto della Regina, era un omaggio nunziale per riallacciare i rapporti diplomatici in vista di riguadagnare terreno per la causa cattolica nell’Inghilterra anglicana, volendo rappresentare una sorta di allegoria di una ritrovata comunione religiosa tra l’Inghilterra e la Chiesa Cattolica di Roma.

Dopo un lento avio causato da criticità stilistiche e iconografiche, il maestro Reni riesce a terminare l’opera nel 1640, inviandola a Roma. La partenza del dipinto da parte del Papa alla Regina tarda, però, ad arrivare perché ostacolata dai drammatici sviluppi della rivoluzione puritana e della crisi del papato Barberini.
La regina Enrichetta è costretta a scappare in Francia, sua terra natale, a causa dei disordini della guerra civile inglese, ma alla corte francese riesce a ricevere finalmente il dono papale. Il dipinto, però, nel 1650 viene venduto, per far fronte alle diverse spese economiche del regno, a Michel Particelli d’Hemery, il quale, secondo la romanzata biografia di Guido Reni contenuta nella Felsina pittrice (1678) di Carlo Cesare Malvasia, lo smembra per agevolare l’immissione nel mercato collezionistico. Da qui risale il frammento della ritrovata Arianna della Fondazione Mahon e in deposito dal 2003 alla Pinacoteca Nazionale di Bologna.

Data la grande notorietà che la rappresentazione di Bacco e Arianna aveva all’epoca, il papato e l’alta nobiltà scelgono di commissionare sempre al Reni dei prototipi del noto dipinto, su scala sia ridotta sia reale. Da qui, infatti, provengono la prestigiosa replica riferita a Guido Reni, Antonio Giarola e Giovanni Andrea Sirani dell’Accademia di San Luca di Roma eseguita per il cardinale Giulio Sacchetti, così come la copia delle Gallerie Barberini e Corsini a Roma, esposte nella suddetta mostra.

Ed è qui che si colloca anche il dipinto attribuito al Bolognini: il grande impiego del prezioso blu di lapislazzuli, a definire la dominante cromatica del dipinto del Bolognini come in quello del Reni, ribadisce che l’artista abbia probabilmente lavorato sotto l’accurata guida del maestro, assecondandone le direttive. Ricostruire la storia e risalire ai vari personaggi di proprietà di questo dipinto non è stata un’impresa facile per gli studiosi: il dipinto fu, infatti, commissionato a Guido Reni tra il 1640-1642 e, successivamente, grazie alla presenza di un sigillo pontificio apposto sulla sua struttura lignea, è giunto al Papato, dal quale fu poi spedito in Inghilterra a Lord Bertram Ashburnham, che scelse a sua volta di venderlo nel 1850, sempre presso Christie’s. Dall’Inghilterra il dipinto arriva in Sud America a Rio de Janeiro, per poi passare per l’Argentina (Buenos Aires) facendo parte di una delle più prestigiose collezione d’arte private del paese, per passare infine in Uruguay, nella collezione privata Montevideo. Quest’ultimo prezioso dipinto inaugura la nuova pagina nella travagliata storia del dipinto perduto del maestro Guido Reni, restituendo allo sguardo l’identità formale della grande “macchina” decorativa che furono le Nozze di Bacco e Arianna.

Come afferma infatti Andrea Emiliani “questa nuova acquisizione, di carattere privato, non potrà che giovare al riconoscimento della incantevole bellezza” del frammento del dipinto originale di Guido Reni, conservato alla Pinacoteca di Bologna.
Negli ultimi due anni, fra il 1640 ed il 1642, è notizia che Guido arresti quasi del tutto la sua attività: o meglio, la limiti ad una progettualità continua, un abbozzo e un’incompiutezza dove ormai si misura la temperatura del primo romanticismo, delle sue contraddizioni tra universale e individuale. Nata mezzo secolo prima come contaminazione fra mondo cattolico e memoria dell’antico, nella quale stringere le crudezze del presente, l’espressione poetica dell’artista sembra alla fine ribaltarsi in una rappresentazione così personale da essere quasi solitaria nell’Europa di metà Seicento e fra i suoi grandi miti decorativi e ornamentali.
Guido tornerà come profumo, un’anima – piuttosto che un corpo – in tanta parte del sentimento stilistico del Settecento. La sua sarà ricordata come una sensibilità mozartiana da Stendhal. Così, dalla radiosa apparizione dell’eterno mito della bellezza metafisica fra le rovine dell’esistenza, egli toccherà anche le corde della disillusione e della tragedia sentimentale.


Maria Paola Forlani



lunedì 8 ottobre 2018

OSVALDO LICINI


Osvaldo Licini

Che un vento di follia mi sollevi


Chi cerca suole mai trovar certezza / Io cerco spesso senza mai trovarla
Una certezza dove poter gettare / tutte le forze d’una mia lontana / miracolosa vita forse sognata
Forse trascorsa un poco troppo / col cuore nella mano / col cuore e col pensiero nella mano
Un poco troppo bella dell’anima / ch’io cerco ancora / senza mai stancarmi / troppo sperando d’incontrarla un giorno
Osvaldo Licini


Alla XXIX Biennale di Venezia del 1958 l’artista marchigiano Osvaldo Licini (1894 – 1958) fu insignito del Gran Premio per la pittura, un dovuto omaggio a una delle personalità più originali del panorama artistico italiano della prima metà del XX secolo. A 60 anni da quel prestigioso riconoscimento e dalla sua scomparsa, il museo Peggy Guggenheim di Venezia ricorda il grande maestro con una retrospettiva a cura di Luca Massimo Barbero.

Undici sale espositive, oltre cento opere, ripercorrono il dirompente quanto tormentato percorso artistico di Licini, la cui carriera fu caratterizzata da momenti di crisi e cambiamenti stilistici apparentemente repentini. La mostra Osvaldo Licini. Che un vento di follia totale mi sollevi intende mostrare la sostanziale coerenza di tale percorso: quelle che all’apparenza sembrano delle cesure si rivelano infatti tappe di un’esperienza singolare che risalta all’interno della storia dell’arte del Novecento per risultati di assoluto lirismo e poeticità.

La sera del 20 marzo 1914 Osvaldo Licini inaugurò a Bologna, insieme agli amici e compagni di Accademia Mario Bacchelli (fratello dello scrittore Riccardo), Giorgio Morandi, Severo Pozzati (che assumerà il nome d’arte Sepo) e Giacomo Vespignani, una mostra in una sala del centrale Hotel Baglioni, entrata nelle cronache come un momento “cruciale” della vita artistica cittadina. Per primo ne riconobbe l’interesse Carlo Ludovico Ragghianti, che nel saggio Bologna cruciale 1914 del 1969, proprio a partire dall’esposizione, ricostruiva l’ambiente bolognese degli anni dieci leggendolo come un importante snodo geografico e cronologico.
Al Futurismo, e in modo particolare alla figura di Marinetti, i giovani guardavano come a un’inevitabile scelta di contemporaneità, in un’adesione ideale che solo parzialmente influì sulla loro ricerca artistica. Il termine secessione è forse quello più corretto per definire questo momento, nella sua ampia accezione, per comprendere un comune fermento di dissenso, che coinvolge all’epoca diversi gruppi di artisti, suscitando in alcuni l’auspicio di un possibile coordinamento in un “movimento giovanile” capace di svecchiare l’ambiente culturale italiano. Una delle rare testimonianze pittoriche ascrivibili a Licini a questo primo periodo e delle poche opere identificabili come esposte all’Hotel Baglioni è l’Autoritratto del 1913, che l’artista donerà all’amico Morandi.

Dal 1921 Licini soggiorna per lunghi periodi a Parigi, dove frequenta il vivace ambiente artistico e letterario di Montparnasse e conosce, tra gli altri Picasso, Jean Cocteau, Blaise Cendrars, Moïse Kisling, avviando una vivace attività espositiva, anche grazie all’incoraggiamento del pittore Mario Tozzi, suo compagno negli anni d’accademia.

Abbandona la sintesi quasi meccanica degli Episodi di guerra l’artista declina il “richiamo alla figura” che caratterizza il diffuso clima di “rappel à l’ordre” in termini personali. La conoscenza di Amedeo Modigliani e della sua opera, rievocata da Licini in un ricordo scritto nel 1934, gli fa scoprire un modo di dipingere che sente vicino alla propria ricerca.

Licini è fortemente critico verso l’ondata classica che investe l’Europa negli anni tra le due guerre. I personaggi semplicemente abbozzati che popolano i suoi paesaggi e la figura del capro rispecchiano pienamente la sua personale visione del mondo: non antropocentrica, ma intessuta di un profondo dialogo tra uomo, animali, natura e cosmo e da un’idea di metamorfosi che porta con sé un dinamismo di instabilità, di mutevolezza lontana dalla solida immobilità delle figure e dei paesaggi apprezzati dalla critica ufficiale.


La mostra veneziana si apre con tele giovanili, quei paesaggi marchigiani da cui Licini non si staccò mai, soprattutto pittoricamente, tanto da farne il soggetto della sua prima fase figurativa degli anni ’20, a cui appartengono opere come Paesaggio con l’uomo (Montefalcone), del 1926 e Paesaggio marchigiano (il trologo), del 1928. E sono queste stesse vedute a fare da sfondo anche alla successiva transizione dal realismo all’astrattismo dei primi anni’30, come si può già notare in Paesaggio Fantastico (Il Capro) del 1927. Si prosegue poi con la fase non figurativa degli

 anni ’30, anni dell’inevitabile coinvolgimento dell’artista nelle attività della Galleria “Il Milione”. Il linguaggio astratto di Licini è atipico, attento alla geometria, una geometria intrisa di lirismo, evidente in opere come Castello in aria, del 1933-36, o Obelisco, del 1932. Ė proprio in “bilico”, titolo e soggetto di varie opere di Licini degli anni ’30, tra due poli di astrazione e figurazione che si giocano la sua carriera e i grandi capolavori della maturità dedicati ai temi dell’Olandese volante, dell’Amalassunta e dell’Angelo ribelle, tutti soggetti presenti nella mostra dellla Peggy Guggenheim.

Gli anni trenta sono un momento significativo nella maturazione del linguaggio liciniano verso un graduale superamento dell’elementarità geometrica del periodo astratto. L’incontro nel 1938 con il filosofo e storico delle religioni Franco Ciliberti lo spinge ad approfondire il tema del “primordiale” e la dimensione simbolica e spirituale della sua pittura. In questo periodo nascono le <<scritture enigmatiche>> che dalla fine del decennio iniziano a comparire con sempre maggior frequenza nella sua pittura, secondo un’interpretazione pitagorica, riproposta negli scritti del filosofo. In mostra, tra le prime opere con numeri e lettere si annovera Bocca (1934), ancora, Capriccio n.2 e Memorie d’oltre tomba, segue Portafortuna – Merda (1932-1941).

Le opere più iconiche di Licini, presentate in gruppo alla Biennale di Venezia del 1950, sono tuttavia quelle dedicate al soggetto di Amalassunta. L’ampia selezione di quadri di Amalassunta offerta lungo il percorso espositivo propone le molteplici sfaccettature della personalità di Licini, dal lato degli anni ’40 in poi convergono tematiche, stilemi e il mai risolto rovello della pittura, che fanno emergere Licini come grande protagonista del modernismo italiano e internazionale, confermato dal premio conferitogli pochi mesi prima della morte alla Biennale di Venezia del 1958.



Maria Paola Forlani

domenica 7 ottobre 2018

? War is over


? War is over.

Arte e conflitti
Tra mito e contemporaneità


Il Mar di Ravenna presenta fino al 13 gennaio 2019 la mostra ‘War is over. Arte e conflitti tra mito e contemporaneità, a cura di Angela Tecce e Maurizio Tarantino (catalogo SAGEP). Il percorso raduna una sessantina di artisti e percorre i secoli: si va infatti dal monumento funebre cinquecentesco di Guidarello Guidarelli e di Rubens fino a protagonisti del Novecento come Picasso, Marinetti e De Chirico giungendo, attraverso l’informale, la Pop art di Robert Rauschemberg e Andy Warhol e i concettuali, fino ad oggi.


Ė una mostra un po’ diversa dalle tante che, nel centenario del 1918, hanno riflettuto sulla guerra. Anche qui il tema è il conflitto, che purtroppo sembra inevitabile. Non a caso troviamo come ideale incipit della rassegna due frasi eloquenti: una di Eraclito: “La guerra è padre di tutte le cose, di tutte è re”, l’altra di Primo Leni: “Guerra sempre”. E a queste se ne potrebbero aggiungere una terza di Epedocle, che considerava il conflitto un elemento della natura, come l’acqua, il fuoco, l’aria.
Ineliminabile, dunque. Tuttavia attraverso l’arte, che è sempre dialogo e non violenza, la mostra esplora non solo i miti guerrieri, i temi delle armi, delle frontiere, dei vinti, ma anche le speranze di pace. Si inizia col Guidarello (1525) che, oltre il lutto, sembra esprimere con la sua grazia gli “amorosi sensi” che, foscolianamente, ci legano a chi non c’è più. Si continua con Ettore e Andromaca di De Chirico: due manichini che, evocando l’Iliade, si abbracciano prima della battaglia. De Chirico però elimina la figura del figlioletto Astianatte, perché i manichini non possono generare nuove vite.
Picasso con l’opera in mostra, Jeux des pages, 1951, torna a una riflessione sui disastri della guerra iniziata nel 1937 con Guernica e che si concluderà con le due grandi composizioni del 1952 intitolate La Guerre e La Paix. Tra queste due si situa cronologicamente Jeux de pages, scena di ambientazione medievale in cui, in presenza di un frate, due paggi attendono l’uomo d’arme in sella al cavallo, protetto da armatura e scudo. Eseguito il 24 febbraio del’51, il dipinto appare come variazione sul tema dell’incisione di Albrecht Dürer Il cavaliere, la morte e il diavolo e si inserisce nella serie dedicata a paggi e cavalieri che l’artista realizza nei primi mesi dell’anno. In un’ambientazione architettonica a tratti cubista si assemblano figuratività diverse, dal parodistico realismo con cui traccia i volti delle due figure a destra, al disegno abbozzato e fanciullesco del paggio a sinistra; a questi fa da contrappunto il volto del cavaliere, che l’artista riduce, con spirito surrealista, a profili di ferro cesellato e borchiato. Il tono ludico evocato dal titolo e dalle decorazioni arabesche è tuttavia smorzato da una predominanza di colori scuri, che trova il culmine nella maschera del cavaliere, quasi presagio di morte che sottende all’attività militare cui allude il dipinto.


E ancora le lacerazioni di Burri o le esplosioni luminose di Punta Campanella di Shozo Shimamoto. Segue l’emozionante Weltanschauung, 2007, di
Emilio Isgrò: un mosaico di cartine geografiche cancellate che, accostate l’una all’altra, esprimono un senso di convivenza difficile. Ma anche di inaspettata speranza. Un nucleo di grande suggestione della mostra è costituito dal “corpo a corpo”, attraverso i secoli, di immagini guerresche: il vaso con scene di battaglia tra greci e troiani e il frammento marmoreo con un legionario, l’Alabardiere di Rubens, fino al guerriero postmoderno per eccellenza, il maestro Joda di Guerre Stellari.

I tre grandi temi che hanno ispirato la scelta degli artisti si intersecano ad ogni piano per rendere più fitta la trama della mostra: ai teatri di guerra fanno riferimento, tra gli altri, Christo, William Kentridge, Jake & Dinos Chapman, col loro minuzioso catalogo degli orrori, Gilbert & George, reporter dei conflitti urbani, Michal Rovner, con la sua indagine sul rapporto tra individuo e moltitudine, Alfredo Jaar e Robert Capa.


I vecchi e nuovi miti aleggiano nell’opera di Robert Rauschemberg, nel denso e magmatico mare di Anselm Kiefer, nella denuncia di Jan Fabre (nascosta sotto una coltre cangiante), nel dramma silente del lavoro di Jannis Kounellis in Andy Warhol e Hermann Nitsch, mentre sono esercizi di libertà le opere di Mimmo Paladino, Marina Abramovič, Michelangelo Pistoletto e le poetiche installazioni di Studio Azzurro.

Di grande impatto è l’opera di Renato Guttuso Fucilazione in campagna 1939.
L’opera, il cui impianto compositivo si ispira ai grandi dipinti ottocenteschi e in particolare a Los fusilamentos del tres de mayo realizzato da Goya nel 1814, affronta, forse per la prima volta, un tema dai forti risvolti politici, segnando così l’avvio del nuovo corso che caratterizzerà la successiva produzione dell’artista siciliano, e che è stato poi definito <<realismo lirico>>.
Questa tela è dedicata all’uccisione del poeta Federico Garcìa Lorca, fucilato dai franchisti nel 1936 durante la guerra civile spagnola, ma il titolo, volutamente ambiguo, era stato scelto per lasciare intendere che raffigurasse in realtà un delitto di mafia, per non rischiare di incorrere nella censura fascista.


Benedetto Croce, alla domanda Si può abolire la guerra? Rispondeva che una qualche forma di guerra continuerà sempre, perché la guerra è insita alla vita, e che semmai si trattava di provare a evitare nel secolo ventesimo e nei paesi di Europa, quella empirica guerra, che si fa coi cannoni e con le navi corazzate; che costa miliardi, quando non si fa, e decine di miliardi, quando si fa; e da cui il vincitore stesso esce spossato e vinto.

Come si sa, la speranza di Croce è stata crudelmente disillusa, e il secolo ventennio ha visto strumenti di guerra ben più potenti e atroci dei cannoni e delle corazzate, a partire dalla prima guerra mondiale. Il mito degli uomini e dei popoli che si rinnovano, delle nazioni che ringiovaniscano, delle masse che fanno la storia, diede vita a un’orribile carneficina. E invece di un nuovo Eden scrive Claudio Magris, in cui avrebbe dovuto vivere felice e buono il nuovo Adamo, vennero a regnare Mussolini, Hitler, Stalin.
I testi e le opere esposte alla mostra ravennate, colloquiando tra loro, ci ricordano che il dialogo, la gestione dei conflitti e delle tensioni, la dialettica fondata sulle ragioni di ognuno non sono la pace, anzi ne sono ben lontani, ma rappresentano l’unica vera alternativa alla guerra.

Maria Paola Forlani