giovedì 16 luglio 2015

CAGNACCIO DI SAN PIETRO - Il richiamo della nuova oggettività

Cagnaccio di San Pietro

Il richiamo della nuova oggettività

A ventiquattro anni dalla retrospettiva al Museo Correr, Cagnaccio di San Pietro (1897 – 1946) torna a casa: nella sua Venezia e in quel museo – Ca’ Pesaro – dove mosse i primi passi ufficiali della sua carriera, con una mostra dal titolo Cagnaccio di San Pietro. Il richiamo della nuova oggettività, aperta fino al 27 settembre 2015.
Il tributo della Fondazione Musei Civici di Venezia a un grande e ormai internazionalmente riconosciuto campione del Realismo magico e del ritorno alla classicità, tra gli Anni Venti e Trenta, si collega espressamente alla mostra sulla
Neue Sachilichkeit in corso a Museo Correr (Nuova oggettività – arte in Germania al tempo della Repubblica di Weimer 1919 – 1933 fino al 30 agosto), giacchè la visione iperrealista di Cagnaccio di San Pietro è forse tra i principali artifici del suo rilancio, la più apparentabile agli schemi linguistici della Nuova Oggettività tedesca.
Una selezione di capolavori, curata da Dario Biagi con la collaborazione di Elisabetta Barisoni, illustra il ventaglio tematico di questo maestro schivo e appassionato, scomparso prematuramente all’età di quarantanove anni.


In mostra dall’audace nudo di Primo denaro, parte di una “scandalosa” trilogia del 1928, sfilano una potente serie di ritratti di uomini, donne e bambini, tra cui l’inedito
Ritratto di Giuseppina Dalla Pasqua; da alcuni smaglianti esempi di natura morta ai soggetti di carattere religioso e allegorico come La tempesta e La furia che suggellano, sovrapponendosi, l’inizio e la fine della sua intensa parabola.

Ribelle, anticonformista, Cagnaccio di San Pietro, alias Natale Bentivoglio Scarpa (Desenzano sul Garda 1897 – Venezia 1946), segue i corsi di Ettore Tito all’Accademia di Belle Arti a Venezia e, intorno al 1911, il futurismo allora nascente lo sconvolge con la sua portata innovativa profonda e ricca di stimoli. La vicenda drammatica della guerra segna una profonda linea di demarcazione tra un prima e un poi modificando la sua visione del mondo, un’esperienza estrema che investe tutto l’ambiente artistico di quel periodo. Nel 1919 partecipa insieme a Gino Rossi, Casorati, Garbari, Semeghini alla mostra di Ca’ Pesaro a Venezia, esponendo ‘Cronografia musicale’ e ‘Velocità di linee-forza di un paesaggio’, due opere di impronta futurista. Intorno al 1920 comincia a firmare i suoi lavori con il nome di Cagnaccio con cui era conosciuto nella piccola isola di San Pietro. Ma Cagnaccio si sente un autsider e agisce come tale, apprezzato più dai colleghi che dalla critica che, in vita, non lo comprende.


La Tempesta, datata 1920, segna la riconquista della bellezza classica, dopo la giovanile infatuazione futurista e il recupero dei capisaldi della tradizione pittorica, ma anche il suo approdo alla fede – di fronte a un dramma familiare – la riscoperta dei valori umili e semplici dei compaesani di San Pietro in Volta, borgo dell’isola di Pellestrina.

Un ritorno all’ordine che non lo porta tuttavia sul carro del novecentismo sarfattiano, sia per ragioni “ambientali” – in una Venezia che si rifà comunque alla tradizione del colorismo cinque-settecentesco – sia per il rifiuto sistematico di Cagnaccio d’aderire a manifesti e movimenti e, infine, per la sua avversione al fascismo: un avversione viscerale prima ancora che ideologica.

Alla Biennale del ‘28, ove siede in commissione Margherita Sarfatti, propone provocatoriamente l’opera Dopo l’orgia – ovviamente respinta – in cui fustiga la deriva morale del regime. Respinto per soggetto, titolo e dettagli che rivelano, con sfrontata chiarezza (a terra anche i polsini con il fascio littorio), la corruzione del fascismo. Espressione quasi fotografica delle contraddizioni di un potere e di una borghesia che voleva comunicare, sempre e comunque, perbenismo, fede in Dio e nel duce. Qualche anno dopo rifiuta platealmente la tessera del Partito fascista: talora deve fingersi squilibrato e accettare un giorno o due di essere ricoverato a San Servolo, il manicomio di Venezia, per scontare in carcere le sue dichiarazioni anti-regime, oppure si fa ricoverare all’ospedale del Lido.


Certamente a Cagnaccio interessa la realtà, ma sempre mediata, attraversata da quella portata emozionale che, attraverso l’arte può rivelarsi, la coscienza si ritrama ogni volta, assume in se’ il mondo delle cose, si riafferra con costanza in esse, ma nello stesso tempo ne scuote l’evidenza rappresentativa che giunta al culmine del visivo, del rappresentato, si spalanca in un vuoto dove ogni sguardo si smarrisce.

Suoi temi preferiti sono le nature morte, i bambini, il quotidiano, restituito però in chiave straniata e talvolta drammatica, con il rigore di una ricerca sempre estremamente tesa e una lucida, esasperata attenzione per il dettaglio. Cagnaccio di San Pietro un anarchico, un cane sciolto, dimostra di non voler rinunciare all’impegno morale, condito sine qua non di tutto il suo lavoro, sostanzialmente autonomo e spesso eccentrico rispetto all’ambiente artistico del tempo segnato dalla presenza del Novecento. Come già sottolineato l’artista non è formalmente lontano dalla Nuova Oggettività tedesca; in ogni caso Cagnaccio spinge il realismo fino alla sua dimensione più estrema e straniata, non di rado avvalendosi di tagli, rese cromatiche e punti di vista propri del mezzo fotografico.


Nel corso degli anni Trenta Cagnaccio continua ad affinare gli strumenti della sua ricerca, sempre più orientata verso un misticismo e una crescente attenzione per il mondo spirituale.


Nel 1934 realizza naufraghi, una grande tela che verrà esposta alla biennale di Venezia nel 1935, in cui è presente una doppia componete: da una parte una presa diretta sulla realtà e dall’altra la rarefazione della realtà stessa, cifra originale che caratterizza lo stile dell’artista. Tra il 1937 e il 1938 soggiorna a Genova. Tornato a Venezia viene ricoverato tra il 1940 e il 1941 all’ospedale del Mare del Lido: nascono così opere che affrontano direttamente e con lucidità il tema della sofferenza, sempre sottilmente sotteso al suo lavoro.



Maria Paola Forlani


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