martedì 26 novembre 2019

Tex 70 di un mito


Settant’anni di TEX in una mostra a Siena

Una storia editoriale può raccontare quella di una nazione: ciò accade a Siena, a Santa Maria della Scala, con la mostra <<Tex 70 anni di un mito>>, a cura di Gianni Bono, storico e studioso del fumetto italiano, in collaborazione con la redazione di Sergio Bonelli Editore e Comicon.
L’esposizione aperta fino al 26 gennaio del prossimo anno, racconta la fortuna del personaggio Tex che, è riuscito, dal 1948 a oggi, a entrare nelle abitudini degli italiani e a diventare un vero e proprio fenomeno di costume.

Era il 30 settembre 1948, infatti, quando nelle edicole italiane usciva il primo numero di Tex, personaggio creato da Gianluigi Bonelli e realizzato graficamente da Aurelio Galleppini, destinato a diventare il più amato eroe del fumetto italiano e uno dei più longevi del fumetto mondiale.

Settant’anni dopo, Tex Willer viene celebrato con un’esposizione, di fatto il più importante omaggio mai dedicato ad Aquila della Notte, che racconta la sua vicenda editoriale attraverso disegni, fotografie, materiali rari e talvolta inediti, nonché installazioni create appositamente per l’evento.

Così i visitatori possono ammirare, tra tanti documenti, la prima vignetta di Tex in più lingue, il ritratto di Gianluigi Bonelli e famiglia realizzato da Ferdinando Tacconi, le fotografie di Aurelio Galleppini e la macchina da scrivere di Bonelli: l’Universal 200 decorata da lui stesso e conservata nella sala riunioni della casa editrice, con la quale sono state create le prime storie di Tex.
Nel corso degli anni, sono stati quattro gli sceneggiatori principali, Giovanni Luigi Bonelli (Milano, 22 dicembre 1908 – Alessandria, 12 gennaio 2001), creatore del mito, seguito nel 1976 dal figlio Sergio Bonelli, che firma il fumetto con lo pseudonimo di Guido Nolitta. Quindi Claudio Nizzi, che subentra nel 1983, mescolando al western elementi tipici del genere poliziesco, e infine, dal 1994, Mauro Bonelli, attuale curatore che riporta Tex alle origini.

In mostra sono esposte le prime pagine di alcuni quotidiani che consentono, inoltre, di ripercorrere settant’anni di storia italiana: una sorta di parallelo tra le avventure del coraggioso Ranger e le vicende del nostro Paese. Uno spazio è interamente dedicato all’esposizione dei materiali a opera di due fumettisti senesi: Giovanni Ticci, che nel 1968 firmò la sua prima avventura texiana, e Alessandro Bocci, disegnatore di Sergio Bonelli dal 2001.

In occasione dell’esposizione è stato pubblicato, a cura di Sergio Bonelli Editore, il catalogo Tex 70 anni di un Mito con introduzione di Davide Bonelli, testi di Gianni Bono, Graziano Frediani, Luca Boschi e Luca Barbieri, ricco di materiali rari, disegni e testi legati alla storia di Tex Willer.


M.P.F.

lunedì 25 novembre 2019

Barbara Hepworth


Barbara Hepworth


Jocelyn Barbara Hepworth (Wakefield, 10 gennaio 1903 – St Ives, 20 maggio 1975) è stata una grande scultrice inglese. È considerata generalmente un grande scultore almeno quanto il suo contemporaneo e amico Henry Moore.


Hepworth nacque a Wakefield,  West Yorkashire, e studiò alla Leeds School of Art (dove incontrò Moore) e al Royal College of Art. Successivamente, studiò per un periodo in Italia.
Uno dei suoi lavori più prestigiosi fu Forma Unica (Single Form) (1961.1964), un memoriale per il Segratario generale delle Nazioni Unite Dag HammarsKjöld, nel palazzo dell’ONU a New York.
Hepworth sposò lo scultore John Skeaping prima di diventare la seconda moglie del pittore Ben Necholson nel 1933. Divorziò nel 1951.

Fu nominata Dame dell’Ordine dell’Impero britanico nel 1965, dieci anni prima di morire a settantadue anni nell’incendio del suo studio in Cornovaglia, a St. Ives. Lo studio e la sua casa ora costituiscono il Museo Barbara Hepworth.

Con un’ampia monografia, il Museo Rodin di Parigi in collaborazione con la Tate di St.Ives, celebra una mostra di Barbara Hepworth a cura di Catherine Chevillot e Sara Matson, l’esposizione propone una panoramica sull’attività dell’artista britannica, che a Parigi aveva frequentato Pablo Picasso, Georges Braque, Costantin Brancusi e Piet Mondrian.
Traendo ispirazione dalla natura, Barbara Hepworth ha realizzato raffinate sculture astratte dai profili sinuosi, smussati, curvi, allungati, talvolta aggettanti, nell’alternarsi armonioso di pieni e vuoti. E non è un caso che gran parte della sua produzione sia nata a St Ives, nello spettacolare paesaggio della Cornovaglia, dove l’artista si era trasferita nel 1939, allo scoppio del Secondo conflitto mondiale, e dove, appunto, oggi si trova la sua casa-museo.
Qui sono stati prodotti dipinti, disegni e sculture in marmo, ardesia e bronzo, ora riuniti nella personale parigina. Esemplare è Pelagos (1946), una sfera di legno scavata al centro e composta da una doppia voluta collegata da sottili corde, che evoca le onde marine o una forma organica in evoluzione.
Hepworth ha calcato la scena internazionale, con la partecipazione tra l’altro, alla biennale di Venezia e di San Paolo elaborando un linguaggio radicale nel quale la solidità materica e la purezza formale riflettono gli ideali di un mondo pacificato.

M.P.F

martedì 19 novembre 2019

Paloma Varga Weisz - Arte al Femminile


Paloma Varga Weisz

Si tiene al Bonnefantenmuseum di Maastricht la retrospettiva che indaga il lavoro della tedesca Paloma Varga Weisz (Mannheim, 1966), creatrice di un lavoro che fonde le sue abilità d’intagliatrice e ceramista con i media più avanzati. Una sessantina di opere in mostra tra sculture e installazioni che contengono echi di saghe nordiche e riferimenti alla storia classica. In rassegna anche lavori inediti, come Gente selvaggia, 1988, esposta al pubblico per la prima volta.
Attraverso un’iconografia articolata che mescola citazioni tratte dalla tradizione artistica rinascimentale italiana e gotica tedesca, riferimenti psicanalitici, memorie personali e una rilevante fascinazione del corpo umano – specialmente quello femminile – l’artista crea complesse e poetiche installazioni capaci di condurre lo spettatore in una dimensione contemplativa a metà tra sogno e realtà.
Il particolare uso di tecniche desuete – tra le quali l’intaglio nel legno, la policromia e la ceramica – si combina alla componente autobiografica aggiungendo un ulteriore livello simbolico alla narrazione. Nonostante affondino in un tessuto che richiami episodi personali, denso di rimandi alla pittura e scultura del Rinascimento così come alla tradizione popolare e all’artigianato, le opere di Varga Weisz si fanno memoria di una sensibilità condivisa e collettiva dai riferimenti di matrice europea, capace di raccontare i livelli più intimi della nostra esistenza.
Sono rari gli autori contemporanei che hanno fatto esperienze artigianali come Paloma Verga Weisz, abile artista del legno che ripiegò su una piccola scuola d’intaglio sulle Alpi bavaresi dopo il rifiuto di ammissione all’Accademia d’arte di Mannheim. Da quella frustrazione nacque la sua fortuna:<<Realizzai presto che potevo tutto ciò che volevo con un semplice pezzo di legno>>.
Figlia di un artista – suo padre Feri era un pittore astratto -, s’interessò prestissimo alla storia dell’arte antica e moderna indagando l’intensità degli sguardi delle statue religiose, il bagaglio emotivo dei ritratti di Luca Cranach, le atmosfere sospese di Giorgio de Chirico. Presto trovò il suo linguaggio, attualizzato anche nell’uso dei media (è anche autrice di film e video).
Il suo percorso, raccontato in mostra, include lavori come
La donna dei boschi, 2001, dove una figura femminile di grandi dimensioni e due figure maschili molto più piccole, in piedi e sedute su due tronchi, rimandano alla società matriarcale contadina, e Bumped body, 2017, in cui l’artista ha dato alla sua figura ancestrale un equilibrio fra peso e leggerezza.
L’artista allude sempre al rapporto tra memoria, rimozione e riemersione del ricordo. Tale combinazione diventa nelle opere di Verga Weisz espressione di una dimensione dell’essere frammentaria, in cui il corpo da “intagliare” si fa porzione, l’identità travestimento e la memoria intermittenza. Nella mostra troviamo riferimenti al padre dell’artista in un film muto, intitolato
Deux artists, 1986.
È proprio questo lavoro giovanile, e nel tema dell’identità in esso affrontato, una delle chiavi interpretative dell’intero percorso in mostra che Verga Weisz chiude con l’opera Lyng man (uomo disteso), 2014. Questa scultura diventa riflessione conclusiva sulla dimensione dell’essere scissi, mancanti e apolidi, condizione esistenziale dell’uomo e che oggi ritroviamo attuale più che mai nel dramma degli esodi di massa.
M.P.F.   

lunedì 18 novembre 2019

Il Tempo di Giacometti da Chagall e Kandinsky


Il Tempo di Giacometti da Chagall a Kandinsky

Capolavori dalla Fondazione Maeght


Il Comune di Verona e Linea d’ombra, assieme alla Fondazione Marguerite e Aimè Maeght, con l’apporto fondamentale del Gruppo Baccini in qualità di principale sponsor, presentano a Verona, nel Palazzo della Gran Guardia, una grande mostra organizzata da Linea d’ombra e curata da Marco Goldin.

Il tempo di Giacometti da Chagall a Kandinsky. Capolavori dalla Fondazione Maeght (aperta fino al 5 aprile) è una superba incursione, con un centinaio di opere tra sculture, dipinti e disegni, nel terreno del più alto Novecento internazionale, avendo Parigi quale centro. Una vera e propria monografia dedicata ad Alberto Giacometti, con oltre settanta opere, unitamente ad altri artisti che gravitavano nella Parigi soprattutto degli anni tra le due guerre ma anche nei due decenni successivi, da Kandinsky a Braque, da Chagall a Mirò, con un’ulteriore ventina di dipinti celebri, spesso di grande formato.

Si tratta di uno splendido spaccato dell’ambiente che ha caratterizzato la vita e l’opera di Alberto Giacometti (1901-1966), considerato a ragione il più importante scultore del XX secolo. Un intero mondo fatto anche di straordinarie relazioni con altri artisti famosi come lui, tutto ciò reso possibile grazie all’intervento della Galleria prima, e della Fondazione poi, fondate da Aimè e Marguerite Naeght. Si tratta quindi di una storia corale e non una, pur bellissima, monografia sull’opera di un artista straordinario come Alberto Giacometti.

Marco Goldin ha curato l’esposizione, tornando in questo modo al suo amore per il XX secolo e agli studi del Novecento, da cui è partito fin dagli anni universitari: “ Giacometti è stato una delle mie primissime passioni nel campo dell’arte, poco dopo i vent’anni. Lo cercavo nei libri, nelle mostre e nei musei d’Europa. Ho immensamente amato dapprincipio i suoi disegni, diversi dei quali ho infatti scelto di portare in Gran Guardia. Poi i suoi quadri così sincopati, soprattutto le figure e le nature morte, anch’essi presenti a Verona, e naturalmente le celeberrime sculture.
Sono felice di poter rendere omaggio a Giacometti in Italia con questa mostra così vasta, con opere che ne attraversano tutta la carriera, dal suo tempo giovanile in Svizzera alle sculture inaugurali attorno ai quindici anni fino alle prove surrealiste e a quelle ormai facenti parte dell’immaginario collettivo, della maturità”.

È giusto dire che questa mostra serve anche a rievocare una delle più straordinarie avventure culturali in Europa dalla metà del secolo in poi, quella di Aimè e Marguerite Maeght, che prima dell’inizio della Seconda guerra mondiale fondano a Cannes una loro galleria. Nell’ottobre 1945 aprirà la galleria parigina, dove due anni dopo verrà presentata, con successo senza precedenti, l’Esposizione internazionale del Surrealismo, in collaborazione con Duchamp e Breton.
Nel 1964 poi viene inaugurata a Saint-Poul-de-Vence la Fondazione Maeght, con un insieme architettonico concepito per presentare l’arte moderna e contemporanea in tutte le sue forme. La Fondazione possiede oggi una delle più importanti collezioni in Europa di dipinti, disegni, sculture e opere grafiche del XX secolo, con nomi di grande importanza che sono stati legati alla famiglia Maeght per decenni, Giacometti in primis.

È affascinante ormai non più soltanto immaginare, ma anche effettivamente vedere- conclude Marco Goldin – nel vasto salone centrale della Gran Guardia la Donna in piedi, scultura filiforme di quasi tre metri di altezza, fino alla scultura più celebre tra tutte, L’uomo che cammina, esposto al suo fianco.
Nel mezzo la ricostruzione precisa, e poetica, dell’intera vita di Giacometti, tra disegni e pitture e soprattutto tante tra le sue famosissime sculture, dai busti e le teste del fratello Diego, ai cani, ai gatti, alle foreste fatte di figure quasi liquefatte. Fino alla notissima figura femminile del 1956, detta Donna di Venezia, esposta alla Biennale veneziana di quell’anno e che tanto successo riscosse. Ebbene di quella figura la Fondazione Maeght possiede tutte le nove variazioni, che puntualmente sono giunte a Verona per essere esposte, per un confronto che rare volte nel mondo intero si è fatto”.

Figurazione lineare e scheletrica, quei suoi uomini ridotti a lunghe linee e quasi arbusti carbonizzati, che sono la cifra del suo stile, Giacometti è il vero protagonista della rassegna. Sono figure esistenziali, le sue, ma di un esistenzialismo che non diventa mai una moda o un gioco mondano, perché nasce da un autentico sentimento drammatico. L’artista è stato infatti fra i pochi, nei due decenni del Dopoguerra, che ha saputo ancora rappresentare l’uomo in modo credibile, al di fuori del realismo sociale e della pittura illustrativa.
I suoi volti, come quello del fratello Diego, ripreso in un intrico di rughe, corrosioni, sporgenze e rientranze che ne agitano la fisionomia, hanno una intensa – e non teatrale – drammaticità. Così le sue figure che camminano e non si sa dove vadano (non lo sanno nemmeno loro); le sue sagome smangiate dal vento e dal tempo, corrose come se fossero coperte di cicatrici eppure saldamente attaccate alla terra, con quella specie di “scarpone” che la tiene ancorata al suolo, sono una delle interpretazioni dell’uomo più commoventi del Novecento. Di un secolo, cioè, percorso più che mai dalla violenza, ma anche da un sentimento di incomprensibilità delle cose e del nostro stesso destino.
Le sue figure si ergono nello spazio a guisa di simboli della solitudine, talvolta della disperazione e dell’angoscia: una popolazione smarrita in un labirinto Kafkiano.

Maria Paola Forlani

domenica 17 novembre 2019

Sguardi sulla pittura


“Sguardi sulla pittura”
Fondoantico

Come ogni autunno, da oltre un quarto di secolo, la Galleria Fondoantico di Tiziana Sassoli a Bologna organizza l’incontro con la pittura, imperdibile appuntamento per collezionisti, studiosi e appassionati d’arte antica. Giunto alla ventisettesima edizione, l’evento si è aperto con la mostra intitolata “Sguardi sulla pittura. Dipinti dal XVI al XIX secolo”.
Nella prestigiosa sede di Casa Pepoli Bentivogilo, nel cuore di Bologna, sino al 21 dicembre sono esposte opere circa trenta opere – tra dipinti e disegni – eseguiti da maestri attivi a partire dalla seconda metà del Cinquecento, come Lorenzo Sabatini, detto Lorenzino da Bologna, autore di una squisita teletta destinata a un committente colto ed esigente con San Girolamo in preghiera, e Denijs Calvaert, originario di Anversa, che proprio con Sabatini lavorò tra il 1572 e il 1574 nella sala Regia in Vaticano, prima di rientrare definitivamente a Bologna, dove poco dopo, licenziò l’Adorazione dei pastori in mostra.
In apertura del Seicento si colloca la Madonna con il Bambino di Francesco Albani, colui che, tra gli allievi di Annibale Carracci, seppe mantenere più a lungo una sensibilità per il dato naturale che lo porta a intenerire gli incarnati e a conferire ai suoi personaggi una fresca e spontanea affettività. La scuola ferrarese da Camillo Ricci, l’allievo meglio conosciuto e documentato dello Scarsellino,
di cui si espone un inedito dipinto raffigurante la Cena in Emmaus. Esempio dello stile tardo di Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino è la tavola, appartenuta alla famiglia di Lady Diana Spencer, con Due cherubini, in origine collocata sopra alla pala di San Luca Evangelista che dipinge la Vergine col Bambino eseguita dal centese tra il 1651 e il 1653 per l’altare maggiore della chiesa di San Francesco a Reggio Emilia (oggi al Nelson- Atkin Museum of Art di Kansas City). Il Guercino, tra i più grandi artisti del Barocco europeo, fu anche un abilissimo disegnatore, come dimostra il foglio a penna e inchiostro con Due figure di profilo.
Transitando nel XVII secolo, incontriamo tre elegantissime opere di Donato Creti, concepite come studi preparatori: due, su carta, a monocromo, per alcune figure della monumentale pala con la Vergine in gloria e Sant'Ignazio in San Pietro a Bologna. Inaugurata col suo altare il 14 aprile 1737; uno, su tela, per il sogno di Giacobbe conservato presso la Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Corsini a Roma. Al sofisticato eloquio classicista di Creti si contrappone il gusto rococò di Francesco Monti, come si vede nella tela con la Madonna in gloria e i santi Filippo Neri e Barbara, modello per la grande pala custodita nell’oratorio dei Filippini a Bologna. Di alta qualità inventiva ed esecutiva sono poi la coppia di grande tele di Francesco Lavagna, uno dei protagonisti della natura morta napoletana di inizio Settecento.
Segue una vera e propria “mostra nella mostra”, dedicata all’arte di due grandi pittori bolognesi di fama internazionale attivi nella seconda metà del XVIII secolo, i fratelli Ubaldo e Gaetano Gandolfi, dei quali sono esposte ben dodici lavori, tra dipinti e disegni, quasi tutti collegati ad opere importanti e documentate. Del più anziano, Ubaldo, sono freschi bozzetti per le pale d’altare destinate alla chiesa dello Spirito Santo a Cingoli, a quella di San Giorgio dei frati minori cappuccini a Castelbolognese e al Duomo di Vercelli (agli ultimi si accompagnano anche i relativi disegni preparatori).
Di Gaetano quelli per l’affresco del soffitto di Casa Gini a Bologna e per la pala con San Pellegrino dei Laziosi della chiesa dei Servi a Rimini. Di quest’ultimo sono anche due magnifici disegni a penna raffiguranti Capricci di teste, eseguiti nel 1769, quando si trovava a Londra.
Chiude la mostra un sofisticato tondo con il Busto di giovane donna eseguito da Mauro Gandolfi, figlio di Gaetano ed ultimo esponente della famiglia di artisti.
M.P.F.