giovedì 7 maggio 2020

EPIDEMIA NELL'ARTE IN ITALIA -VENEZIA


Arte al Tempo del Covid-19
Epidemia nell’arte in Italia - Venezia

Quando l’attualità s’intreccia con la storia scaturiscono corrispondenze che mai avremmo immaginato in tempi non sospetti, come sembra testimoniarci una tra le più celebri opere di Giambattista Tiepolo (Venezia, 1696 – Madrid, 1770), << Santa Tecla libera Este dalla pestilenza>>, eseguita nel 1758 per celebrare la fine dell’epidemia che flagellò Venezia e i territori limitrofi nel biennio 1630-31.
La grande pala d’altare si trova tutt’oggi conservata nel Duomo della cittadina padovana a 16 chilometri dal piccolo centro di Vò Euganeo, balzato poco più di un mese fa alla cronaca nazionale per aver pianto il primo morto Covid-19 in Italia.
La storia ricorre, quindi, a ricordare il dolore della malattia e della perdita, reso immortale dal pennello tiepolesco attraverso il cammeo del suo capolavoro: una bambina in lacrime, inconsolabile, prona sul cadavere della madre nel disperato tentativo di risvegliarla, invano.
In questa struggente metafora della morte forse ora più che mai ci si può riconoscere attraverso una sorta d’immersione emotiva che rischia di obliterare il resto della raffigurazione, ben più importante nelle intenzioni dell’artista. A dominare la scena sono, infatti, i personaggi all’estremità opposta della tela: santa Tecla inginocchiata e Gesù Cristo che ordina agli angeli di porre fine all’epidemia.
Questo, nell’immaginario dei veneziani, era accaduto in quei tragici anni del primo Seicento e nel terzo quarto del secolo precedente (1575 – 76), quando il <<morbo insanabile>> investì la città decimando un terzo della popolazione (46 mila abitanti) e cambiandola radicalmente nel volto e nell’anima.
Nonostante la Serenissima avesse avuto esperienze della malattia già in epoca medievale (la prima pestilenza di grandi proporzioni risale al 1348) e fosse dotata di strutture ospedaliere deputate alla cura e quarantena in due isole della Laguna, il Lazzaretto Vecchio e il Lazzaretto Nuovo, non riuscì a impedire la diffusione sul territorio.
Il drammatico errore che, secondo un canovaccio a tutti noi tristemente noto fu legato al timore di compromettere il benessere economico dello Stato, con misure restrittive. E proprio la consapevolezza d’interrompere i traffici commerciali e le normali attività cittadine fece negare agli organi di Stato l’evidenza della malattia, intimando il Provveditore di Sanità Giambattista Fuoli, deciso nel proclamare lo stato d’emergenza, a contenersi <<nel proferire così liberamente concetti pregiudiziali a negotii et al commercio publico et privato et alla libertà della patria>>.
La peste ebbe quindi modo di diffondersi con grande celerità tra la popolazione inerte, completamente indifesa e terrorizzata, i cui cadaveri venivano abbandonati per strada, privi di sepoltura, a causa della mancanza di monatti; ragione per cui il Senato, in data 2 novembre 16.30, offrì ai carcerati in attesa di rimborsare le spese processuali, di commutare l’ammenda economica prestando servizio come becchini. Riesce difficile immaginare un tale, apocalittico scenario nella città della bellezza e del piacere, che cercava di difendersi con il silenzio e la solitudine nelle case sbarrate, quasi a nascondersi dalla morte.
Non rimaneva che la fede, questa fede che aveva salvato il leone di San Marc e i suoi figli dalla pestilenza nel secolo precedente e a cui la Repubblica si era affidata facendo erigere la Basilica del Redentore (1577-92) sul canale della Giudecca, dove ancora oggi, la terza domenica di luglio, si ricorda l’epidemia con una processione votiva.
In data 22 ottobre 1630, all’apice della virulenza, il Senato decise quindi di ripetere il voto fatto all’Altissimo e consegnato ai posteri attraverso gli abbacinanti marmi palladiani, rivolgendosi questa volta alla Vergine, cui veniva fatta erigere la Basilica della Salute su progetto di Baldassare Longhena (Venezia, 1598- 1682): una chiesa <<magnifica…con pompa>>, dove i veneziani si sarebbero recati il 21 novembre di ogni anno in occasione dell’omonima festività, percorrendo uno scenografico ponte galleggiante allestito per ricordare la conclusione dell’epidemia. Nel dicembre dell’<<annus terribilis>> i contagiati si dimezzarono, per poi scendere progressivamente fino all’estinguersi del morbo.
Il voto aveva funzionato anche questa volta, procurando a Venezia un monumento di grandiosa suggestione, che sarebbe stato protagonista d’innumerevoli vedute del secolo d’oro in virtù della mole poderosa e dei ricchissimi decori, tra cui spicca la statua della Madonna con il bastone da <<capitano de mar>> posta alla sommità della cupola più piccola.
Dal più profondo tormento, che cronache raccontano trasformare uomini e donne in fantasmi vaganti per le strade <<nulla più curando la vita>>, oppure accalcati in attesa di giungere presso i lazzaretti, dove li aspettava un infausto destino che alimentò macabre leggende di creature simili a vampiri, il popolo veneziano seppe rialzarsi non solo con straordinaria dignità, ma con ottimismo capace di trasformare il dolore in opera d’arte.
Invece di disperarsi per i propri cari perduti per sempre, per la povertà e per l’economia da ricostruire, i figli del leone gioirono di essere sopravvissuti grazie alla benevolenza di Dio e della Madonna, che andavano ringraziati con il meglio che Venezia aveva da offrire: la bellezza appunto. L’arte diveniva, quindi strumento di fede e le cerimonie religiose adunanze di popolo, dove la preghiera lasciava spazio alla festosa gioia di vivere, il più genuino sigillo della venezianità la cui apoteosi viene raggiunta nel Carnevale.
Proprio durante la festa della spensieratezza, dove ogni affanno e ogni differenza sociale si accantonano, anche la peste venne esorcizzata con l’arma della dissacrazione. Tra i travestimenti più celebri è quello denominato <<medico peste>>, assolutamente identico alla divisa di protezione imposta dal dottor. Charles de Lomar agli operatori sanitari in visita agli ammorbati, come testimonia un acquarello di Giovanni Grevenbroch.
La divisa, che prevedeva guanti, occhiali e una maschera dal becco adunco dove erano riposte spezie ed erbe medicamentose atte a evitare il contagio.

M.P.F.


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