lunedì 14 maggio 2018

Palazzo Grassi, Punta della Dogana


Dancing with myself

Punta della Dogana


La rassegna Dancing with myself, aperta fino al 16 dicembre a Punta della Dogana, nelle intenzioni dei curatori Martin Béthenod e Florian Ebner vuole riconsiderare il genere dell’autoritratto, ritenendolo ora rappresentazione di sé, trasversale a ogni pratica estetica, in cui l’immagine stessa dell’artista non è più soggetto dell’opera ma strumento di sfide sociali, identitarie, politiche, sessuali. Una mostra che si fa forte non solo della vasta e aggiornata collezione Pinault, ma anche di prestiti del Museum Folkwang di Essen con cui ha condiviso il compcept espositivo.

Crisi d’identità. La forza della mostra sta tutta nel tentativo di sviluppare un tema specifico contando sostanzialmente sulle caratteristiche interne di due collezioni museali di sé cospicue e articolate (quella della collezione Pinault e del Museum Folkwang di Essen), che hanno lavorato in tandem senza perciò dover giustificare l’apparente mancanza di alcuni artisti (si pensi a Luigi Ontani, Carolee Schneemann, Roman Opalka, Marina Abramovič, Francis Bacon, perfino a Marcel Douchamp, il cui posto è adeguatamente occupato dalla surrealista Claude Cahun) che hanno quasi esclusivamente lavorato su temi analoghi, quali la rappresentazione fluida, molteplice, alienata e multiforme del sé as an artist. In fin dei conti la poetica del travestitismo, dell’ambiguità sessuale e della molteplicazione dell’Io è splendidamente rappresentata in mostra da Cindy Sherman, Roni Horn, Urs Lüthi e Marcel Bascoulard.
Un progetto espositivo per lo più incentrato su fotografie, “debole” nel senso di un pensiero postmoderno e quindi proprio per questo, dalle sue cuciture non forzatamente o ideologicamente rifinite, emerge una verità essenziale degli anni Settanta in poi (questo è infatti il periodo cronologico più pregnante e significativo, a partire da Bruce Nauman e Arnulf Rainer) è la definizione stessa di artista a essere entrata in crisi.
I racconti fotografici di Cindy Sherman, che senza dubbio appare come uno snodo centrale  per numero di lavori e loro pregnanza, dicono oggi in tal senso molto di più di quello che probabilmente era intuibile a partire dalla metà degli anni Settanta: l’artista, in questo caso donna, con la sua opera attua fin da allora una strategia di recupero di sé, adattamento ai processi di falsificazione, alienazione e ibridazione dei generi che hanno caratterizzato l’epoca poststorica quale la nostra e di cui sono stati sintomi.
Se però celebri serie fotografiche come Murder mystery people, Untitled film still o le più recenti Untitled sono in buona parte già viste e conosciute, il video del 1975 Doll clothes si presenta come un fondamentale e piccolo capolavoro post-strutturalista e di gender.


Fotografia e Ready-made. Ė da qui forse che si deve partire per capire l’ampio uso in mostra di fotografie e di video? Del resto è proprio il mezzo tecnologico e meccanico che rende il sé estraneo a se stesso, una sorta di ready-made, un oggetto già esistente che può essere inquadrato, messo in posa da altri o dallo stesso autore che si pone di fronte al proprio sguardo con occhio estraneo. Nel caso di Rono Horn (New York, 1955) il sospetto diventa certezza: dell’artista americana si presenta una serie di trenta ritratti fotografici (intitolati a.k.a, ovvero also known as) scattati da bambina fino all’età adulta, molti dei quali evidentemente, se non tutti, non realizzati da lei ma da amici e familiari: un’opera ricomposta e assemblata quasi per riappropriarsi di sé nel caso di rappresentazioni fatte da altri.

Un io frammentario. Il solipsismo delle azioni inutili e circolari di Bruce Nauman (Fort Wayne, Indiana, 1941), il corpo fotografico frammentato di John Coplans (Londra 1920 – New York, 2003), la personificazione di Marcel Bascoulard (artista francese boder line, nato a Vallenay nel 1913 e assassinato nel 1978) negli abiti di un noto travestito senzatetto di Bouges, il degrado e la povertà degli scatti documentaristici dell’americana La Toya Ruby Frazier (Braddock, Pennsylvenia, 1982), che intende le sue immagini come performance politica e autobiografica, formano un immaginario impossibile da ricondurre a una linea coerente e unitaria, proprio perché la personalità e l’identità contemporanea sembrano essere saltate per aria in maniera irrimediabile, a volte drammatica come avviene in Nan Goldin (Washington, 1953), ritratta livida per i maltrattamenti ricevuti dal proprio partner, oppure orrida, come nel celebre With dead head del 1991 che inquadra Damien Hirst (Bristol, 1965) all’età di sedici anni che in un obitorio posa sorridente al fianco della testa mozza di un cadavere.


Il corpo come scultura. In Dancing with myself non sembra esserci via di uscita da una sorta di caduta del soggetto in vicoli ciechi, autolesionisti, malinconici, narcisisti e perfino catatonici, come nel video Path free del 1995 di David Hammons (Springfield, 1943) che prende a calci un secchio per le strade di New York (“calciare il secchio” significa in inglese morire). L’unica a danzare letteralmente è la francese Lili Reynaud-Dewar (La Rochelle, 1975) che, nuda e dipinta di nero, balla dentro le sale del Centre Pompidou e dell’atelier di Brancusi, ma il suo danzare è monologante, privo del minimo eros o di qualsiasi slancio dionisiaco: piuttosto siamo al limite di un ossessiva e disturbata isteria.
La ricerca artistica avviata negli anni Settanta sul tema dell’identità e della trasformazione del sé sembra non solo anticipare ciò che faranno più tardi con intenzione umoristica artisti come Maurizio Catalan (nato a Padova nel 1960), presente con We del 2010, un doppio autoritratto in scala sul letto di morte a imitazione di un’opera di Gilbert & George) o perturbante come nel caso di Robert Gober (Wallingford, Connecticut, 1954) con i suoi pezzi anatomici di inizio anni Novanta straordinariamente realistici, ma già esaurirne ogni sviluppo.

Appunto basterebbe osservare quanto tra 1974 e il 1976 Gilbert
&Giorge nella serie Cherry blossom, Dead boards abbiano non solo articolato la questione dell’identità doppia e omossessuale, ma anche il corpo come scultura e come icona della banalità, al cui confronto i monumentali autoritratti di Rudolf Stingel (Merano, 1956) realizzati tra il 2006 e il 2007 sembrano rifarsi nostalgicamente, per pixelatura, riduzione stilistica e impostazione frontale, ai dipinti fotografici e iperealisti americani degli anni Settanta.
La mostra si apre con una grande tenda di perline colorate di Felix Gonzàles-Torres (Guàmanro, 1957 – Miami, 1996), ispirate a globuli bianchi e rossi alludenti all’organismo colpito dall’Aids, come anche quello di Martin Kippenberger (Dortmund, 1953 – Vienna, 1977), che si ritrae di spalle o si fa ritrarre come fosse un manifesto pubblicitario.
Al di là delle perline si intravedono le candele della scultura in cera di Urs Fischer (Zurigo, 1973) che consumano lentamente l’autoritratto a figura intera seduto a un tavolino, mentre in lontananza un altro artista osserva la scena: Alighiero Boetti (Torino 1940 –Roma 1994) che nella fontana in bronzo del 1994, a sua immagine e somiglianza, raffredda con un tubo di acqua la testa fumante per via del tumore che lo porterà di lì a poco alla morte. Malattia, morte, sparizione, temi definitivi trattati con ironia, levità, senso ludico, a edulcorare ed esorcizzare sofferenza e dolore, tragedia e paura.

Corpo inerte. L’arte contemporanea per come si presenta nella mostra di Punta della Dogana non sembra voler proporre una immagine positiva di ciò che significa o ha significato negli ultimi cinquanta anni essere artista; non sembra volerne tratteggiare una del tutto negativa, con tante opere che non si fanno prendere troppo sul serio (ad esempio il bronzo incrostato di Damien Hirst, residuo della precedente mostra Treasures from the umbelivable), né una naturale (la violenza esplicita e gratuita delle immagini del francoalgerino Adel Abdessemed).

E dunque? Non c’è nessuna soluzione, nessuna risposta, piuttosto una riduzione del corpo dell’artista a “materia prima” (come afferma uno dei curatori in catalogo), materia grezza, anzi un corpo inerte che ha esautorato, digerito, decostruito ogni possibile tipologia identitaria proprio col rimetterla continuamente in gioco, travestendola e camuffandola, finendo però per dimenticare che la questione dell’identità, pur estremamente fluida, comunque la si metta, tornerà sempre a pretendere il suo posto fisso a tavola.

Maria Paola Forlani




Nessun commento:

Posta un commento