mercoledì 29 giugno 2016

AMRITA SHER - GIL

L’India scopre Amrita Sher-Gil


Amrita Sher-Gil (30 gennaio 1913 – 5 dicembre 1941) è una pittrice indiana nata da padre del Punjab, Umrao Sing Sher-Gil MaJithaia, aristocratico sikh, fotografo per passione, e da una madre ebrea-ungherese, cantante lirica.

Nota anche come la Frida Kahlo indiana – grazie pure alla riscoperta effettuata in occasione del centenario della nascita – Amrita Sher-Gil è oggi considerata forse la più importante pittrice asiatica del XX secolo, con una influenza pari ai maestri del Bengala, tale da esercitare un ascendente anche su mostri sacri come Syed Haider Raza e Arpita Sing.

Era giovane bellissima e  che (come suggerisce Alfredo Accatino) un film sulla sua vita sarebbe sicuramente vincente, ma anche molto costoso, a iniziare dalle location. Amrita nasce infatti a Budapest, ancora città ricca imperiale, e a otto anni si trasferisce in India.

Ѐ intelligente, vivace e dimostra subito predisposizione per la musica e per il disegno: a soli undici anni viene mandata a studiare pittura a Firenze, poi dopo un breve ritorno in India, si reca a Parigi dove frequenta l’Académie de la Grande Chaumiére e quindi l’Ecole des Beaux-Art.

Negli anni Trenta, tornata a casa, dopo un periodo di sperimentazione e di accademismo formale abbandona finalmente lo “stile europeo”, e a Summer Hill, una piccola città nella periferia di Shimla (capitale dello stato Himachal Pradesh), dove la famiglia risiede, approfondisce la ricerca sulla materia e cerca di creare, anche nei colori, una reale identità indiana.
Sfida, in quei tempi, molto più impegnativa di quanto si potrebbe oggi immaginare. Nascono così una serie di dipinti dedicate alle donne indiane dei villaggi del Sud, che oggi fanno scuola. Non solo Sperimenta forme e cromie fatte di terra e spezie, ma riesce anche a donare alle sue figure femminili espressioni realistiche, ed emozioni, che la pittura indiana non aveva mai esplorato prima. Attenta, anche politicamente, a voler raccontare la vita dei poveri, dei derelitti, dei rappresentanti delle caste umili. La sua non è una fuga intellettuale alla Gauguin, è una presa di coscienza.

Con lei finisce l’orientalismo, e nasce la pittura d’Oriente contemporanea, anche se alcuni suoi dipinti ci appaiono oggi leziosi e un po’ oleografici. Ma ognuno ha un prezzo da pagare quando cerca di cambiare le cose, e traccia nuove strade.
Sposatasi con il cugino Victor Egan, ungherese, un po’ per amore, un po’ per mettere pace in casa, lo tradisce però costantemente con uomini e donne, che spesso usa come modelle. I detrattori la chiamano “gipsy”, la zingara, per le sue origini e la sua volubilità. La nobiltà indiana vorrebbe prenderne le distanze.

Con Victor si trasferisce a Saraya, nell’Uttar Pradesh, regione ai confini con il Nepal, attraversata dal Gange. Non riesce però ad ambientarsi e si sposta ancora una volta, a Lahore, oggi Pakistan.

Ѐ proprio qui, nel 1941, pochi giorni prima dell’apertura della sua prima grande mostra personale, che si ammala gravemente, scivola in coma e muore. La madre accusa il marito di averla uccisa, forse con il veleno. Molti credono (o dicono) che la causa della morte possa essere in realtà un aborto clandestino.
Amrita è morta da poche ore quando l’Inghilterra dichiara guerra all’Ungheria e Victor viene arrestato e messo in prigione come nemico della nazione. Il corpo di Amrita verrà cremato, rendendo impossibile risalire alle cause del decesso. Aveva ventotto anni. Certo la riscoperta di questa figura in qualche modo eccezionale, eccentrica da qualsiasi punto di vista la si prenda, come donna e come artista, la si deve, oggi, al centenario, come al fatto che la National Gallery di Delhi ha, o forse si è resa conto di avere, quasi l’intero corpus delle sue opere.



<< Ma – come afferma Maria Parosino- che l’eco che questa mostra, speriamo permanente, ha avuto su tutti i giornali del paese, compresi quelli delle province più sperdute, abbia anche a che fare con la drammatica attualità che ha assunto oggi la condizione femminile in India, dopo che drammatici fatti di cronaca hanno messo sotto gli occhi di tutti la cotraddizione che c’è tra il ruolo di primo piano assunto dalle donne nelle diverse professioni e la persistenza di una tradizione ancestrale violenta, che vuole spingere indietro, nella zona grigia di un Paese che non riesce a trovare gli strumenti per dirsi davvero al passo con i tempi e democratico>>.






Maria Paola Forlani

lunedì 27 giugno 2016

I PITTORI DELLA LUCE

I pittori della luce.

Dal Divisionismo al Futurismo


Il Mart di Rovereto  ha aperto, fino al 9 ottobre, la mostra I pittori della luce. Dal Divisionismo al Futurismo a cura di Beatrice Avanzi, Musèe d’Orsay; Daniela Ferrari, Mart; Fernando Mazzocca, Università degli Studi di Milano e presenta oltre 80 opere in sei sezioni cronologiche e tematiche: Il Divisionismo tra vero e  simbolo;
 La luce della natura; La declinazione simbolista. Una “pittura di idee”;
La declinazione realista. L’impegno sociale; Verso il futurismo; La pittura futurista.

Come in Francia, anche in Italia, sulla fine del secolo, la conoscenza delle teorie sul colore conduce a una corrente artistica che, analogamente al pointeillsme, sostiene la necessità di non mescolare i colori sulla tavolozza, ma di accostarli direttamente sulla tela, puri, cosicchè la fusione avvenga nella rètina dell’osservatore. Poiché i colori invece che fusi, sono divisi, questa corrente pittorica è detta <<divisionismo>> con un termine che lo stesso Seurat avrebbe preferito a pointillsme, ritenendolo più adatto a esprimere la propria tecnica.

E, analogamente a quanto accade in Francia, il divisionismo si carica spesso di significati simbolici, come riaffermazione dell’intima spiritualità dell’artista contro il verismo e quindi contro i macchiaioli.
Se ne accorse bene Fattori, che ha sempre difeso il verismo, accusando i divisionisti e i simbolisti, fra i quali un gruppo di suoi allievi, di mancare di personalità, perché seguaci di un programma e di fare perciò <<una nuova accademia convenzionale>>, come <<servi umilissimi di Pissaro>>, aggiungendo: <<noi macchiaioli del tempo antico si lottava ma nessuno correva dietro all’altro>>.

Le teorie divisioniste sono state esposte da Gaetano Previati (Ferrara 1852 – Lavagna, Genova, 1920) in alcuni scritti degli inizi del secolo nuovo, ma la corrente era nata da qualche decennio con opere dello stesso Previati, di Segantini e di Morbelli e già Vittore Grubicy de Dragon (Milano, 1851 – ivi, 1920) aveva scritto entusiasta che con questa pittura <<si arrivava a rappresentare la luce, e poiché tutto quello che si vede è luce , si potevano creare delle immagini talmente simili agli aspetti della realtà, da parere prodigi>>, esaltando però al tempo stesso <<il valore soggettivo dell’artificio pittorico>>.

Il divisionismo è un fenomeno principalmente lombardo, secondo una logica continuazione storica della cultura locale che tende, dal Piccio alla <<scapigliatura>>, a scorrere la forma nel pulviscolo atmosferico, in opposizione alla razionale solidità toscana.

Il divisionismo si configura, quindi, non come una filiazione del movimento francese, ma come tendenza autonoma, che condivide con il pointillsme alcuni presupposti tecnici e teorici. Al centro dell’indagine della pittura divisionista c’è la rappresentazione della luce, in particolare dell’ambiente naturale. Liberatasi della tradizione paesaggistica, la pittura divisa trova nell’ambiente una dimensione di unione tra l’uomo e la natura e un tema privilegiato di indagine luministica.

Pur nelle differenze stilistiche e tematiche tra un pittore e l’altro, che in mostra sono sottolineate e poste a confronto, alcune questioni, largamente condivise, emergono con forza. L’interesse per il mondo operaio, per esempio, o la predominanza di opere dedicate a tematiche politiche e sociali, evidenzia un cambiamento di gusto e un’attenzione alle condizioni delle classi più disagiate e alle disparità sociali senza precedenti che permette alla pittura di assumere una dimensione collettiva e politica lontana dal pietismo della pittura di genere dei decenni precedenti.

Dalla forza di questa nuova poetica e sulle sue basi tecniche scaturisce all’inizio del ‘900, il Futurismo. Il maggiore movimento d’avanguardia italiano si sviluppa intorno alle idee del poeta Filippo Tommaso Marinetti che nel febbraio 1909 irrompe sulla scena artistica con il Manifesto Futurista, pubblicato sulla prima pagina de “Le Figaro”.
All’appello aderiscono Umberto Boccioni, Giacomo Balla, Carlo Carrà, Luigi Russolo e Gino Severini che nell’aprile dell’anno successivo firmano il Manifesto tecnico della pittura futurista, in cui proclamano che “non può sussistere pittura senza Divisionismo”, indicando nella comune formazione divisionista il substrato di partenza del movimento.
La scomposizione della luce associata a quella forma e a una vocazione alla rappresentazione del movimento e della velocità della vita moderna proiettano l’arte italiana nel cuore del coevo dibattito artistico europeo. La città industriale in piena crescita, le periferie urbane in espansione, il dinamismo e il progresso sono temi che caratterizzano questa nuova ricerca.

Per rendere questa globalità carica di “significati” e di “moto” nelle arti visive, immobili per costituzione, il futurismo si serve, in pittura, principalmente delle <<linee forza>>; poiché la linea agisce psicologicamente su noi con significato direzionale, essa, collocandosi in varie posizioni, supera la sua essenza di semplice segmento e diventa <<forza>> centrifuga o centripeta, mentre oggetti e colori si sospingono in una catena di <<contrasti simultanei>>, determinando la resa del <<dinamismo universale>>.


MARIA PAOLA FORLANI


sabato 25 giugno 2016

OMAGGIO A GAE AULENTI

Omaggio a Gae Aulenti

La Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli presenta fino al 28 agosto 2016 la mostra
Omaggio a Gae Aulenti, che racconta la vita straordinaria di una delle personalità di maggior rilievo della cultura architettonica italiana del XX secolo attraverso un percorso che tocca le sue opere più significative, strettamente collegate ai luoghi, ai tempi e alle persone che ha incontrato.

Da architetto Gae Aulenti ha sviluppato il suo percorso professionale attraverso il desing, l’architettura, gli allestimenti e la scenografia, costruendo la sua carriera in un costante dialogo tra le arti.

La mostra – a cura di Nina Artioli, nipote di Gae Aulenti – segna le tappe del suo ricco percorso culturale e professionale partendo dal luogo che più di ogni altro può raccontare la sua personalità: la casa studio di Milano, progettata nel 1974. Un testimone a modo suo delle numerose collaborazioni con artisti, registi, amici e intellettuali. Oggi questo luogo così ricco di memorie è la sede dell’Archivio Gae Aulenti, che ci pone come obiettivo la conservazione e la promozione del patrimonio culturale che Gae Aulenti ci ha lasciato.

Il percorso espositivo della mostra, tematico e narrativo al tempo stesso, si sviluppa intorno ad alcune sale che raccontano la versatilità del suo impegno professionale, offrendo un punto di vista più intimo e personale della vita e del lavoro di Gae Aulenti.
A partire dall’Archivio Aulenti, che ha prestato materiali inediti e scatti fotografici privati, si passa attraverso la sala dedicata al Design, dove sono esposti oggetti emblematici come le lampade create per Martinelli Luce, agli allestimenti ideati per privati come la Casa detta ‘del collezionista’ a Milano (1968),
o per mostre come “Italy: The New Domestic Landscape” al Moma di New York nel 1971.
E poi ancora la sala dedicata al Teatro con le scenografie per spettacoli di Luca Ronconi e quella incentrata sui Musei con il Musée d’Orsay

e per Palazzo Grassi, tra gli altri: fino ai grandi progetti d’Architettura come l’Istituto italiano di cultura e Cancelleria dell’Ambasciata italiana a Tokyo (1998-2005)
o riqualificazione di Piazzale Cadorna a Milano (1998-2000).

Gae Aulenti è nata a Palazzolo dello Stella, in provincia di Udine. Si laureò in architettura al Politecnico di Milano nel 1953, dove conseguì l’abilitazione alla professione. Gae Aulenti si forma come architetto nella Milano degli anni cinquanta, dove l’architettura italiana è impegnata in quella ricerca storico culturale di recupero dei valori architettonici del passato e dell’ambiente costruito esistente che confluirà nel movimento Neoliberty. La Aulenti fa parte di questo percorso, che si pone come reazione al razionalismo.

Dal 1955 al 1965 fa parte della redazione di Casabella-Continuità sotto la direzione di Ernesto Nathan Rogers. Sul fronte universitario è assistente prima di Giuseppe Samonà (dal 1960 al 1962) presso la cattedra di composizione Architettonica all’Istituto Universitario di architettura di Venezia, e poco dopo (dal 1964 al 1969) dello stesso Ernesto Nathan Rogers presso la cattedra di composizione Architettonica al Politecnico di Milano.


Nel 1965 è la sua celebre lampada da tavolo Pipistrello, disegnata come site specific
per lo showroom di Olivetti che realizza contestualmente a Parigi. Poco dopo, per la stessa Olivetti disegnerà lo shwroom di Buenos Aires. La collaborazione con la nota azienda produttrice di macchine per scrivere le dà una certa notorietà, tanto che poco dopo Giani Agnelli la chiamerà per affidarle la ristrutturazione del suo appartamento milanese in zona Brera. Tra i due nasce una amicizia che durerà tutta la vita e per gli Agnelli Gae Aulenti concepirà numerosi progetti.

Nel 1972 partecipa alla nota esposizione Italian: the new Domestic Landscape organizzata da Emilio Ambasz al MoMa insieme a numerosi altri designer e architetti emergenti.

Di se stessa usava dire di vedere la sua architettura in stretta relazione e in interconnessione con l’ambiente urbano esistente, che diviene quasi la sua forma generatrice, cercando, con questo, di trasferire nel suo spazio architettonico la molteplicità e l’intensità degli elementi, che vanno a definire l’universo urbano.
Dal 1974 al 1979 è membro del Comitato direttivo della rivista Lotus International,
poi fa esperienze artistiche e dal 1976 al 1978 collabora con Luca Ronconi a Prato al Laboratorio di Progettazione Teatrale. Nel 1979, le viene affidata la direzione artistica della Fontana Arte, con cui aveva già collaborato in passato.



Vengono prodotte lampade e oggetti d’arredo ancora oggi in catalogo.
Ha una lunga relazione con Carlo Ripa di Meana, da cui si allontanerà per la vicinanza a quello che definirà “craxismo deleterio”. Nel 1984 viene nominata corrispondente dell’Accademia  Nazionale di San Luca a Roma, mentre nel 1995 al 1996 è presidente dell’Accademia di belle arti di Brera. Nel 2005 ha costituito la
Gae Aulenti Architetti Associati.


Muore il 31 ottobre 2012 a Milano all’età di 84 anni. Prima della sua scomparsa venne insignita del premio alla carriera consegnatole dalla Triennale.
Il 7 dicembre 2012 viene inaugurata ed intitolata a suo nome la nuova grande piazza circolare al centro del complesso della Unicredit Tower di Milano.
Scrive Gae Aulenti parlando della sua progettazione e realizzazione di un Giardino in Toscana (1970)

Ho disegnato il giardino toscano di Granaiolo nel 1969 e ogni volta che lo visito o ne rivedo una fotografia mi meraviglio che esista. Come è potuto avvenire che delle persone, anche intelligenti, come erano i miei clienti, credessero ai disegni che avevo presentato, tanto da decidere di costruire quel giardino? Come si poteva immaginare la metamorfosi da un forte disegno geometrico, duro e razionale, a un’armonia naturale? Anche per me, che pure ne intuivo la possibilità, era difficile crederci.
L’idea era di seguire il principio della “Land Art”, un’arte che penetra nella terra, che imprime alla terra il segno di un’espressione, senza rinnegare la tradizione del giardino all’italiana”.


Conobbi Gae Aulenti a Ferrara, nella sua piena attività di architetto e consulente per il restauro e per un ampliamento dinamico delle sale del Castello Estense. Una sera, in compagnia di don Franco Patruno e Franco Farina, la portammo a visitare Casa Cini, la casa natale di Vittorio Cini,  lei ne fu incantata e ne vide, con il suo costante entusiasmo, tutte le possibilità di solidarietà ed apertura verso i giovani e la ‘cultura’ ferrarese…Non ha mai saputo, che quel luogo, carico di suggestioni, per lei “magico”
è stato annientato irrimediabilmente…e la magia che lei aveva intravisto è sparita nel travaglio della ‘speculazione edilizia’ che tutto distrugge…anche i sogni dei giovani che la vivevano.



Maria Paola Forlani