venerdì 8 novembre 2019

MODIGLIANI

Modigliani e l’avventura di Montparnasse

Capolavori della collezioni Netter e Alexander


Si è aperta a Livorno l’esposizione Modigliani e l’avventura di Montparnasse. Capolavori delle collezioni Netter e Alexander (Museo della Città di Livorno aperta fino il 16 febbraio 2020), organizzata dal Comune di Livorno insieme all’Istituto Restellini di Parigi l’esposizione, fortemente voluta dal Comune di Livorno, ha l’obiettivo di far ritornare nella sua città natale “Dedo” in occasione del centesimo anniversario della sua scomparsa 1920 quando Amadeo Modigliani è ricoverato, incosciente, all’ospedale della Carità di Parigi dove muore, due giorni dopo, all’età di 36 anni, di meningite tubercolare malattia incurabile al tempo, che era riuscito, miracolosamente, a sconfiggere vent’’anni prima.
Il giorno della sua morte Parigi e il mondo intero perdono uno dei più grandi artisti di tutti i tempi. Con il suo stile inconfondibile era riuscito a rendere immortali i suoi amici, le sue compagne e amanti, i collezionisti e i volti ‘eroici’ dei figli della notte parigina.
Quando, nel 1906, Amedeo Modigliani (Livorno, 1882 – Parigi, 1920), appena ventiduenne, giungeva a Parigi, era già in possesso di una notevole cultura letteraria e artistica.
Usciva da una famiglia ebrea per metà italiana e per metà francese, un’antica famiglia di grandi tradizioni (la madre vantava una discendenza dal filosofo del ‘600 Baruch Spinoza), colta, di idee avanzate e umanitarie; il fratello Emauele diventerà il noto deputato socialista e sarà uno dei punti di riferimento degli esuli antifascisti durante la dittatura mussoliniana.

Amedeo, che, fin da bambino, nel ristretto ambiente provinciale livornese, era detto ironicamente
<<il filosofo>>, pur avendo dovuto abbandonare a quattordici anni gli studi classici perché malato di tifo (gliene derivò una lesione polmonare cronica), aveva letto di tutto con accanimento ed entusiasmo, dal Petrarca al Leopardi, da Ronsard a Shelley, a Baudelaire, a, Lautréamont, da Spinoza a Ibsen, a Bakunin, a Verlain, a Carducci, a Wilde, a D’Annunzio. Amava in modo particolare Dante: pare che conoscesse a memoria tutta la Divina Commedia che si divertiva a recitare di fronte agli amici meravigliati, anche per le strade di Parigi, con un certo esibizionismo che gli veniva imputato (e che certo doveva avere, ma che non diventava mai chiassoso e volgare).

La sua cultura artistica spaziava soprattutto dall’arte gotica italiana a quella rinascimentale, con riferimenti (oltre a Tino da Camaino) a Simone Martini e a Botticelli. Da essi apprende il significato della linea di contorno che definisce l’oggetto rappresentato, lo costruisce e, al tempo stesso, è di per sé mezzo espressivo. Da essi apprende anche l’allungamento delle figure che non è soltanto necessario per la continuità lineare, ma come strumento di idealizzazione. E forse, da questo punto di vista, può essere stata importante anche la consacrazione delle deformazioni innaturalistiche del manierismo: si pensi, per esempio, alla Madonna dal collo lungo del Parmigianino, che aveva certo visto agli Uffizi durante il suo soggiorno a Firenze.

Aveva iniziato i suoi studi pittorici sotto la guida di Guglielmo Micheli, che era stato allievo di Fattori. Poi dopo essersi recato a Capri (in convalescenza per il riacutizzarsi della tubercolosi, 1901), Napoli e Roma, si iscrive alla <<Scuola Libera del Nudo>> dell’Accademia di Firenze (1902) e frequenta lo studio di Giovanni Fattori che convalida la sua naturale inclinazione al disegno e del quale condivide le sue idee sociali.

Dal 1903 frequenta la <<Scuola del Nudo>> all’Accademia di Venezia. Sono anni di studio intenso che gli forniscono la preparazione di base tecnica e storica dalla quale potrà sviluppare la sua personalità. <<Da Venezia – scrive all’amico Oscar Ghiglia – ho ricevuto gli insegnamenti più preziosi della mia vita>>. Al disegno costruttivo fiorentino si è aggiunto il colore veneto.

Adesso è maturo per recarsi a Parigi, entrando nel vivo dei problemi artistici contemporanei (1906). Appena giunto, va ad abitare a Montmartre, vicino al Bateau-Lavoir, punto d’incontro di Picasso, di Jacob e di tanti altri; poi a Montparnasse nello stesso luogo ove hanno lo studio Soutine e Chagall.
È un momento fervido di novità, di discussioni, di creazioni. L’anno prima, al Salon d’Automme, è esplosa la fiammata dei fauves. Nello stesso 1906, poco prima, dell’arrivo a Parigi di Modigliani, ad Aix-en-Provance, dove si era ritirato in solitudine, muore Cézanne; la mostra postuma parigina del 1907, rendendone evidente la grandezza, è una lezione per tutti. Il 1907 è anche l’anno delle Demoiselles d’Avignon, mentre nel 1908 si parla per la prima volta di cubismo.

Tutto ciò non è estraneo a Modigliani: dai fauves apprende la carica espressionista del colore, e da Matisse in particolare il ritmo della linea sinuosa, da Cézanne e dal cubismo la forza costruttiva. Ma Modigliani non aderisce a questi correnti, né, successivamente ad altre.
Quando Severini gli proporrà di sottoscrivere il Manifesto futurista otterrà un rifiuto. Nulla in Modigliani è vicino al futurismo, né la volontà di distruggere il passato (si pensi alla sua raffinata cultura), né la tesi della perpetua mobilità.

È importante anche l’incontro con Brancusi, il grande scultore rumeno e, più tardi, con un altro scultore polacco Lipchitz. Modigliani non è soltanto pittore; è anche scultore, anzi scultore più che pittore: la sintesi volumetrica è scultorea anche in pittura, il disegno stesso ha la definizione dello scultore.

Nascono infatti negli anni intorno al ’10 alcune mirabili sculture, un tempo poco note, sono teste, quasi in forma di erme, fortemente stilizzate, allungatissime e sottili, dal profilo tagliente come la prora di una nave, oppure più compatte e costruite, ma altrettanto stilizzate. Molti disegni concorrono a raggiungere questa estrema semplificazione.

Ci si chiede quale contributo può avere dato a Modigliani la conoscenza della scultura negra, così usuale in quegli anni a Parigi fra gli artisti di avanguardia. Certo un contributo notevole; non però come in Picasso, per la ricerca della forza primitiva, quanto piuttosto per l’alta stilizzazione. Ma ancora più della scultura negra, sono visibili contatti con quella Khner e con quella arcaica greca.
Per scolpire, Modigliani, non potendo acquistare il materiale, perché troppo povero, era costretto a rubare le pietre dei cantieri edili e le traversine della metropolitana.

Ben presto però (1914-1915) dovette smettere. La salute declinante non gli permetteva di sostenere lo sforzo fisico necessario né egli concepiva altro tipo di scultura che quella pietra, con lo scalpello, quella eseguita, come avrebbe detto Michelangelo, <<per forza di togliere e non via di porre>>.
Da questo momento Modigliani intensifica l’attività pittorica, che non aveva mai cessato. Nasce in pochi anni la serie di mirabili ritratti.
Non sono ritratti di committenti, persone estranee conosciute occasionalmente; sono ritratti di persone che gli sono state vicine, che lo hanno capito, che lo hanno amato, che hanno sofferto insieme a lui, solidamente costruiti con energica linea disegnativa e con gli stacchi tonali del colore <<accentuava un colore puro e subito lo accompagnava con una zona neutra per suggerire l’accordo tonale>>, dice Lionello Venturi, aggiungendo che <<sentiva la necessità di non rinunziare alla terza dimensione e di seguire tutta la linea sulla superfice>>.


Modigliani, insieme ad alcuni altri (Soutine e Utrillo, per esempio) è uno di quelli che furono definiti i peinters maudits (<<pittori maledetti>>), uno fra gli ultimi a credere nella teoria romantica del <<genio>>, l’artista che vive in una dimensione diversa, pronto a bruciare anche l’esistenza nella febbrile ricerca dell’ideale: <<noi abbiamo dei bisogni diversi che ci mettono al di sopra – bisogna dirlo e crederlo – della loro morale>>. E del resto aveva più volte ripetuto agli amici di desiderare <<una vita breve ma intensa>>.

M.P.F.

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