lunedì 6 aprile 2015

PIERO della FRANCESCA

Piero Della Francesca.


Il disegno tra arte e scienza.


Piero di Benedetto dei Franceschi, comunemente detto della Francesca dal nome della famiglia (Borgo San Sepolcro, Arezzo, 1410 – 20 ivi, 1422), è il pittore che riesce nella sintesi delle principali esperienze fin qui compiute a Firenze, conducendone i risultati, con rigorosa coerenza, fino alle estreme conseguenze.

Piero nato a Borgo San Sepolcro, cittadina situata all’estremità della Toscana, al confine con l’Emilia a nord, con le Marche ed est, con l’Umbria a sud. Da Borgo, seguendo la valle del Tevere, è facile e naturale lo sbarco a Perugina, dove può aver incontrato Domenico Veneziano. E con lui (forse) recatosi a Firenze per un periodo abbastanza prolungato. Nel capoluogo toscano ha potuto meditare sulla solenne volumetria e sulla dignità degli uomini di Masaccio, sui valori della prospettiva lineare brunelleschiana, sulla teorizzazione che di essa aveva compiuto l’Alberti, sull’astratta solitudine delle geometriche figure di Paolo Uccello e, infine, sulla luce diffusa dell’Angelico.

Quando, poco dopo il ’40, lascia Firenze per non tornarvi più, porta con sé il grande patrimonio culturale fiorentino, quel patrimonio che, proprio nel 1439, si apriva a nuove conoscenze per la presenza in città dei dotti greci venuti per partecipare, con lo stesso imperatore d’Oriente, al Concilio promosso dal papa Eugenio IV.
Questo patrimonio culturale Piero lo elabora solidariamente (lontano dalle polemiche fiorentine), giungendo alla dimostrazione pittorica della <<verità>> nella sua duplice applicazione visiva: la prospettiva e la proporzione.

Intorno al maestro di San Sepolcro si è aperta una mostra a Reggio Emila, nella sede di Palazzo Magnani, fino al 14 giugno 2015 dal titolo Piero Della Francesca. Il disegno tra arte e scienza, a cura di Filino Camerata, Francesco Paolo Di Teodoro e Luigi Grasselli. Il suo linguaggio espressivo che coniuga, magicamente in equilibrio perfetto, la plasticità e la monumentalità di Giotto e Masaccio con una straordinaria capacità di astrazione e sospensione.
Un’essenzialità e purezza di forme che trovano fondamento nei suoi interessi matematici e geometrici mirabilmente espressi nei trattati che ci ha lasciato. Ed è proprio su questi preziosi testimoni dell’opera scritto-grafica di Piero in specie sul De Prospectiva Pingendi, che prende corpo la mostra di Palazzo Magnani, presentando la figura del grande Maestro di San Sepolcro nella sua doppia veste di disegnatore e grande matematico. Per la prima volta sono esposte a Palazzo Magnani – fatto straordinario  da mezzo millennio – l’intero corpus grafico e teorico di Piero della Francesca:

i sette esemplari, tra latino e volgare del De Prospectiva Pingendi
(conservati a Bordeaux, Londra, Milano, Parigi, Parma, Reggio Emilia) i due codici dell’Abaco (Firenze), il Libellus de quinque corporibus regularibus (Città del Vaticano) e Archimede (Firenze).
La mostra che si articola intorno al codice del De prospectiva pingendi conservato alla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, uno dei più importanti testimoni della fondamentale opera prospettica di Piero della Francesca. Oltre a due pagine autografe, al pari di gran parte delle correzioni, il codice contiene numerosi disegni, tutti di mano dell’artista; circostanza, questa, che lo rende particolarmente prezioso.
Infatti, dei sette testimoni del trattato giunti a noi (tra latini e volgari), solo quattro recano illustrazioni di mano di Piero. Linee sottilissime che ricordano la mitica abilità di Apelle solcano le pagine del codice per illustrare scrupolosamente l’altrettanto puntuale descrizione testuale dei metodi del disegno prospettico.
Da qui, di fatto, inizia la grande esperienza prospettica rinascimentale e, parallelamente, prende corpo la teoria geometrica della prospettiva che, rendendosi pienamente autonoma dalla pittura, nei secoli successivi diventerà oggetto della pura speculazione matematica (geometria proiettiva).
Il codice ispirò l’opera di grandi artisti e teorici della prospettiva almeno fino a metà del Cinquecento, quando la diffusione delle opere a stampa cominciò a oscurare i testi noti attraverso la tradizione manoscritta, Albert Dürer dimostra in più luoghi della sua opera trattatistica la conoscenza degli scritti di Piero, e Daniele Barbaro compilò gran parte del suo celebre trattato prospettico seguendo il De prospectiva pingendi. Ancora nel tardo Cinquecento, il matematico Egnazio Danti indicava Piero come il primo che seppe illustrare in modo impeccabile le regole del disegno prospettico, ricordando il suo celebre trattato composto di “tre libri scritti à mano, eccellentissimamente disegnati”. I cosiddetti “maestri della prospettiva”, ossia gli intarsiatori, fondarono la propria arte sul repertorio di temi e di immagini contenuto nel trattato e l’amicizia fraterna che legava Piero ai fratelli

Lorenzo e Cristoforo Canozi da Lendinara, intarsiatori per eccellenza, fu degna della menzione di Luca Paccioli.
Le opere presenti in mostra – un centinaio tra dipinti, disegni, manoscritti, opere a stampa, incisioni, sculture tarsie, maioliche e medaglie – accompagnano il visitatore in un percorso che segue a grandi linee le tematiche affrontate nei capitoli del
De Prospectiva Pingendi.
Si inizia dai principi geometrici e si prosegue con le figure piane, i corpi geometrici, l’architettura, la proiezione delle ombre e l’anamorfosi.
La mostra è inoltre concepita come uno strumento e una “macchina didattica” che consente di entrare nell’arte e nella creatività di questo singolarissimo artista.
 I disegni del trattato sono trasformati in modelli tridimensionali per illustrare al meglio la logica delle loro costruzioni geometriche, mentre una serie di macchine dell’Università di Modena e Reggio Emilia riproducono scientificamente gli strumenti di bottega dell’artista rinascimentale.

Gli inganni della visione e gli effetti bizzarri della rappresentazione causati dalla forzatura del rapporto tra occhio e distanza di osservazione portano Piero a terminare il trattato con alcuni esercizi che anticipano gli sviluppi dell’anamorfosi.
In queste particolari rappresentazioni prospettiche, l’oggetto sembra emergere dalla superficie pittorica secondo una modalità ravvisabile, sebbene senza deformazioni, già in alcuni dei primi capolavori prospettici, dal finto altare della Trinità di Masaccio che aggetta in apparenza al di fuori della parete, al monumento equestre a Giovanni Acuto dipinto da Paolo Uccello in Santa Maria del Fiore. L’obiettivo era far sembrare “Commo veri”, scrive Piero della Francesca, manifestando la chiara volontà di ingannare l’occhio dell’osservare.

La tavola con la Flagellazione di Cristo (Urbino, Galleria Nazionale delle Marche)
È opera che, forse meglio di altre, può servire a chiarire la difficile arte di Piero della Francesca. La flagellazione si svolge entro un’architettura classica, più greca che latina perché colonne scanalate e rudentate, dal capitello composito, sostengono architravi: non linea curva, ma retta; e perciò anche i soffitti, cassettonati, sono piani. Non è dunque esatto affermare che è architettura albertiana; o, se rapporti con l’Alberti vi sono, possiamo vederli piuttosto nelle soluzioni prospettiche e nella maestà, tenendo presente che il trattato De pictura era stato pubblicato nel ’36.

Forse Piero può avere avuto notizie sulle forme dell’architettura ellenica da qualcuno dei greci presenti a Firenze nel’ 39, elaborandole con le sue conoscenze.
La rettilineità delle membrature architettoniche permette una totale realizzazione dell’impianto prospettico secondo linee convergenti nel punto di fuga.

Il pavimento esterno è diviso da strisce di marmo bianco, in grandi quadrati, ciascuno dei quali, a sua volta, nuovamente diviso in quadrati di cotto (8 per ogni lato): c’è dunque un reticolato minore, che chiarisce, con più esattezza, le misure di quello maggiore. Per la stessa ragione ritroviamo la decorazione a cassettoni nel soffitto della sala e, nel sottostante pavimento, un altro tipo di scacchiera, più variata, più ricca, con alternanze di marmi bianchi e scuri. Ma nel quadrato centrale, dove è posta la colonna della tortura, si inscrive una circonferenza, in rapporto preciso con la cilindricità della colonna. Questa, per riferimento della sua posizione al pavimento, risulta pertanto centrale nell’ambiente. Ad evitare che, nella parte alta, per mancanza di ulteriori riferimenti, si verifichi l’effetto ottico, altrove constatato, di sovrapposizione al piano di fondo, Piero pone, sul capitello, una statua, la cui testa e il braccio alzato sono compresi entro la faccia anteriore dell’architrave che divide il quadrato centrale del soffitto da quello più lontano. L’intera colonna, dalla base in su, ci appare, così, assolutamente collocata al centro.

Davanti alla colonna sta il Cristo, colonnare anch’esso nella tornitura del corpo e nel chiaro colore che lo imparenta alle architetture. Egli è indifferente a quanto accade: non c’è nessuna reazione dolorosa, non c’è nessuna emozione. Neppure i flaggelatori, che si dispongono attorno, imprimono alcun impeto al loro gesto: essi hanno sollevato la frusta, ma questa non ricadrà mai sul corpo dell’uomo legato.
Così il giudice, seduto su un piano rialzato a sinistra (sulla base del quale si legge la firma del maestro), e l’uomo di spalle, assistono impassibili. Né parlano i tre uomini in primo piano: ciascuno immobile, assorto nel proprio mondo, con gli occhi rivolti verso un punto che egli solo vede.

Questa assoluta immobilità, questo silenzio, questa indifferenza sono l’elemento fondamentale per capire Piero. Come Paolo Uccello, egli blocca tutto riconducendo ogni oggetto a forma geometrica ideale. Ma contrariamente a Paolo, incatena tutti, reciprocamente, in un’unica, coerente, lucidissima rete prospettica.
Esiste una rispondenza di tutte le parti che sono studiate secondo una formula proporzionale: è quella <<sezione aurea>> che torna più volte fin dall’antichità e che trova in Piero la sua più alta espressione artistica.

Maria Paola Forlani





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