lunedì 9 maggio 2016

Imagine

IMAGINE.

Nuove immagini nell’arte italiana 1960-1969


Ѐ possibile ideare una mostra d’arte italiana che interessi “solo” una decina d’anni,
nove per l’esattezza, dal 1960 al 1969, senza per ciò stesso ricorrere a vetuste e inflazionate etichette come Informel, New Dada, Pop Art, Arte programmata, concettuale, povera, ecc.? Con convinzione è quanto suggerisce Luca Massimo Barbero nella scelta della cinquantina di opere che accompagna la mostra Imagine. Nuove immagini nell’arte italiana 1960-1969
 (Venezia, Peggy Guggenheim Collection, fino al 19 settembre 2016).

L’idea di fondo è che convenga partire dalle immagini in se stesse e dalle sperimentazioni che in quegli anni fatidici, specialmente a Roma, ma non solo, gli artisti effettuarono, spesso in solitudine; e comunque solo con forzature filologiche
e contenutistiche riconducibili a definizioni non di rado provenienti da contesti stranieri.

L’<<azzeramento delle neoavanguardie>> avvenne attraverso un progressivo superamento, osserva il curatore, di quella che era stata la cultura dell’Arte concreta ma in particolare del monocromo. Mauri, Lo Savio, Angeli, Festa, Pistoletto, Schifano e così via da tale superamento maturarono un linguaggio della “figura” da intendersi come auroralità, quale germinazione di linguaggi altri: una specie di supercodice, di “idioletto estetico”, avrebbe detto Umberto Eco. Ѐ questo non solo in pittura, ma anche in filosofia e nel cinema – siamo ancora una quindicina d’anni in anticipo sulla rivoluzione del personal computer e sulla possibilità grafica attraverso i monitor analogici.

Si parte da una prima sezione, che potrebbe definirsi della “cancellazione” ma anche dello “schermo”, con opere di Fabio Mauri, Francesco Lo Savio, Mario Schifano, Franco Angeli. L’opera iniziale di Fabio Mauri con cui apre la mostra, Cinema e figura (1960) rappresenta in un certo senso una sorta di icona metaforica, meglio, di “sinopia”, visto che la garza parzialmente cela l’immagine sottostante: laddove, per esempio, i coevi manifesti del cinema strappati di Rotella rimandano a una nozione nostrana di Pop Art.

Roma in quegli anni rappresentava quasi una deuteragonista  della più “industriale” e moderna Milano, interpretata magistralmente dai monocromi di Fontana e dallo spazialismo in generale, con i loro ammiccamenti alla scienza, alla tecnologia, alla televisione: una sorta di voce sotterranea, non meno autentica, che lasciava trapelare il passato come dato che tende ad aggettare dal quadro gridando la propria esistenza. Ѐ il caso, per esempio, di Metallo nero opaco uniforme di Francesco Lo Savio (1960), o ancor più di Monocromo di Schifano (1960), lavoro assai raro ai confini fra la tela e la scultura.

Non meno penetranti le immagini quasi “araldiche” di Francesco Angeli, pure loro velate, quali Testa di lupa capitolina (1960) e Stemma pontificio (1964).
Si passa quindi a capolavori dove si potrebbe dire fiorisce un rapporto nuovo – quasi “postmoderno” – con giacimenti culturali dell’immaginario artistico e urbano di casa nostra.
Vi spiccano lavori giganteschi come La grande odalisca di Tano Festa (1964);
Particolare della nascita di venere di Giosetta Fioroni (1965), che solo assai da lontano dialoga con le Marilyn Monrhol; Nostalgia dell’infinito (Obelisco) di Tano Festa (1963), con un obelisco che ricorda – e credo fosse questa l’intenzione – il principio duchampiano di mettere ironicamente in “scatola” cose di dimensioni ben maggiori; Corpo in moto e in equilibrio di Mario Schifano (1963), che sembra voler asserire la propria contiguità con l’Uomo vitruviano leonardesco delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, ma che rispetto a quello quasi pare “inciampare”, trovarsi spaesato come in un tempo non proprio.

L’idea dell’ “inciampo”, della dissonanza che questi artisti rappresentano almeno secondo la tradizionale loro collocazione, prima ancora come uomini del loro tempo che come artisti, pare proprio essere il leitmotiv che accompagna tutta la mostra.
E restando a Schifano, come non scorgere la sensazione di trovarsi in un posto “altro”, alieno quasi, in un quadro come Central Park East (1964), frutto del suo contatto con New York? Le immagini quasi si solidificano nelle ultime sezioni della mostra, sia perché si assiste all’ingresso della tecnica fotografica, sia nel senso che esse tendono alla tridimensionalità. Penso a opere come l’enorme Mappamondo,
in cartapesta e tondini di ferro di Michelangelo Pistoletto (1965), dove la figura fitomorfa si trasforma in presenza inquietante. Da ricordare da ultimo, l’impressionante White Bed di Domenico Gnoli (1968), specie di letto di contenzione degli Achromes manzoniani purificati attraversi il Cristo morto di Mantegna.

Maria Paola Forlani



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