venerdì 24 aprile 2015

CINEMA e LETTERATURA

CINEMA E LETTERATURA: INCONTRI E SCONTRI

Quando la settima arte cominciò a muovere i primi passi letteratura e teatro erano immediata fonte di ispirazione, ma ben presto ci si rese conto dell'impossibilità di far coincidere due diverse forme di linguaggio: il prodotto visivo non potrà mai sostituire il testo scritto


"Questo era il mio scopo: realizzare l'equivalente di una lettura, lasciare allo spettatore altrettanta libertà e immaginazione di quanta ne ha un lettore di romanzi. Che intorno all'immagine, dietro l'immagine e perfino all'interno dell'immagine egli possa lasciar andare la sua immaginazione, pur subendo la fascinazione dello schermo". Così scriveva uno dei padri della "Nouvelle Vague" Alain Resnais  a commento del suo ormai classico "Hiroshima mon amour".  Ai tempi di Resnais, cioè tra gli anni Cinquanta e i primi Sessanta, era preponderante una letteratura che prese il nome di "Ecole du regard" e che era il frutto delle ricerche critiche di Alain Robbe-Grillet.  In termini semplici: si cercava di far coincidere il cinema con la letteratura. Il cinema, cioè, doveva essere pensato come una pagina visiva in perfetta consequenzialità con la struttura narrativa della pagina scritta. E questa, la pagina scritta, doveva avere la capacità di evocare l'immagine schermica. Non fu un esperimento completamente riuscito, anche se Resnais, da fine autore com'era, compose le sue scritture cinematografiche con estrema finezza anche se con un forte ed esasperato estetismo. Già dai primi passi della settima arte, la letteratura ed il teatro erano immediata fonte di ispirazione, anche perché la ricerca teorica e la prassi estetica non avevano ancora pienamente intuito l'autonomia poetica del film. Quando un grande regista come Ejzenstejn provò "sul campo" l'efficacia del montaggio, il film si organizzò secondo  forme narrative tipicamente cinematografiche. Negli stessi anni, un altro grande come Pudovkin, in polemica con il confatello russo, cercò di dimostrare che l'inquadratura, soprattutto nel primo e primissimo piano, esprimeva ciò che nessuna pagina scritta poteva evidentemente mostrare. Avevano ragione entrambi, anche se in quel contesto avevano estremizzato le loro tesi. Eppure, tra cinema e letteratura gli steccati divisori non potevano essere alzati. Esemplifico. Quando Luchino Visconti, che era anche un bravissimo regista teatrale, tentò con "Ossessione" la trasposizione filmica de "Il postino suona sempre due volte" dal romanzo, a dire il vero dozzinale, di James Cain, riuscì, isolando la trama del romanzo dal contesto americano, a costruire una sorta di neorealistica vicenda padana tra gli argini del Po. Lo stesso Visconti con "La terra trema", sconcertante e lucido appello ad un verismo di forte matrice classica, rese l'atmosfera de "I Malavoglia" di Giovanni Verga" in modo quasi speculare. Non fu, chiaramente, una riproduzione, ma un'interpretazione del verismo verghiano come base per un rinnovato realismo.  Non fu, però, un' illustrazione. Mi spiego: l'ilustrazione (come di prassi in film pacchiani ispirati alla Bibbia che  innonderanno schermi e teleschermi) quando è intesa in pura funzione della pagina scritta, perde ogni forza ed energia cinematografica. Visconti rifece a modo suo "I Malavoglia" e, come nel caso dello splendido "Il gattopardo", ispirato al romanzo di Giuseppe Tommasi di Lampedusa, ricostruì un mondo, un'epoca e un'atmosfera che solo il linguaggio cinematografico poteva efficacemente ricreare. Volle, intelligentemente, che si parlasse di "liberamente ispirato a…" piuttosto che "tratto da…". Non è solo formalismo terminologico. Certo, quando la collaborazione tra regista e romanziere era ed è tuttora stretta, la sceneggiatura diventa letteraria. Alcuni romanzi sembrano impenetrabili ad ogni "transcodificazione". Il parolone va spiegato, anche se è di una semplicità estrema: si tratta di un passaggio da un codice (romanzo o opera teatrale) ad un altro (il linguaggio cinematografico). Credo che non sia mai possibile una vera transcodificazione; se ciò non fosse, si potrebbe parlare, ed è il caso di alcuni film intenzionalmente religiosi, di Bibbia "transcodificata"; che è, appunto, un assurdo. Roberto Rossellini aveva avvertito  tale impossibilità quando, nella sua ultima esperienza televisiva, fu protagonista di una felice stagione di  modalità interpretative che non sostituisse il testo scritto. Il regista pensava ad un "rimando" costante al testo scritto, come nel caso de "Il Messia" e de "Gli Atti degli apostoli". Per ottenere l'effetto di uno stimolo alla lettura, schematizzò l'interpretazione dei personaggi pur nell'estrema fedeltà storica ed archeologica alle situazioni bibliche. Schematizzare, per Rossellini, significava non far recitare in modo mimetico, cioè di perfetta identificazione psicologica con i personaggi del testo scritto, diversamente dal modello della scuola di recitazione dell' Actor Studio statunitense. Tale scuola prevedeva un rivissuto esistenziale di ogni piega psicofisica del personaggio. Si pensi, ad esempio, alla recitazione di Marlon Brando in "Fronte del Porto" o di Robert De Niro in "Toro scatenato", tratto dal libro autobiografico del pugile Jack la Motta. Evidentemente, non si trattava di sottovalutare tale eccezionale officina interpretativa, perfettamente funzionale in certo cinema a forti connotati realistici, ma ipotizzare una "distanza" dall'evento Rossellini che, nel caso di audiovisivi ispirati alla Bibbia, suscitasse durante e dopo la visione la lettura del testo che aveva ispirato il film o lo sceneggiato.  In altri termini, la tesi era questa: non si deve creare l'effetto del "dare tutto" sullo schermo o sul video. Il prodotto visivo, dunque, non deve sostituire il testo scritto Richiamare Rossellini non è accedere a nostalgie archeologizzanti. Purtroppo, anche molti cattolici sistematicamente disattendono la serietà di questa tradizone, spesso mossi da un'infelice presupposto: che, vista l'efficacia dell'immagine, la funzione d'immediatezza basti a se stessa. Credo che tale infelice disposizione d'animo, frutto di carenza teologica e di una concezione meschina dello spettatore, abbia alla radice la convinzione che il prodotto di facile consumo sia un dato ormai irreversibile. Purtroppo, una delle ragioni portate è quella della competitività. Quasi a dire: se va quel prodotto, perché fare gli estetizzanti? Un serio recupero dei più significativi colloqui tra letteratura e cinema, mostrerebbe la povertà di tale angusta prospettiva. Quando, ad esempio, si volessero rispolverare certe intelligenti ispirazioni televisive ai grandi della letteratura russa, ci si accorgerebbe che proprio nel periodo della loro realizzazione anche le famiglie meno scolarizzate acquistarono i vecchi classici della BUR. Certo, se la nostalgia porta alla malinconia dell'immobilità, l'euforia dell'effimero uccide l'entusiasmo per la lettura.


4-11-2001             Franco Patruno  

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