lunedì 30 settembre 2019

GIAPPONISMO


Giapponismo

Venti d’Oriente nell’Arte Europea
1860 – 1915
Vicino, tra le lacche e i netzkè,
rosseggia sul polito pavimento,
in un vaso giallastro, una peonia.
Corrado Govoni, Ventagli giapponesi, in Le Fiale, 1903


Isolato per più di due secoli, attorno al 1854 il Giappone iniziò ad instaurare rapporti diplomatici e commerciali con gli Stati Uniti, la Russia, i Paesi Bassi, l’Inghilterra e la Francia. Le prime merci giapponesi ad essere commercializzate furono soprattutto la ceramica e la lacca, seppure confluite nella cosiddetta moda della “cineseria”. Con la diffusione e l’affermazione di una cultura borghese legata soprattutto agli ambienti artistici e letterari d’avanguardia la diffusione la diffusione di stampe ed oggetti di arredo nipponico divennero un fenomeno alla moda più specifico che influenzò i più svariati settori dell’Arte e della Cultura occidentale in un periodo compreso tra il 1880 e il 1915, noto col termine <<Japponisme>>.

Il periodo di maggior diffusione di questa tendenza coincise appieno con lo sviluppo del modernismo e del gusto Liberty, cui si sovrappose più volte, e che terminò con l’avvento del Decò, immediatamente dopo il primo grande conflitto mondiale, quando l’interesse si allargò ulteriormente verso i paesi dell’estremo oriente in generale.
Tra secondo Ottocento e primo Novecento, i movimenti delle Art § Crafts in Gran Bretagna, della Secessione Viennese in Austria, dell’Art Nouveau in Francia e del Liberty in Italia interpretarono la cultura artistica del Giappone, in chiave soprattutto decorativa e formale.

La ceramica giapponese tradizionale si distingueva dalle analoghe forme cinesi ed orientali per il gusto sintetico della forma e per l’uso delle decorazioni semplici di natura fitomorfica. Sin dalla loro  prima apparizione sul mercato europeo questi modelli furono immediatamente copiati, seppure aggiornando lo stile al gusto europeo, da molti artisti in ragione della loro grande popolarità, ma soprattutto per la coincidenza con gli sviluppi di una tendenza, il Liberty, che andava modernizzato e semplificato i barocchismi del periodo precedente. Molti artisti iniziarono, in quel periodo, a dedicarsi alla produzione di vasi e ceramiche con asimmetrici pattern floreali proclamando in tutta Europa la supremazia del design giapponese.

Avvertito come misterioso e diverso, il Giappone aveva senza dubbio affascinato gli artisti che, reinterpretando i temi delle stampe Ukiyo-e  (mondo fluttuante), erano giunti ad una sintesi straordinaria tra le esigenze e gli schemi dell’arte occidentale e lo spirito sintetico ed essenziale dell’arte nipponica. Nella Francia fin de siécle l’influenza dell’arte giapponese, sia a livello formale sia contenutistico, aveva coinvolto oltre alle industrie del bronzo, del giardinaggio e della carta da parati, i più svariati settori artistici, dalla pittura alla grafica, dalla ceramica all’architettura influenzando artisti come Manet, Monet, Degas e Van Gogh che, col dipinto Rami di mandorlo in fiore, mostrava l’equivalente del romanzo-manifesto del giapponismo Manette Salomon dei fratelli Goncourt. L’influenza esercitata dalle stampe giapponesi sugli impressionisti e sui postimpressionisti e del loro peso nel rinnovamento della visione artistica occidentale fu notato già all’epoca dai più autorevoli critici e letterati, da Marcel Proust e Edmond de Goncourt che arrivò ad affermare: “Tutto l’impressionismo è dovuto alla contemplazione e all’imitazione delle stampe luminose del Giappone”.
Il focus della mostra è rigorosamente incentrato sull’influenza del Giappone nelle arti figurative europee nel periodo compreso tra il 1862 e il 1920.

La mostra, composta, mirabilmente, a Palazzo Roverella di Rovigo, a cura di Francesco Parisi (catalogo Silvana Editore) ha quattro principali aeree di approfondimento, incentrate ciascuna sulle dinamiche di penetrazione del gusto japoniste in Europa.
In ciascuna delle quattro sezioni ovviamente è stato dedicato ampio spazio ai manufatti giapponesi (ceramiche, tessuti, xilografie, bronzi) restituendo altresì un’idea delle grandi esposizioni universali che misero in comunicazione i due mondi, testimoniando attraverso vari gradi d’influenza, fino alla fedele trascrizione, il dialogo con le opere degli artisti europei. La mostra presenta inoltre alcune sezioni esterne, dedicate all’architettura, all’illustrazione del libro, all’incisione e al manifesto.

La complessità del fenomeno giapponese è dispiegata attraverso una lettura parallela, dunque, tra le diverse nazionalità europee: Inghilterra, Francia, Paesi Bassi, Germania, Austria, Boemia e Moravia, Italia.
La London World Fair del 1862
Una grande quantità di prodotti giapponesi fu esposta a Londra nel 1862, per la cura del Ministero britannico plenipotenziario di Cina e Giappone Sr Ruthford Alcock che per l’occasione prestò la sua intera collezione. Grazie a questa incredibile esposizione, molti artisti vittoriani – o quelli della successiva generazione confluiti nel cosidetto Aesthetic Moviment – iniziarono ad inserire elementi del Paese del Sol Levante, spesso in maniera decontestualizzata, attratti dalla loro qualità decorativa (Albert Moore, James Tissot, James Guthrie, etc…)
James McNeill Whistler occupò fondamentalmente all’interno di questa ‘vague’ costruendo il dipinto attorno ad un singolo colore e ritraendo le sue modelle in Kimono e ventaglio sullo sfondo di paraventi giapponesi presi dalla sua preziosa collezione. Mostrando interesse per la struttura compositiva delle stampe giapponesi fu il primo ad utilizzare gli schemi.

Il principale designer giapponese inglese fu senza dubbio William Goodwin il cui stile fu ribattezzato <<anglojapanese>>. Dopo l’uscita nel 18877 del catalogo della sua intera opera, Art and forniture by Edward Goodwin, lo stile sintetico dei suoi lavori interessò i principali fautori del modernismo.
Le Esposizioni Universali di Parigi del 1867 e del 1878 e Siegfried Bing
All’Esposizione di Parigi del 1867 il padiglione giapponese presentava principalmente arti decorative, porcellane, abbigliamento, armature, lacche, calligrafie, paraventi e una vastissima collezione di stampe ukiyro-e, mentre l’Esposition del 1878 fece diventare popolare il ventaglio, tanto che numerosi artisti italiani, francesi e inglesi si dedicarono alla decorazione di questo oggetto (Degas, Caillbotte, Jean Louis Forain, Camille Pissaro, Paul Gauguin. L’imitazione delle stampe luminose giapponesi ebbe, notoriamente, un peso notevole nel passaggio del naturalismo all’impressionismo, sia per la scelta dei soggetti sia per l’abbandono dell’uso di colori bituminosi.

Nel 1888 in un articolo pubblicato su “L’art indépendante” il critico Edouard Djardin scrisse a proposito della mostra del Gruppo del XX che alcune tele evocavano indiscutibilmente “ L’imagerie et le japonisme”.
Nel 1890, inoltre, Siegfried Bing, proprietario della galleria l’Art Nouveau, da cui prese il nome il corrispettivo indirizzo estetico organizzò L’Exposition de la gravure japonaise all’E’cole National des Beaux Arts di Parigi iniziando al contempo la pubblicazione trilingue (inglese, francese e tedesco) della rivista “Le Japon Aetistique” (1888 1891); presente in mostra nella sua edizione di lusso). Considerata come un perfetto esempio di arte decorativa, l’arte giapponese rispondeva perfettamente anche alle aspirazioni dei pittori. Nelle arti decorative il maggior rappresentante del gusto giapponese fu senza dubbio Galileo Chini che seppe miscelare abilmente forme e modelli orientali con uno stile assolutamente personale.

Fondamentale per conoscenza dell’arte giapponese in Italia fu anche la grande Esposizione internazionale di Roma del 1911. Il padiglione realizzato dal governo giapponese a Villa Giulia, un edificio in stile giapponese classico, presentava per la prima volta al pubblico più di cento opere d’arte tra sculture e pitture, soprattutto contemporanee, di artisti ormai pienamente “occidentalizzati” e altri ancora saldamente legati alla tradizione (come, tra gli altri, Kikuhi Hobun e Kawabata Goyusho).
Illustrazione e icisione

Fu soprattutto la grafica europea, nei decenni di passaggio tra Ottocento e Novecento, a far tesoro del ricchissimo serbatoio di idee contenute nelle stampe giapponesi come testimoniano numerosi esempi che vanno dall’evocazione delle scene di intimità domestica di Utamaro alle composizioni in diagonale di Hiroshige interpretate in maniera quasi palmare dagli incisori europei.

Completa la sezione una ricca esposizione di libri illustrati tra il 1880 e il 1924.
I Manifesti
La complicata tecnica delle stampe giapponesi venne tradotta in Europa attraverso l’uso della litografia policroma più adatta ad essere riprodotta su scala industriale. Jules Chéret fu tra i pionieri del manifesto artistico e, avendo studiato a Londra, ebbe notevole familiarità con le stampe giapponesi e con il loro tipico uso delle tinte piatte. A raccogliere la sua eredità fu Tolouse-Lautrec che divenne in breve uno degli autori di manifesti più apprezzati. La sua grande passione per le stampe giapponesi è testimoniata sia dal suo monogramma, derivato da una stampa smunga, sia dalla passione di abbigliamento di abbigliarsi in Kimono, ma soprattutto per il tributo alle incisioni  di Utmaro con la realizzazione del manifesto per la ditta Divan Japonais (1893).

Nell’arte del manifesto l’influenza del Giappone giunge anche nella mitteleuropa: ne sono un esempio i motivi decorativi utilizzati dai maggiori esponenti della Secessione viennese; ugualmente in Italia, complice la produzione pubblicitaria legata ai melodrammi d’ispirazione orientale (si pensi a Iris di Mascagni o alla Madame Butterfly e alla Turandot di Puccini), favorì la produzione di manifesti di chiara ispirazione giapponese.

M.P.F.




sabato 28 settembre 2019

NATALIA GONCHAROVA


NATALIA

GONCHAROVA
Tra Gauguin, Matisse e Picasso


Fino al 12 gennaio 2020 Palazzo Strozzi celebra Natalia Goncharova, straordinaria figura femminile delle avanguardie di primo Novecento, attraverso una grande retrospettiva che ripercorre la sua vita controcorrente e la sua produzione artistica a confronto con opere di celebri artisti che sono stati per lei punti di riferimento come Paul Gauguin, Henri Matisse, Pablo Picasso, Umberto Boccioni.


L’esposizione – a cura di Ludovica Sebregondi, Fondazione Palazzo Strozzi, Matthew Gale, Head of Displays e Natalia Sidlina, Curator, International Art, Tate Modern – esalta la poliedricità di Natalia Goncharova, tra i principali artisti dell’avanguardia russa, attiva come pittrice, costumista, illustratrice, grafica, scenografa, decoratrice, stilista, ma anche come attrice cinematografica, ballerina e performing artist ante litteram.

Nata nel 1881 presso Tula, Natalia Goncharova trascorre l’infanzia in campagna. Nel 1892 si trasferisce a Mosca dove si iscrive, dopo aver rinunciato agli studi universitari che pure aveva cominciato, all’istituto di pittura, scultura e architettura, dedicandosi soprattutto alla scultura. Ė Michail Larinov a spingerla sul versante della pittura, intravedendo la sua propensione al colore “Hai occhi per il colore ma ti occupi della forma. Apri i tuoi occhi ai tuoi occhi ! “. Seguendo il consiglio del pittore, Natalia si avvicina all’opera su tela proponendo lavori di chiara derivazione impressionistica per passare a un genere più vicino al Simbolismo.
La vera svolta arriva nel 1908, quando l’industriale e mecenate russo Nikolai Ryabushinskij finanzia una grande mostra di arte contemporanea francese. Natalia e colleghi hanno così occasione di ammirare le proposte dei pittori post-impressionisti e dei Fauves. Negli stessi anni, grazie ad alcuni collezionisti come Morozov e Shchukin, giungono in Russia alcune tele cubiste. L’esempio di Picasso è fondamentale per lo stile della Goncharova, che riesce a mediare le nuove istanze dell’arte europea con la tradizione russa.
Il vivo ricordo dell’arte popolare delle campagne russe è evidente in opere quali Natività, in cui la pittrice sembra proporre una tradizione moderna delle icone, reinterpretate secondo le nuove leggi della rappresentazione dal vero. “Il cubismo è una buona cosa, ma non è poi così nuovo. Le streghe di pietra degli sciti, le bambole di legno dipinte vendute nelle fiere, sono anch’esse delle bambole cubiste”, ammette lei stessa.
Memore della propria infanzia trascorsa in campagna, Natalia ama ritrarre scene di vita del contado, a cui sa donare una trascendenza da immagine sacra, vicina al linguaggio delle icone popolari. Insieme a Larinov è tra i fondatori del Fante di quadri, gruppo al quale aderiscono i principali esponenti delle Avanguardie russe: Lentualov, Mashkov, Konchalovskij, Falk, Kuprin.
La prima mostra di questi artisti suscita grande scandalo nella Russia del tempo. Dopo due anni di collaborazione, la pittrice e Larinov prendono le distanze dal gruppo accusando i membri di assoggettarsi in modo critico all’arte europea. Il loro nuovo circolo artistico, detto Coda d’Asino, accoglie personaggi quali Vladimir Tatlin e Kasimir Malevi
č, destinati a giocare un ruolo importante nella scena artistica e politica della Russia della Rivoluzione.
La censura interviene su alcune tele a soggetto religioso esposte dalla pittrice alla mostra del gruppo – tra le quali i bellissimi pannelli dedicati agli Evangelisti – perché ritenute irriverenti. Inevitabile è anche il distacco da Coda d’Asino: i due artisti stanno elaborando un nuovo stile pittorico, che definiscono Raggismo.
La creatività della pittrice non ha limiti, la sua espressione è libera di cogliere suggestioni dai diversi linguaggi avanguardistici senza legarsi a uno in particolare. Questa profonda autonomia stilistica (“Fauvismo di tutte le varietà, Cubismo di tutti i sistemi e Futurismo di tutte le nazionalità”) colpisce profondamente Guilloume Apollinaire, sempre attento alle novità in arte, e impressiona il coreografo Serge Diaghhiilev a tal punto da chiedere alla pittrice di lavorare per lui. Comincia così una proficua collaborazione con il teatro, per il quale Natalia esegue alcune scenografie e studi per costumi “ Questa donna trascina tutta Mosca e tutto San Pietroburgo dietro di sé”, scriverà di lei lo stesso Diaghilev, “non si imita solo la sua opera ma la sua personalità…”

Negli anni Venti Natalia è in Francia dove partecipa attivamente alla cosiddetta “Scuola di Parigi”. Fedele alle tradizioni della madrepatria, diventa una dei principali esponenti di quei pittori dell’Est che hanno trovato a Parigi una seconda patria. In questi anni conosce e diventa amica di Matisse, Derain, Picasso, Delaunay, Léger, Cocteau e molti altri, avvicinandosi anche agli ambienti dadaisti, attraverso il poeta Tristan Tzara. Solo negli anni trenta la critica comincia a disinteressarsi del suo lavoro aggravando la crisi dell’artista, scaturita dalla morte di Diaghilev, avvenuta nel 1929. Nel 1955, a settantaquattro anni, convola a giuste nozze con il compagno di tutta una vita, Michail Larinov. Morirà sette anni dopo, il 7 ottobre del 1962.

La mostra di Palazzo Strozzi.
In una sorta di viaggio tra la campagna russa dove è cresciuta, Mosca dove si è formata, e Parigi dove ha scelto di vivere, la mostra permette di raccontare la straordinaria vivacità di un’artista originale e innovativa, vera e propria  enfant terribile dell’avanguardia.
Il percorso ospita 130 opere, in prestito da importanti collezioni e istituti internazionali: da musei russi quali la Galleria Tretyakov di Mosca e il museo Statale Russo di San Pietroburgo, e delle collezioni della Tate, della National Gallery, della Estorick Collection e del Victoria and Albert Museum di Londra, fondamentali anche i prestiti da istituzioni italiane come i milanesi Museo del Novecento e il Gabinetto dei Disegni del Castello Sforzesco, oltre che dal Mart di Rovereto.

Tra le principali opere presenti in mostra lavori giovanili quali l’ Autoritratto con gigli gialli (1907-1908), la tela Contadini che raccolgono le mele (1911) già proprietà di Ivan Morozov, uno dei maggiori collezionisti del primo Novecento, il polittico della Mietitura (1911) e i suoi dipinti di nudi, che la portarono a processo per oscenità.
Una sezione dedicata alle opere religiose accoglie tra l’altro il monumentale polittico degli
Evangelisti (1911), che nel 1914 a San Pietroburgo sconvolse il pubblico e fu ritirato dalle autorità. In occasione della mostra fiorentina è stato restaurato il grande paravento commissionato a Natalia nel 1927 per l’Arts Club di Chicago della raffinata collezionista americana Rue Winterbotham Carpenter. La mostra presenta inoltre un confronto con importanti opere di futuristi italiani, come lo studio per La città  che sale di Boccioni e Velocità  astratta – l’auto è passata di Balla.
Il confronto tra gli studi per Dinamismo di un ciclista di Boccioni e il Ciclista di Goncharova permette di apprezzare analogie e differenze tra Futurismo italiano e russo e di ripercorrere il rapporto con Marinetti e con gli artisti frequentati a Roma tra il 1916 e ’17.


Maria Paola Forlani  

sabato 21 settembre 2019

800 / 900


800/900
Cultura e società  nell’opera
Degli artisti ferraresi


Ho l’impressione che quasi
tutto ciò che in passato ho vissuto o
sentito perda in me immediata-
mente la forma originaria e non
sia più né descrivibile mediante
parole né riproducibile mediante
figure, ma che si trasformi invece
in una crisalide priva di forma: e
che debba essere appunto lo sfor-
zo vero di questo mio scrivere
quello di trasformare le innume-
revoli ed informi esperienze in
qualcosa di completamente di-
verso cosicchè lo scrivere corri-
sponda a un loro generale risve-
glio, alla formazione di nuove fi-
gure, laddove però queste non
potrebbero non essere collegate,
proprio attraverso la mia sensa-
zione, alle esperienze originarie
Peter Handke, Il peso del mondo


Nel paesaggio tra Ottocento e Novecento la società si trasforma all’insegna delle esigenze della modernità: si definiscono così nuovi modelli culturali e nuovi stili di vita. Artisti ferraresi appartenenti a diverse generazioni – tra cui Giovanni Boldini, Filippo de Pisis, Gaetano Previati, Achille Funi, Giuseppe Mentessi – raccontano oltre un secolo di arte e di storia, cultura e società.
La mostra 800/900. Cultura e società nell’opera degli artisti ferraresi, a cura di Luciano Rivi, Andrea Sardo e Chiara Vorrasi, mette in dialogo 57 dipinti, sculture e disegni provenienti dalle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara, dalle Raccolte Assicoop Moderna § Ferrara e BPER Banca, con l’intento di rileggere alcuni aspetti della vita pubblica e privata tra Ottocento e Novecento: i mutamenti del territorio e della città, gli effetti familiari, i luoghi del lavoro e dello svago, l’immaginario letterario e le nuove forme della spiritualità

La selezione comprende autori ferraresi attivi tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento: interpreti della scena internazionale, come Giovanni Boldini e Filippo de Pisis, e personalità di primo piano del panorama italiano, quali Gaetano Previati, Achille Funi, Roberto Melli, accanto a figure più o meno note al grande pubblico, da Giuseppe Mentessi ad Alberto Pisa, da Aroldo Bozagni ad Arrigo Minerbi. A secondo dei percorsi biografici e creativi, questi artisti ci hanno consegnato sguardi ravvicinati sempre diversi sull’ambiente culturale e sociale di cui sono stati testimoni, in quella stagione che segna l’avvento della modernità.

L’esposizione è frutto della sinergia tra pubblico e privato per la valorizzazione del patrimonio storico-artistico ferrarese. Dopo la positiva esperienza di Situazione d’Arte (promossa nel 2017 a Palazzo Crema insieme a GAMC e di Giuseppe Mentessi / artista di sentimento (promossa nel 2018 alla Pinacoteca Nazionale di Ferrara grazie alla collaborazione con le Gallerie Estensi) il Comune di Ferrara, Assicoop Modena§Ferrara, Legacoop Estense, ora insieme alla Direzione territoriale delle reti museali dell’Emilia-Romagna – Museo di Casa Romei del Mibac, propongono di approfondire la conoscenza di una parte assolutamente significativa del patrimonio collezionistico ferrarese e, parallelamente, favorire la fruizione di opere che, per motivi, non sono accessibili al pubblico salvo esposizioni temporanee. Le collezioni Assiccop e BPER non dispongono ancora di una sede espositiva permanente a Ferrara, mentre le raccolte civiche delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea sono ricoverate in deposito dopo il terremoto del 2012, in attesa del completamento del restauro di Palazzo Massari.

L’iniziativa, inoltre, rappresenta un’ulteriore opportunità di valorizzazione del patrimonio artistico e architettonico cittadino. Le tre sedi della mostra – Palazzina Marfisa d’Este, Palazzo Bonacossi, Museo di Casa Romei – rappresentano rilevanti realtà museali e costituiscono un significativo complemento al percorso espositivo, anche attraverso il dialogo tra diverse testimonianze storico-artistiche: a Palazzina Marfisa d’Este, Palazzo Bonacossi, Museo di Casa Romei – rappresentano rilevanti realtà museali e costituiscono un significativo complemento al percorso espositivo, anche attraverso il dialogo tra diverse testimonianze storico-artistiche: a Palazzina Marfisa d’Este, l’ambientazione a dimora privata rinascimentale ospita una selezione di opere che documentano, in ambito moderno, situazioni di vita familiare e lavorativa, mentre, a Palazzo Bonacossi, un nucleo di dipinti, sculture e disegni otto-novecento sul tema della memoria dell’antico stabilisce un nesso con il Museo Rinaldi, che conserva le collezioni d’arte e di antiquariato riunite nel Settecento dal cardinale ferrarese. Infine Casa Romei, l’esposizione propone due sezioni dedicate all’immaginario storico-letterario ed al sentimento religioso mettendo in relazione, attraverso specifiche scelte di allestimento, gli affreschi e le sculture medievali e rinascimentali a soggetto sacro ospitati stabilmente dal Museo con sculture e dipinti moderni a carattere devozionale.

Tra gli scultori presenti, nelle collezioni ferraresi, non si può dimenticare  Arrigo Minerbi, ( apparso nell’edizione della Biennale di Venezia del 1932, con una mostra individuale) lo scultore prediletto da D’Annunzio e già invitato alla Biennale di Venezia del 1912. Una decina di pezzi attestano la vera creatività <<copiosa e pura>> di Minerbi, che i natali a Ferrara <<terra bassa, ma epica, fortile di biade e canapa, ma anche ingegni creatori e poeti della pittura>> spingono il curatore Alberto Neppi all’accostamento con Alfonso Lombardi.

Il richiamo alla tradizione plastica cinquecentesca è tutt’altro che fuori luogo, sia per i materiali (terracotta, marmo e bronzo) sia per l’aderenza <<infallibile al reale>> dei suoi busti esemplificata nel ritratto di Eleonora Duse del 1927 (Milano, Museo della Scala). Un realismo espresso <<in forme sempre controllate e di autonomo respiro>> particolarmente adatto alla scultura funeraria, genere che negli anni Venti impegna Minerbi in una intesa attività soprattutto per committenti privati e lo allontanano per un lungo tempo dalle massime competizioni artistiche nazionali.
M.P.F.

lunedì 9 settembre 2019

Michaelina Wautier




Michaelina Wautier

Venezia presenta una mostra, ma soprattutto un grande ritorno di tre icone della pittura veneziana realizzate da Tiziano e Tintoretto, raramente concesse in prestito. Accanto ai pittori veneziani, i maestri fiamminghi sbarcano in Laguna portando negli spettacolari appartamenti del Doge a Palazzo Ducale esclusivi capolavori provenienti dai principali musei delle Fiandre e da alcune collezioni private.
Fino al 1º marzo 2020 la Fondazione Musei Civici di Venezia, assieme alla città di Anversa, VisitFlanders e la Flemish Community, presenta Da Tiziano a Rubens. Capolavori da Anversa ed altre collezioni fiamminghe, una mostra curata da Ben Van Beneden, direttore della Rubenshuis di Anversa.
In questo straordinario percorso si può ammirare anche un’opera di Michaelina Wautier, una pittrice belga dall’eccezionale talento, originaria di Mons e della quale si conosce, ad oggi molto poco. Di questa donna, una delle rare artiste attive nel Seicento, sappiamo che nacque nel 1617 e che morì nel 1689, fu attiva a Bruxelles – dove si stabilì intorno al 1640 con il fratello maggiore, il pittore Charles Wautier, con il quale condivise una splendida villa nei pressi della chiesa di Notre-Dame de la Chapelle – e che vendette quattro delle proprie opere all’arciduca Leopoldo Guglielmo per la sua collezione.
Michaelina è stata un’artista molto diversa dalle altre e della stessa Artemisia Gentileschi. A differenza delle sue colleghe, infatti, questa donna, la cui vita resta avvolta nel mistero, si interessò ad una molteplicità di temi, dai soggetti mitologici ai ritratti, dai paesaggi alle nature morte, dalle teste infantili ai personaggi dai tratti particolarmente marcati e alle scene di vita quotidiana. Mentre Artemisia seguì le impronte del padre, Michaelina seguì quelle del fratello. Non sappiamo se all’epoca in cui visse sia stata famosa, ma quello che è certo è che i soggetti che ritrae sono talvolta personaggi illustri, come ad esempio Martino Martini. E da questo si evince che fu certamente un’artista importante e conosciuta.
In mostra risplende l’opera “ritratto di due fanciulle come Sant’Agnese e Santa Dorotea”
Questo dipinto occupa un posto speciale nell’opera di Michaelina Wautier, per la sua atmosfera intima e i colori vividi. Vi compaiono i ritratti di due fanciulle presentate come sante, un genere noto come portaits historiés. Far posare due ragazze per un dipinto di due giovani martiri era perfettamente in linea col pensiero della Controriforma, che considerava la verginità il valore più alto in assoluto. L’attributo di Sant’Agnese è un agnello, metafora del suo desiderio di prendere in sposo Cristo, l’Agnello di Dio (agnus Dei); la vergine martire Dorotea, invece, è rappresentata con il suo simbolico ramo di palma e il cesto di rose e mele da lei inviato a Teofilo, un pagano che la dileggiava ma che finì per convertirsi ed essere a sua volta martirizzato. Le ragazze stanno una accanto all’altra, ma non si guardano negli occhi. Non guardano nemmeno oltre la cornice del dipinto. La loro espressione malinconica rivela la condizione di un identico destino. Fanno parte di una storia all’interno della quale comunicano senza parole. Michaelina le mostra mentre arrossiscono, per enfatizzare la pudicizia. Di solito la pittrice sceglieva le sue modelle tra le persone che le erano più vicine, quindi è assolutamente plausibile che queste due ragazze fossero sue parenti. Lo spazio scuro è chiuso sul fondo da una tenda dalle ampie pieghe, contro le quali le figure si stagliano splendidamente. Il rosso ha un ruolo speciale nella scena, perché enfatizza il colore del sangue e di conseguenza del martirio delle giovani sante. Una tonalità profonda del drappeggio sullo sfondo è ripresa dalla tovaglia a sinistra in primo piano. Michaelina Wautier dimostra in quest’opera il suo valore di ritrattista, per il modo esperto e convincente con cui cattura sia la fisonomia che la psicologia delle ragazze. Allo stesso tempo, è evidente quanto il suo stile raffinato e spesso morbido contribuisca alla delicatezza della scena.
Maria Paola Forlani

giovedì 5 settembre 2019

DA TIZIANO A RUBENS

 Opere d’arte, testimonianza di un’epoca di fitti scambi culturali. Da Tiziano a Rubens. Capolavori dalle collezioni Fiamminghe a Venezia

Venezia presenta una mostra, ma soprattutto un grande ritorno di tre icone della pittura veneziana realizzate da Tiziano e Tintoretto, raramente concesse in prestito. Accanto ai pittori veneziani, i maestri fiamminghi sbarcano in Laguna portando negli spettacolari appartamenti del Doge a Palazzo Ducale esclusivi capolavori provenienti dai principali musei dalle Fiandre e da alcune collezioni private.
Fino al 1ºmarzo 2020 la Fondazione Musei Civici di Venezia, assieme alla città di Anversa, VisitFlanders e la Flemish Community, presenta Da Tiziano a Rubens. Capolavori da Anversa ed altre collezioni fiamminghe, una mostra curata da Ben Van Beneden, direttore della Rubenshuis di Anversa.
Ma la notizia più attesa è che, accanto ad alcune opere di Rubens, Van Dyck e Michiel Sweerts, la mostra presenta nuovamente a Venezia tre opere raramente concesse in prestito, alcune delle quali sono mostrate al pubblico per la prima volta, in occasione della mostra. Si tratta della Pala d’altare proveniente dall’ex Chiesa di San Geminiano definita dalla stampa internazionale “il Tintoretto di David Bowie”, di Jacopo Pesaro presentato a San Pietro da Papa Alessandro VI di Tiziano e del Ritratto di una Dama e sua figlia sempre di Tiziano (che si pensa ritragga l’amante del pittore e la loro figlia Emilia).
A Venezia si può ammirare anche un’opera di Michaelina Wautier, una pittrice belga dall’eccezionale talento, originaria di Mons, e della quale si conosce, ad oggi, molto poco. A differenza delle sue colleghe, infatti, questa artista si interessò ad una molteplicità di temi, dai soggetti mitologici ai ritratti, dai paesaggi alle nature morte, dalle teste infantili ai personaggi dai tratti particolarmente marcati e alle scene di vita quotidiana. In mostra risplende “Ritratto di due fanciulle come Sant’Agnese e Santa Dorotea”. Questo dipinto occupa un posto speciale nell’opera di Michaelin Wautier, per la sua atmosfera intima e i colori vividi. Vi compaiono i ritratti di due fanciulle presentate come sante, un genere noto come portaits historiés.
Far posare due ragazze  per un dipinto di due giovani martiri era perfettamente in linea col pensiero della Controriforma, che considerava la verginità il valore più alto in assoluto. L’attributo di Sant’Agnese è un agnello, metafora del suo desiderio di prendere in sposo Cristo, l’Agnello di Dio (agnus Dei); la vergine martire Dorotea, invece, è rappresentata con il suo simbolico ramo di palma e il cesto di rose e mele da lei inviato a Teofilo, un pagano che la dileggiava ma che finì per convertirsi ed essere a sua volta martirizzato. Le ragazze stanno una accanto all’altra, ma non si guardano negli occhi. Non guardano nemmeno oltre la cornice del dipinto. La loro espressione malinconica rivela la condizione di un identico destino.
Fanno parte di una storia all’interno della quale comunicano senza parole. Michaelina le mostra mentre arrossiscono, per enfatizzarne la pudicizia. Di solito la pittrice sceglieva le sue modelle tra le persone che le erano più vicine, quindi è assolutamente plausibile che queste due ragazze fossero sue parenti. Lo spazio scuro è chiuso sul fondo da una tenda dalle ampie pieghe, contro la quale le figure si stagliano splendidamente. Il rosso ha un ruolo speciale nella scena, perché enfatizza il colore del sangue e di conseguenza il martirio delle giovani sante. Una tonalità profonda del drappeggio sullo sfondo è ripresa dalla tovaglia a sinistra in primo piano. Mishaelina Wautier dimostra in quest’opera il suo valore come ritrattista, per il modo esperto e convincente con cui cattura sia la fisionomia che la psicologia delle ragazze. Allo stesso tempo, è evidente quanto il suo stile raffinato e spesso morbido contribuisca alla delicatezza della scena.
La mostra – a cura di Ben van Beneden, direttore Rubenshuis, con la direzione scientifica di Gabriella Belli presenta una grande varietà di raffinate opere d’arte, testimonianza di un’epoca di fitti scambi culturali da Venezia e le Fiandre. Tra queste La lamentazione di Cristo di Anthony van Dyck, dal Royal Museum of Arts di Anversa, un Ritratto di giovane donna di Rubens, in prestito da una collezione privata, uno Studio per testa di uomo con barba di Maerten de Vos.
Una sezione speciale è dedicata al compositore fiammingo Adran Willaert, che si stabilì definitivamente nella Serenissima per diventare Maestro di Cappella della Basilica di San Marco nel 1527. Fu  il compositore  Roeselare (Fiandra Occidentale) a fondare la Scuola di Musica Veneziana, frequentata, tra gli altri, da Giovanni Gabrielli e Claudio Monteverdi.
M.P.F.