sabato 18 febbraio 2017

JHERONIMUS BOSCH a VENEZIA

Jheronimus

Bosch
E Venezia

<<Che cosa significa, o Hieronymus Bosch, /
Il tuo sguardo attonito, che cosa / il pallore del
Tuo volto? Come se tu / avessi visto svolazzare
dinanzi a te i Lemuri, / gli spettri dell’Erebo!
Per te, io credo, si sono / aperti i recessi / di
Dite impenetrabili / e le dimore del Tartaro:
poiché la tua mano / ha saputo dipingere
bene ogni segreto anfratto dell’Averno>>

Domenicus Lampsonius, 1572



Visioni inquietanti, scene convulse, paesaggi allucinati con città incendiate sullo sfondo, mostriciattoli e creature oniriche dalle forme più bizzarre: è questo l’universo di Jeronimus Bosch affascinante ed enigmatico pittore vissuto tra il 1450 circa e il 1516 a ‘s-Hertogenbosch (Boscoducale) in Olanda, ricordato in occasione dei 500 anni dalla morte con due grandi mostre monografiche, rispettivamente nella città natale e al Prado di Madrid.

A questo straordinario artista, Venezia, unica città in Italia a conservare suoi capolavori, dedica a Palazzo Ducale fino al 4 giugno 2017 una mostra, a cura di Bernard Aikema (catalogo Marsilio), di grande fascino per il pubblico e di notevole rilevanza per gli studi, il cui punto focale sono proprio le grandi opere di Bosch custodite in laguna alle Gallerie dell’Accademia – due trittici e quattro tavole – riportate all’antico splendore grazie ad attenti e sapienti restauri.


Fondamentale nella ricostruzione del rapporto di Bosch e Venezia, risulta la testimonianza precocissima di Marcantonio Michiel, conoscitore e critico d’arte, il quale nel 1521, nel descrivere la collezione “lagunare” del Cardinale Domenico Grimani, nomina, accanto a una straordinaria serie di dipinti nord europei, tre opere di Bosch con mostriciattoli, incendi e visioni oniriche: opere che il cardinale alla sua morte, due anni più tardi, lascerà in eredità alla Serenissima Repubblica, insieme ad altre pitture e sculture. Casse piene d’opere rimasero nei sotterranei di Palazzo Ducale fino al 1615, quando un nucleo fu recuperato ed esposto nella residenza dogale.
I restauri effettuati mostrano come due delle tre opere conservate a Venezia – La santa Liberata e inferno e Paradiso –fossero inizialmente destinate a committenze nordeuropee, modificate in seguito per adeguarsi a una raffinata clientela italiana e a un nuovo destinatario: probabilmente proprio il patrizio veneziano Domenico Grimani, cardinale e figlio di Antonio, il 76esimo Doge di Venezia.

La mostra si sofferma sulla figura di Domenico – effigiato in un tondo di Palma il Giovane insieme al nipote Marino e nella bellissima medaglia realizzata dal Camelio – e sui suoi interessi collezionistici, con opere di grande suggestione come alcune statue greche appartenute alla raccolta del nobile veneziano e soprattutto la placchetta  argentea con la  Flagellazione di Cristo – capolavoro del Moderno commissionato dal cardinale (Kunsthistoriches di Vienna) – e l’eccezionale Breviario Grimani con le sue 110 miniature (1515- 1520 c.), probabilmente il più bello e il più importante tra i manoscritti miniati prodotti nelle Fiandre durante l’estrema fioritura dell’ars illuminandi, in un tempo in cui i libri a stampa erano ormai accessibili e le opere manoscritte una rarità.


Quindi, la tematica del sogno, cara all’entourage di Domenico Grimani.
Personalità di elevata statura e di svariati interessi, dalla filosofia alla teologia, amante della scultura greca antica, di Tiziano, di Raffaello e di Leonardo da Vinci, il cardinale era attratto infatti anche dall’arte delle Fiandre e soprattutto interessato fortemente a quelle visioni oniriche immaginate negli ambienti colti della Venezia dell’epoca.
Il tema del sogno ricorre nel famoso romanzo-visione pubblicato nel 1500 a Venezia da Aldo Manuzio Hypnerotomachia Poliphili e nell’incisione Il Sogno (1506-1507) di Marcantonio Raimondi – tratta forse da un perduto dipinto di Giorgione – con due donne svestite dormienti e vari mostriciattoli.


Secondo il curatore della mostra Bernard Aikema, le immagini oniriche di demoni e mostri in questi casi non deriverebbero da Bosch – Riflettendo semmai il fascino esercitato dalle stampe tedesche di Dȕrer, Martin Schongauer e Luca Cranach il Vecchio, tutti in mostra – ma viceversa la presenze di Bosch in laguna sarebbe la conseguenza di una precisa “moda”, di un interesse già diffuso negli ambienti intellettuali, basti guardare ai piccoli bronzi di soggetto mostruoso e fantastico che decoravano gli studioli del tempo come il calamaio in forma di mostro marino di Severo da Calzetta (1510-1530), attivo nel VI secolo a Padova alla Basilica del Santo,
o come il Satiro seduto che beve di Andrea Briosco detto il Riccio.



Così come lo stesso Bosch e molti altri artisti d’oltralpe avrebbero attinto certi personaggi “surreali” dalle grottesche caricature di Leonardo (in mostra anche alcuni bellissimi fogli del corpus grafico leonardesco, realizzati probabilmente da Francesco Melzi, dal Gabinetto dei Disegni e Stampe della Galleria dell’Accademia).



Grimani dunque consapevolmente ricerca opere fiamminghe; consapevolmente vuole Bosch, con le sue panoramiche notturne da incubo e le sue creature mostruose ma anche le sue ambiguità e stranezze; e le vuole – vero principe rinascimentale – per ragioni estetiche, per farne il pretesto di una discussione erudita, l’occasione di un confronto intellettuale come momento di diletto e di formazione per il suo “cenacolo”, così come avveniva con le opere giovanili di Lotto, Tiziano e soprattutto Giorgione.
Trova dunque un itinerario importante con le Fiandre negli ambienti ebraici che frequentava, vicino com’era al sincretismo di Giovanni Pico, tra speculazioni neoplatoniche e cultura giudaica.

In particolare, tra i principali contatti ebraici vi era il suo medico personale Meir de Balmes che, che a sua volta, manteneva stretti rapporti con il più importante editore di libri in ebraico, poliedrico uomo d’affari, con spiccato interesse per le arti figurative, Daniel van Bomberghen, stabilitosi a Venezia intorno il 1515.


Bamberghen sarebbe stato il tramite per gli acquisti neerlandesi del cardinale, con il nipote Cornelis De Renialme, che risulta aver gestito le trattative per le opere rimaste in bottega di s’-Hertogenbosch dopo la morte del pittore, nel 1516.
In mostra, un’infilata di anonimi seguaci del grande artista presenti in laguna ci dà conto della nascita di un mito; così come la diffusione dei motivi boschiani anche nella grafica. Con l’enorme tela di Jacob Isaacz van Swanenburgh si ha la percezione della apoteosi seicentesca di Bosch in patria, mentre nella città dei Dogi sarà Joseph Heintz il Giovane a far rivivere con i suoi “stregozzi” l’universo cupo e onirico, le creature deformi e grottesche di Bosch, in perfetta sintonia con il clima negromantico e gli interessi di molti esponenti dell’Accademia degli Incogniti.

Ma i tempi ormai erano cambianti. Ora questa pittura è puro estetismo, di effetto: non ci sono più messaggi da ricercare e capire, non più retaggi religiosi o morali; la dimensione del sogno lascia il posto al manierismo e alla meraviglia del barocco.


Maria Paola Forlani  

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