venerdì 30 agosto 2019

FRANKENTHALER


Pittura / Panorama.
 Painting Bay Helen Frankenthaler, 1952-1992


La Helen Frankenthaler Foundation e Venetian Heritage presentano la mostra Pittura/Panorama, Paintgs by Helen Frankenthaler, 1952-1992, esposizione di dipinti di Helen Frankenthaler provenienti dalla collezione della fondazione a lei intitolata. L’opera di Frankenthaler torna così a Venezia dopo l’apparizione nel padiglione degli Stati Uniti della 33º Biennale di Venezia, nel 1966, attraverso una mostra monografica di quattordici quadri che offrono una panoramica su quarant’anni di carriera dell’artista. L’esposizione si concentra sulla relazione tra i concetti di pittura e panorama elaborati da Frankenthaler attraverso l’intestazione tra lavori che sembrano esser stati dipinti su cavalletto, seppur realizzati stendendo la tela sul pavimento, e grandi quadri orizzontali che si aprono su spazi bassi ma estesi, proprio come dei panorami.

Pittura / Panorama, è ospitata all’interno di Palazzo Grimani in Santa Maria Formosa, uno dei più importanti centri culturali della Venezia del XVI secolo e residenza di una famiglia conosciuta per le sue collezioni e per il suo mecenatismo. L’atmosfera del palazzo sottolinea l’uso del colore di Frankenthhaler, influenzato dai grandi artisti veneziani del Cinquecento.

La mostra è curata da John Elderfield, capo e curatore emerito per la pittura e la scultura al MoMA di New York e Senior Curator per Gagosian, e comprende opere panoramiche che vanno da Open Wall (1953), quadro che ha anticipato il movimento Color Field degli anni Sessanta, alle tele intense e suggestive dei primi anni 90. I dipinti sono installati in una sequenza non strettamente cronologica, in modo da rivelare connessioni fra lavori appartenenti a periodi diversi e un’elaborazione di continuità e di continuo cambiamento. I quadri in esposizione sono suddivisi in quattro macro categorie:
Anni ’50: il primo approccio di Frankenthaler con grandi tele orizzontali contemporanee è del 1950, quando l’artista, allora ventunenne e da poco diplomata dal college, ammira delle composizioni astratte di Jackson Pollock realizzate con matasse aggrovigliate di vernice colata.
In Window Shade No. 2 (1952), il lavoro meno recente in mostra, l’artista tenta di realizzare qualcosa di simile su scala più ridotta per poi applicare poi la stessa tecnica ad opere che alludono al paesaggio, come 10/29/52. Open Wall è invece una grande figura orizzontale, che tiene insieme aree ampie e linee di colore. Il titolo dimostra come l’artista fosse consapevole del dibattito dei primi anni Cinquanta fra pittori e critici newyorchesi sul fatto che un quadro potesse somigliare ad una finestra oppure ad un muro. Frankenthaler voleva entrambe le cose: un muro spalancato.

Anni’ 60: Per Frankenthaler il dipinto doveva essere una distesa di superficie piatta che creava l’illusione della profondità. Negli anni Sessanta, però, era la superficie piatta a predominare nella sua opera. In Italian Beach (1960), realizzata ad Alassio, le scorciatoie lungo una collina, un gruppo di foglie e una distesa di sabbia si estendono da una pozza di blu mare al bordo destro della tela. Pink Bierd Figure I (1961) espande l’immagine piatta di un uccello sopra una traiettoria di volo disegnata orizzontalmente lungo il quadro. Con Riverhead (1963), invece, l’artista riprende la pittoricità delle sue tele degli anni Cinquanta in maniera più sontuosa.

Anni ’70 – 80: il lavoro più grafico di New Paths (1973) potrebbe suggerire la volontà dell’artista di tornare alle esperienze degli anni Sessanta; in realtà ci si trova di fronte a un percorso nuovo, una fusione di un’impronta piatta e schematica con un modo creativo di aprire lo spazio pittorico. Frankenthaler amplifica l’approccio pittorico di Riverhead – come in E. M. del 1981 – per poi modificare nuovamente il proprio lessico stendendo campi monocromatici di colore atmosferico soprapponendovi gocce, punti e trattini sparsi di un pigmento più evidente come in Brother Angel (1983), oppure isole galleggianti di colore e linee calligrafiche come in Madrid (1984)

Anni ’90: Il lavoro di Frankenthaler degli anni Novanta è meno conosciuto e presentato in mostra attraverso le quattro opere più importati risalenti all’inizio di questo decennio. In esse l’artista torna alla pittura di Riverhead, realizzata trent’anni prima, riempiendo le nuove tele in modo ancora più drammatico. In gioventù aveva dichiarato: “I miei quadri sono pieni di climi. Climi astratti e non necessariamente naturali”. I titoli delle tele degli anni Novanta rievocano proprio condizioni climatiche estreme (Maelstrom, 1992), i luoghi in cui esse si realizzano (Snow Basin, (1990) oppure il momento in cui hanno inizio (Overture, 1992), o la loro misurazione (Barometer, !992). Il modo in cui Frankenthaler diffonde e stratifica il colore crea una rievocazione piena di atmosfera di acqua e cielo che si rifà in ultima istanza alla pittura veneziana del XVI secolo, e lo fa in una maniera molto personale, con uno sguardo premonitore al futuro, all’opera dei numerosi artisti che oggi si ispirano a lei.



M.P.F.

domenica 25 agosto 2019

BERTH MORISOT


Berthe Morisot,
femme impressioniste


Si è aperta fino al 22 settembre 2019 al Musée d’Orsay di Parigi l’esposizione Berthe Morisot, femme impressionniste.
Quest’importante retrospettiva dedicata a Berthe Morisot, figura fondamentale dell’impressionismo, fa luce sul ruolo centrale dell’artista all’interno del movimento e più in generale dell’arte francese del secondo Ottocento. Meno conosciuta degli amici Monet, Renoir e Degas, Morisot è sempre stata elemento trainante del gruppo e grande innovatrice. Sospesa tra la leggerezza del tocco, la brillantezza dei colori e l’intensità dei soggetti, la pittrice esplora molte tematiche della “vie moderne”, con esterna sensibilità ed eleganza: donne alla toletta o in abito da sera, interni con scene di intima quotidianità, paesaggi dominati da giochi di luce. La mostra, a cura di Sylvie Patry, Nicole R. Myers, Lilian e James H.Clark, ricostruisce il percorso eccezionale di un’artista che attraverso le sue opere, ha sempre cercato di fissare impressioni istantanee dell’esistenza.

Nata a Bourges nel 1841, Marie Pauline Berthe è la terza figlia del prefetto Tiburce Morisot. Le sue due sorelle sono Yves ed Edma; quest’ultima la seguirà per qualche tempo negli studi di pittura. Nel 1845 nascerà Tiburce, suo fratello. Nel 1848, la famiglia si trasferisce a Parigi dove Berthe, su consiglio di Rossini, amico di famiglia, viene educata alla musica insieme alla sorella Yves. I genitori tengono particolarmente all’istruzione delle figlie che ben presto seguiranno anche lezioni di disegno e pittura. Dopo aver frequentato i corsi di Chocarne e Guichard ed essersi esercitate sulla copia dei capolavori del Louvre, Berthe e Edma diventano allieve di Camille Corot, famoso paesaggista. La lezione di Corot si rivelerà assai preziosa per la formazione stilistica di Berthe. Anche grazie all’appoggio del suo nuovo maestro, Qudinot, la pittrice riesce a esporre al Salon del 1865, dove ha inviato due tele. Il suo futuro sembra pieno di promesse finchè, nel 1868, Berthe fa un incontro che si rivelerà fatale per la sua carriera: le viene presentato Edouard Manet, uno dei pittori più contestati e scandalosi della Parigi del tempo.
Tra i due si stabilisce subito una grande intesa Berthe posa come modella per alcuni capolavori dell’amico, lui le insegna molto, pur senza mai diventare ufficialmente il suo maestro. Attraverso Manet, conosce un gruppo di pittori all’avanguardia: Edgar Degas, Claude Monet, Auguste Renoir, Alfred Sisley…Con loro Berthe intraprenderà una strada difficile quella dell’Impressionismo. Nonostante il parere contrario di Monet, espone con loro nella celebre mostra allestita nel vecchio atelier di Nadar in Boulvard des Capucines. Siamo nel 1874: l’Impressionismo muove i suoi primi passi e si guadagna le prime feroci critiche “Prenda invece la Morisot!”, tuona Leroy nel suo celebre articolo di commento all’esposizione. “Questa signorina non si diverte a riprodurre una folla di particolari oziosi. Quando deve dipingere una mano, fa tante pennellate quante sono le dita ed è fatta. Gli sciocchi che cercano il pelo nell’uovo in una mano non capiscono niente dell’arte impressiva, e il grande Manet li caccerebbe dalla sua repubblica”.
Allieva di Manet e associata agli Impressionisti: una pessima presentazione per una donna che desidera far successo nel campo dell’arte. Ma, nonostante le preoccupazioni della madre, Berthe è risoluta e non sembra avere ripensamenti. Il suo ruolo nel gruppo è tutt’altro che marginale: sarà lei a preoccuparsi dell’organizzazione di alcune esposizioni – in particolare dell’ultima tormentata apparizioni ufficiale della Société – e la sua ricerca pittorica apporta interessanti novità nell’elaborazione dello stile impressionista.

Superata la soglia dei trent’anni senza risolversi ad accettare le pur numerose proposte di matrimonio, Berthe capitolerà nel 1874, sposando Eigéne, fratello del suo mentore Eduard Manet. Dall’unione nascerà una figlia, Julie, più volte ritratta dalla pittrice: dopo la morte del padre, sarà il poeta Stéphan Mallarmé a occuparsi di lei come tutore. Berthe muore nel 1895. Verrà sepolta al cimitero di Passy, nella tomba della famiglia Manet. L’’anno successivo Mallarné, Degas, Monet e Renoir organizzeranno una sua personale presso la Gallerie Durand-Ruel.

Berthe Morisot è divenuta celebre per le sue delicate scene d’interni familiari. Protagoniste delle sue tele sono la madre, la sorella Edma, la nipotina Blanche e la figlia Julie. L’universo dei suoi affetti privati emerge con toccante intensità in opere quali la Culla, tra i capolavori della pittrice, e La lettura, nella quale ritrae la madre e la sorella nel salotto di casa.

Fondamentale per lo stato degli studi su Berthe è questa esposizione itinerante che, inaugurata il 21 giugno 2018 al Musée National des Beaux-Arts du Quuébec in Canada e a Dallas e ora al Musée d’Orsay di Parigi (Berthe Morisot, femme impressioniste, fino al 22 settembre). Con più di sessanta opere la mostra dà nuovo risalto a questa grande artista, troppo a lungo trascurata perché donna il cui sforzo costante è sempre stato quello di catturare il tempo e di esprimere la vita nel suo farsi.
<<Quello che è sprofondato, quello che si è cancellato non valeva la pena di essere vissuto>>.



Maria Paola Forlani


mercoledì 21 agosto 2019

Pavimento del Duomo di Siena


Come in cielo così in terra.
Dalla Porta alla città del cielo al Pavimento.

Scopertura del Pavimento del Duomo di Siena


Fino al 27 ottobre, la Cattedrale di Siena scopre il suo magnifico pavimento a commesso marmoreo, frutto di cinquecento anni di espressione artistica, un viaggio simbolico alla ricerca dei più alti valori dello spirito umano. Come in cielo, così in terra. Dalla porta alla città del cielo al pavimento. Un percorso dalla sommità della Cattedrale e dal Faccione del Duomo Nuovo fino alle tarsie marmoree. Dal Museo dell’Opera, con la salita alla città del cielo, dall’alto muro è possibile non solo leggere i monumenti senesi più significativi, ma anche “vedere un nuovo cielo e una nuova terra” (Apocalisse 21,1).

Attraverso l’ascesa alla porta del cielo i visitatori sembrano muoversi lungo la scala apparsa in sogno a Giacobbe, la cui cima raggiungeva il cielo e gli angeli di Dio salivano e scendevano (Genesi 28, 10-22).
Nel sogno Dio promette a Giacobbe la terra sulla quale egli stava dormendo e un’immensa discendenza.
 Al suo risveglio Giacobbe esclama <<Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo>>, verso utilizzato dalla liturgia nella messa della dedicazione delle cattedrali. Ma ‘porta del cielo’, secondo le litanie lauretane, è anche la Vergine, definizione che meglio esprime la potenza e la bontà di Maria, la quale come Madre di Cristo e dell’umanità, concorre alla nostra salvezza eterna in Cielo ove lei è “Regina assunta”.

Il percorso “dall’alto” permette infatti di comprendere meglio la dedicazione del Duomo di Siena all’Assunzione della Madonna e il forte legame che i cittadini senesi hanno da secoli con la loro ‘patrona’:
Sena vetus civitas Virginis. La Madonna si definisce anche come Sedes Sapientiae, sede di Sapienza e invita i cittadini a “visitare castamente il suo castissimo tempio”, come si legge nell’iscrizione d’ingresso al Pavimento “Nella solarità abbagliante dei suoi marmi e cotti” (Mario Luzi), Porta e Città del Cielo si riflettono nel Pavimento del Duomo di Siena per saldarsi in un unico sguardo.
<<…Al più bello et al più grande e magnifico pavimento che mai fusse stato fatto…>>
Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, Domenico Beccafumi e Maestro de Getti, 1568).

Il pavimento del Duomo di Siena è uno dei più vasti pregiati esempi di un complesso di tarsie marmoree, un progetto decorativo che è durato sei secoli, dal Trecento all’Ottocento. Come per la fabbrica della cattedrale, anche, il pavimento si intreccia indissolubilmente con la storia stessa della città e della sua arte: per questo nei secoli senesi non hanno lesinato risorse per la creazione prima e per la sua conservazione poi.

Il tedesco Friedrich Ohly fu il primo ad occuparsi del pavimento nel suo insieme, ricercando una tematica comune che legasse i vari episodi, ipotizzando una tematica comune che legasse i vari episodi, ipotizzando la presenza di un programma figurativo portato avanti nei secoli dai diversi artisti succedutisi alla decorazione. Arrivò alla conclusione che ogni scena fa parte di una rappresentazione della Salvezza nei vari aspetti. Il tutto ha inizio dalle figure sul sagrato esterno (simbolo di ebrei e pagani), che sono escluse dalla salvezza e quindi restano fuori dall’edificio sacro, e dai tre ordini dei presbiteri che introducono il fedele mediando la sua partecipazione alla rivelazione divina.

All’interno davanti al portale centrale, Ermete Trismegisto simboleggia l’inizio della conoscenza terrena, quella del mondo antico, con un libro che simboleggia Oriente e Occidente, nonché riporta parole legate alla creazione del mondo. Segue un richiamo alla storia e al luogo, con le storie che simboleggiano Siena e le sue imprese, oltre che i suoi alleati, e una rappresentazione della Fortuna che regge le sorti umane
(Allegoria del colle della Sapienza e Ruota della Fortuna).

Nelle navate laterali le Sibille prefigurano la venuta di Cristo, e ricordano le varie zone del mondo conosciuto.
Una nuova fase del mondo è rappresentato nel transetto, con le storie bibliche che sono già ambientate nell’epoca della rivelazione. L’esagono centrale mostra scene di sacrificio, in stretta connessione con la rievocazione eucaristica che viene celebrata sull’altare. Ai lati invece le imprese militari del polo ebraico, con l’inclusione della Strage degli Innocenti per il contenuto cruente assimilabile.

Varie partizioni numerologiche vennero segnalate dall’Ohry (sette, cinque), che alluderebbero a vari significati teologici. Seguono poi le storie di Elia, il profeta, e di Mosè, il legislatore, con il popolo ebraico in cammino che simboleggia il pellegrinaggio del visitatore della cattedrale. La Storie di Davide concludono le serie bibliche, e prefigurano simbolicamente Gesù. Il pacificatore.
Non rientrano nel disegno generale le Virtù nel transetto destro, opere tardo-settecentesche, nate quando ormai l’intero significato dello svolgimento delle storie si era evidentemente perso.

M.P.F

martedì 20 agosto 2019

MUMMIE


Viaggio verso l’immortalità
Mummie


Si è aperta la mostra “Mummie. Viaggio verso l’immortalità”, negli spazi per mostre temporanee del Museo Archeologico Nazionale di Firenze fino al 2 febbraio 2020.
Il progetto della mostra è nato nel 2000, da un’idea di Maria Cristina Guidotti, che ne è anche la curatrice scientifica, in occasione di uno studio sulle mummie della sezione “Museo Egizio” del Museo Archeologico Nazionale di Firenze eseguito dall’università di Pisa. La mostra, il cui allestimento è stato curato da Contemporanea Progetti, grazie all’apporto di Expona-museum exibition network ha viaggiato a lungo in diversi musei d’ Europa e dal 2018 in molte città della Cina.

Gli oltre cento oggetti esposti, appartenenti tutti alle collezioni della sezione “Museo Egizio” di Firenze, sono tornati ora nella loro sede, dove il pubblico può ammirare i reperti che erano in gran parte conservati nei magazzini del museo. Le opere in mostra, selezionate e organizzate per illustrare sotto vari aspetti il rapporto degli antichi Egizi con l’aldilà, annoverano dei pezzi di grande importanza. Tra di essi il sarcofago di Padimut, caratterizzato da una ricchissima decorazione che contraddistingue i sarcofagi della XXI e XXII dinastia (1069-656 a.C.), mai esposto e mai studiato prima della mostra, la statua del sacerdote Henat, uno dei pochi esempi di statua di un dignitario che indossa una veste persiana, testimonianza del periodo in cui l’Egitto fu assoggettato al potente impero persiano (525 – 404 a.C.), e ancora la testa mummificata recentemente sottoposta a indagini radiografiche e TAC che hanno consentito la ricostruzione del volto del defunto ( 656 -332 a.C. ) e la cassetta per ushabi (Piccole statue del corredo funebre) di Nekhtamontu (1550-1070 a.C.).

L’esposizione illustra il concetto egizio della vita dell’anima nell’aldilà e il significato di tutti quegli oggetti che nell’antico Egitto venivano abitualmente deposti nelle tombe insieme al defunto. Per gli antichi egiziani, infatti, la morte non determinava la fine della vita, ma costruiva un momento di passaggio a un’altra forma di esistenza, che continuava nell’aldilà. L’anima però per continuare a vivere aveva bisogno di tutta una serie di accorgimenti e di oggetti che dovevano magicamente consentire la sopravvivenza oltre la morte e, soprattutto, doveva reincarnarsi nel proprio corpo che, per questo motivo, era conservato al meglio tramite pratiche di imbalsamazione del cadavere che diventava così una mummia. L’argomento, di indubbio fascino, è spesso trattato facendo leva sull’idea di mistero e sugli aspetti più macabri, diffondendo delle idee inesatte sulle mummie egizie: nella mostra invece viene presentato il procedimento dell’imbalsamazione dei corpi dal punto di vista scientifico, in maniera chiara e comprensibile ma non per questo meno interessante.

L’esposizione è organizzata in due parti: la prima dedicata al concetto di sopravvivenza dell’anima e alla “mummificazione” del corpo del defunto, la seconda parte dedicata agli oggetti che accompagnavano il morto nella tomba. Quest’ultima è articolata in due sezioni, nelle quali si presentano gli oggetti del corredo che avevano esclusivamente una funzione funeraria (stele, ushabti, tavole d’offerta), e gli oggetti di vita quotidiana che dovevano ricreare nella tomba la perduta esistenza del defunto (abbigliamento, gioielli, mobilio di vario tipo).

La collezione del “Museo Egizio” di Firenze è la seconda in Italia dopo quella del Museo Egizio di Torino. Si è formata soprattutto nel corso del XIX secolo, in seguito alla famosa spedizione franco-toscana di Ippolito Rossellini e di Jean Francçois Champollion.
Nel 1828 partì, infatti, per l’Egitto la prima spedizione scientifica, il cui scopo principale era la documentazione dei monumenti egizi, e che riportò un notevole quantitativo di reperti molto importante distribuiti tra il Louvre e il Museo di Firenze, cui spettò in particolare il famoso carro rinvenuto in una tomba tebana della XVII dinastia (1550-1291 a.C.), un esemplare unico al mondo appartenuto a un ricco privato, e i bassorilievi della tomba di Sety I, una delle più belle e riccamente decorate della Valle dei Re.
Il Museo Egizio di Firenze nacque trent’anni dopo il 1856, presso il convento delle Monache di Foligno, in via Faenza. Nel 1880 il Museo fu trasferito nella sede attuale, insieme al Museo Etrusco: l’incarico del nuovo allestimento fu dato al giovane egittologo Ernesto Schiapparelli, che lo decorò in stile egizio. Nel 1894 Schiapparelli fu trasferito al Museo Egizio di Torino e il Museo di Firenze non ebbe più un direttore per molti anni.

Nel 1939 il Museo ricevette in dono dall’Istituto Papirologico di Firenze numerosi reperti provenienti dagli scavi nelle città di El Hibeh (soprattutto sarcofagi) e di Antinoe (fra cui la importante collezione di tessuti copti).


Attualmente le sue collezioni annoverano oltre 15.700 oggetti, che vanno dall’epoca preistorica all’epoca copta, e da 11 sale che sono state rinnovate quattro anni fa, quando a Firenze
Il progetto della mostra è nato nel 2000, da un’idea di Maria Cristina Guidotti, che ne è anche la curatrice scientifica, in occasione di uno studio sulle mummie della sezione “Museo Egizio” del Museo Archeologico Nazionale di Firenze eseguito dall’università di Pisa. La mostra, il cui allestimento è stato curato da Contemporanea Progetti, grazie all’apporto di Expona-museum exibition network ha viaggiato a lungo in diversi musei d’ Europa e dal 2018 in molte città della Cina.

Gli oltre cento oggetti esposti, appartenenti tutti alle collezioni della sezione “Museo Egizio” di Firenze, sono tornati ora nella loro sede, dove il pubblico può ammirare i reperti che erano in gran parte conservati nei magazzini del museo. Le opere in mostra, selezionate e organizzate per illustrare sotto vari aspetti il rapporto degli antichi Egizi con l’aldilà, annoverano dei pezzi di grande importanza. Tra di essi il sarcofago di Padimut, caratterizzato da una ricchissima decorazione che contraddistingue i sarcofagi della XXI e XXII dinastia (1069-656 a.C.), mai esposto e mai studiato prima della mostra, la statua del sacerdote Henat, uno dei pochi esempi di statua di un dignitario che indossa una veste persiana, testimonianza del periodo in cui l’Egitto fu assoggettato al potente impero persiano (525 – 404 a.C.), e ancora la testa mummificata recentemente sottoposta a indagini radiografiche e TAC che hanno consentito la ricostruzione del volto del defunto ( 656 -332 a.C. ) e la cassetta per ushabi (Piccole statue del corredo funebre) di Nekhtamontu (1550-1070 a.C.).

L’esposizione illustra il concetto egizio della vita dell’anima nell’aldilà e il significato di tutti quegli oggetti che nell’antico Egitto venivano abitualmente deposti nelle tombe insieme al defunto. Per gli antichi egiziani, infatti, la morte non determinava la fine della vita, ma costruiva un momento di passaggio a un’altra forma di esistenza, che continuava nell’aldilà. L’anima però per continuare a vivere aveva bisogno di tutta una serie di accorgimenti e di oggetti che dovevano magicamente consentire la sopravvivenza oltre la morte e, soprattutto, doveva reincarnarsi nel proprio corpo che, per questo motivo, era conservato al meglio tramite pratiche di imbalsamazione del cadavere che diventava così una mummia. L’argomento, di indubbio fascino, è spesso trattato facendo leva sull’idea di mistero e sugli aspetti più macabri, diffondendo delle idee inesatte sulle mummie egizie: nella mostra invece viene presentato il procedimento dell’imbalsamazione dei corpi dal punto di vista scientifico, in maniera chiara e comprensibile ma non per questo meno interessante.

L’esposizione è organizzata in due parti: la prima dedicata al concetto di sopravvivenza dell’anima e alla “mummificazione” del corpo del defunto, la seconda parte dedicata agli oggetti che accompagnavano il morto nella tomba. Quest’ultima è articolata in due sezioni, nelle quali si presentano gli oggetti del corredo che avevano esclusivamente una funzione funeraria (stele, ushabti, tavole d’offerta), e gli oggetti di vita quotidiana che dovevano ricreare nella tomba la perduta esistenza del defunto (abbigliamento, gioielli, mobilio di vario tipo).
La collezione del “Museo Egizio” di Firenze è la seconda in Italia dopo quella del Museo Egizio di Torino. Si è formata soprattutto nel corso del XIX secolo, in seguito alla famosa spedizione franco-toscana di Ippolito Rossellini e di Jean Francçois Champollion.

Nel 1828 partì, infatti, per l’Egitto la prima spedizione scientifica, il cui scopo principale era la documentazione dei monumenti egizi, e che riportò un notevole quantitativo di reperti molto importante distribuiti tra il Louvre e il Museo di Firenze, cui spettò in particolare il famoso carro rinvenuto in una tomba tebana della XVII dinastia (1550-1291 a.C.), un esemplare unico al mondo appartenuto a un ricco privato, e i bassorilievi della tomba di Sety I, una delle più belle e riccamente decorate della Valle dei Re.

Il Museo Egizio di Firenze nacque trent’anni dopo il 1856, presso il convento delle Monache di Foligno, in via Faenza. Nel 1880 il Museo fu trasferito nella sede attuale, insieme al Museo Etrusco: l’incarico del nuovo allestimento fu dato al giovane egittologo Ernesto Schiapparelli, che lo decorò in stile egizio. Nel 1894 Schiapparelli fu trasferito al Museo Egizio di Torino e il Museo di Firenze non ebbe più un direttore per molti anni.
Nel 1939 il Museo ricevette in dono dall’Istituto Papirologico di Firenze numerosi reperti provenienti dagli scavi nelle città di El Hibeh (soprattutto sarcofagi) e di Antinoe (fra cui la importante collezione di tessuti copti).

Attualmente le sue collezioni annoverano oltre 15.700 oggetti, che vanno dall’epoca preistorica all’epoca copta, e da 11 sale che sono state rinnovate quattro anni fa, quando a Firenze è stato ospitato l’XI Congresso degli Egittologi.


M.P.F.


sabato 17 agosto 2019

EFFETTO AKIRI


Effetto Araki





Si è inaugurata a Siena, fino al 30 settembre, presso il complesso museale Santa Maria della Scala, una grande mostra del maestro Nabuyoshi Araki (Tokyo, 1940). L’esposizione organizzata da Santa Maria della Scala con il sostegno di Opera-Civita, è curata da Filippo Maggia che ha selezionato opere appartenenti a oltre venti serie prodotte dal fotografo giapponese dai primi anni sessanta ad oggi (catalogo Skira).

Araki ha voluto celebrare gli oltre 50 anni di attività (è del 1965 la sua prima mostra) con una selezione di 2200 opere che ripercorre la sua lunga carriera artistica offrendo un panorama pressochè completo sulla sua sterminata produzione, assai complessa e articolata, ben oltre le immagini di bondage che l’hanno reso celebre in tutto il mondo.

Molte serie – Satchin and his brother Mabo, Sentimental night in Kyoto, August, Tokyo Autumn e altre ancora – vengono presentate per la prima volta in Italia, alcune sono inedite in Europa – come Anniversary of Hokusai’s Death e Gloves – e la raccolta Araki’s Paradise – fotografie che Araki scatta utilizzando la sua casa come palcoscenico – è stata appositamente realizzata per Siena: un Araki dunque originale, riflessivo e emozionante che sembra voler riassumere in questa mostra la sua intera vicenda artistica e umana.

Lungo il percorso espositivo troviamo il racconto dedicato a Satchin and his brother Mabo, due ragazzini vicini a casa di Araki, immagini degli anni sessanta; Subway of Love, fotografie scattate nella metropolitana di Tokyo a cavallo degli anni settanta; ritratti classici di eleganti donne e uomini giapponesi e le composizioni intitolate Araki’s Lovers degli anni ottanta e novanta; una raffinata selezione di bondage; le immagini appartenenti a Tokyo Diary del decennio 2000-2010, diario fotografico che Akari aggiorna quotidianamente dal 1980, e la cronaca del 2017 intitolata Anniversary of Hokusai’s Death, in onore del grande pittore e incisore giapponese Katsushika Hokusai.

Accanto al toccante Sentimental Journey in versione completa (il racconto del viaggio di nozze con la moglie Yoko in 108 fotografie in bianco e nero), viene proposta per la prima volta in Italia l’altrettanto emozionante lavoro intitolato Sentimental night in Kyoto; e poi ancora l’ Amant d’Aoũt, dedicata alla modella Komari; le fotografie realizzate in occasione dei 60 anni dalla fine della guerra, The 60th year after the End of the War, e una vetrina di dittici dalla serie Tokyo Nude, architetture simboliche della capitale giapponese accostate a nudi femminili.

Oltre alle Polaroid organizzate in tavoli, scatti che narrano del quotidiano vivere dell’artista a Tokyo, compaiono altre due recenti serie dedicate alla sua città natale: Tokyo Summer Story e Tokyo Autumn, brillante e luminosa la prima – come lo è la calda estate della capitale giapponese, melanconica e intima la seconda, velata di luce crepuscolare.


Con le composizioni floreali, a celebrare la bellezza e la caducità della vita, viene presentata anche la serie Balcony of love, fotografie organizzate sulla terrazza di casa animate dalla presenza del gatto Ciro, insostituibile compagno del fotografo giapponese.

“Sentimental Jurney è un simbolo del mio amore… l’amore è stato il punto di partenza della mia attività di fotografo…” scrive Akari nell’introduzione al volume Sentimental Jurney, una dichiarazione d’’intenti più che una confessione: la ragione prima, piena e ultima del suo essere fotografo e della sua pratica fotografica, perché in Araki questi due aspetti sono indissolubili e fanno del fotografo giapponese un artista unico nel panorama internazionale, una figura al limite dell’anacronistico che vive di luce propria in un sistema, quello dell’arte contemporanea, che sempre più assomiglia a un qualsiasi business.

L’amore è per Araki una passione incontestabile e irrefrenabile che la fotografia rende visibile, nel suo caso potremmo addirittura dire tangibile, tanto sono vive a pulsanti le sue immagini, siano esse ritratti di donne, di uomini, composizioni floreali, ambientazioni, racconti oppure vedute urbane di Tokyo o di altre metropoli asiatiche.

Amore per la vita e celebrazione della bellezza, vissuti, anzi, consumati ogni volta come se fosse l’ultima, perché lo stupore che la vita offre quotidianamente all’artista rende possibile l’avventura, la scoperta. Magia che Araki trasforma in opere con la consapevolezza della caducità di ciò che il suo occhio registra, avvertendo la responsabilità di restituire grazia e armonia nel mondo più autentico possibile. Il momento è irrepetibile, unico.

Nell’attimo stesso in cui la bellezza raggiunge il suo culmine, già si avverte l’inizio del deperimento. La potenza delle fotografie di Araki si percepisce proprio nella forza che le sue immagini emanano, condensato della sofferenza e della gioiosità che l’artista giapponese incarna ogni volta che lavora, trasformando il set in un palcoscenico ove esistono unicamente lui e il soggetto ritratto, quest’ultimo travolto in un vortice creativo del quale Araki medesimo sembra a volte perdere i riferimenti.


Al di là di ciò che rappresentano, di quanto mostrano, le fotografie di Araki sono un distillato di energia, e solo negli ultimi anni paiono velate di melanconia, come se all’entusiasmo per una nuova esperienza che l’artista ogni volta si propone di affrontare il tempo passato provasse a sovrapporsi, come succede a chi ha visto e vissuto tanto e, soprattutto, molto ha donato agli altri.
M.P.F.