sabato 1 settembre 2018

THAT'S IT


That’s IT !


Si è aperta al Mambo di Bologna la mostra That’s IT!
Un approccio innovativo, identitario e ipercontemporaneo: così si presenta la nuova mostra a cura del nuovo direttore Lorenzo Balbi.

Si tratta di una rassegna non esaustiva dell’arte italiana contemporanea, prodotta da una generazione che coincide con quella del direttore-curatore (nato nel 1982), ovvero (a parte qualche nato /  all’inizio del Novanta) “anni Ottanta”, espressione che potrebbe fare da sottotesto alla mostra. La quale a sua volta ha per sottotitolo Sull’ultima generazione di artisti in Italia e a un metro e ottanta dal confine in cui è contenuta la citazione da una poesia di Bruno Munari del 1971, che si apriva con le parole: “In Italia l’arte ha da essere italiana”.

That’s IT! È dunque una mostra sull’ultima arte italiana (L’IT del titolo è l’indentificativo dell’Italia nel codice UE), dove però, non tutta l’arte italiana ovviamente è rappresentata (gli artisti non provengono da ogni regione, non ci sono quote rosa o altre imposizioni par condicio da rispettare). Perché non può e non vuole essere una mostra sulle pari opportunità, ma piuttosto su quello che il curatore stesso definisce “uno Jus soli artistico” (in esposizione scatti del reporter Michele Sibiloni che “non sapeva di essere un artista”, come ha dichiarato lo stesso Balbi). Una mostra insomma riflessiva, propositiva e di apertura al dialogo, anche alle contraddizioni che essa stessa mette bene in vista.
A partire dal concetto stesso di identità italiana, annunciato nel titolo ma subito messo in dubbio in catalogo: “In un mondo globalizzato e in una società fluida, in cui il concetto di nazionalità si interseca a quello di appartenenza linguistica, etnica, religiosa, formativa, culturale e sociale, cosa può ancora identificare un artista o il suo lavoro come italiano? Ė italiano un artista che nato in Italia, ha studiato e vive da sempre all’estero?

Domande cui non possiamo che darsi risposte divergenti e imprecise. Alcuni degli artisti sono infatti nati in Kossovo o in Germania, altri si sono diplomati al Goldmith, alla Slade School o al Royal Colege di Londra, qualcun altro / a vivere tra Amsterdam, Atene, Berlino, Tokyo, Londra, New York, perfino in Uganda. Per il resto spiccano soprattutto artisti e artiste (la più giovane è Guandalina Cerruti, nata nel 1992) diplomata allo Iuav di Venezia, alla Naba di Milano, presso le accademie di belle arti di Bologna, Napoli, Venezia, Catania o laureati al Politecnico di Milano, Ca’ Foscari di Venezia, La Sapienza di Roma. Di qui il senso di una geografia, interna alla mostra, sbilanciata al Nord e con presenze femminili minoritarie, ma forse anche questo è il segno dei tempi!

Fruibile a triplice livello (come esposizione in senso tradizionale, come originale catalogo-opera ideato su misura e come profilo Instagram aggiornato dagli stessi artisti), That’s IT! Richiede un approccio da parte di un pubblico non statico, composto di fruitori dinamici e mutevoli, sui quali si ritagliano sempre più l’opera e il concept di esposizioni sull’attualità: non si fa in tempo ad aprire la porta del museo che già si è dentro la mostra senza sapere di esservi dentro, accolti da una delle varie installazioni sonore e immateriali (tra cui quelle di Diego Marcon e di Francesco Fonassi).
Da una parte opere diffuse nello spazio e negli spazi d’uso del museo, come le scale o la sala didattica (dove i tavoli di Adelita Husni-Bey sembrano negarsi come opera per farsi oggetto), dall’altra la grande sala delle Ciminiere liberata di vecchie superfetazioni e coperture, che torna a guardare la strada e a essere da essa guardata e che è stata riportata a nudo mostrando la sua bella architettura industriale (lo spazio era in origine un forno che produceva pane a prezzi calmierati durante la Prima guerra mondiale), in cui artisti come Benni Bosetto hanno messo in dialogo finte vetrate cloisonnè in tessuto acrilico e altri, come il collettivo Inverno-muto, hanno installato una proiezione su schermo mostrando aspetti di una cultura suburbana innalzata come una pala d’altare laica.

La mostra in sé è uno spaccato critico dell’arte italiana, nel senso che la criticità è insita nei linguaggi degli artisti italiani (e non), che non hanno più lingue e dialetti comuni o coerenti su cui formarsi. La nostra epoca è precaria in senso endemico, potremmo dire alla nascita, e i linguaggi non devono solo ricalibrarsi, ma confrontarsi con la distruzione stessa del concetto di identità e appartenenza. In tutto ciò il direttore non è stato curatore fino al punto di decidere anche quali opere esporre, lasciando questa scelta agli artisti, selezionati da un archivio personale di circa 450.
E se pittura se ne vede poca (Ian Tweedy, Julia Frank o i disegni psicotici di Alberto Tadiello) e di scultura ancora meno (ma interessanti le false sculture urbane di Ludovica Carbotta o i monumenti a scala umana di Alice Ronchi), è perché le opere vogliono parlare del nostro tempo nel suo farsi presente e indefinito, come testimoniano i mosaici di foto prese da Google Stret View di Emilio Vavarella, il videogame PES di The Cool Couple o l’arazzo di Angelo Licciardello & Francesco Tagliavia, su cui si ritrae la disperazione dei calciatori italiani dopo la partita contro la Svezia che li ha eliminati dai Mondiali di Russia 2018: una storia senza dubbio poco memorabile, ma comunque sentita e partecipata come se lo fosse.

Non emergono forse opere o artisti fuoriclasse e forti, ma tutto sembra concepito come un coro a più voci, anche dissonanti, isolate, borderline (il lavoro di Giulio Squillacciotti utilizza gli schizzi di un internato del manicomio di Collegno), quasi a formare un incerto mosaico di diversità non conciliabili e intessute tra di loro in modo precario, perché precaria è l’esistenza di questa generazione, legata al momento, al luogo, all’occasione e non appunto a una visione storica (piuttosto all’archivio impersonale, come nel caso di Lia Cecchin, che basa la propria poetica dada commissionando e raccogliendo testi di altri scrittori).

L’identità è una sostanza certamente difficile da delineare nella nostra epoca, pur se rimane sempre possibile scegliere se rovistare tra le proprie radici ( il Kosovaro Patrit Halilaj realizza cassette di legno con disegni di fragili farfalle della sua infanzia) e proporne una nuova identità, oppure affidarsi ai flussi della contemporaneità disidentificandosi (la pittura del triestino Andrea Kvas si nega nel suo farsi molteplice, polimaterica e componibile). That’s IT!: tutto qui.





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