giovedì 8 ottobre 2015

IL MONDO CHE NON C'ERA

Il mondo che non c’era


L’arte precolombiana nella collezione Ligabue

A “Il mondo che non c’era”, alle tante e diverse civiltà precolombiane che avevano prosperato per migliaia di anni in quella terra, è dedicata la spettacolare mostra che si è aperta a Firenze fino al 6 marzo 2016 al Museo Archeologico Nazionale, con un corpus di capolavori, quasi tutti mai visti prima d’ora, espressione delle grandi civiltà della cosiddetta Meseoamerica (gran parte del Messico, Guatemala, Belize, una parte dell’Honduras e del Salvador). E il territorio di Panama. La mostra racconta le Ande (Colombia, Equador, Perù e Bolivia, fino a Cile e Argentina): dagli Olmechi ai Maya, agli Aztechi; dalla cultura Chavin, a quella Tiahuanaco e Moche, fino agli Inca.

Fu un fiorentino del resto, Amerigo Vespucci, a comprendere per primo che le terre incontrate da Cristoforo Colombo nel 1492, non erano isole indiane al largo del Cipango (Giappone) e neppure le ricercate porte dell’Eden, ma un “Mundus Novus”,
un nuovo continente che pochi anni dopo alcuni geografi che lavoravano a Saint-Denis des Vorges vollero chiamare, in suo onore, “America”.

E i Medici, signori di Firenze, risultarono i primi governatori europei a decidere di preservare nelle loro collezioni alcuni degli affascinanti e spesso enigmatici manufatti arrivati dalle “Indie” come quelli dei Taino, gli indigeni incontrati da Colombo, che i
Conquistadores avevano portato in Europa. Tra i primi a considerare quegli oggetti vere opere d’arte fu Albrecht Dürer che, di fronte ai regali di Montezuma a Cortes, giunti a Bruxelles nel 1520, scrisse: “Queste cose son più belle che delle meraviglie
[] Nella mia vita non ho mai visto cose che mi riempissero di gioia come questi oggetti”.

A pochi mesi dalla scomparsa di Giancarlo Ligabue (1931-1915), questa mostra vuole essere a lui dedicata da parte del figlio Inti, che continua l’impegno nella ricerca culturale e scientifica e nella divulgazione, attraverso il Centro Studi fondato oltre 40 anni fa dal padre Giancarlo: paleologo, studioso di archeologia e antropologia, esploratore, imprenditore, illuminato, appassionato collezionista.

Oltre ad aver organizzato più di 130 spedizioni in tutti i continenti, partecipando personalmente agli scavi e alle esplorazioni – con ritrovamenti memorabili conservati ora nelle collezioni museali dei diversi paesi – Giancarlo Ligabue ha dato vita negli anni a un’importante collezione d’oggetti d’arte, provenienti da moltissime culture.
Una parte di questa collezione è il cuore della mostra fiorentina, (catalogo 5 continets edizioni) a curata da Jacques Blazy specialista delle arti pre-ispinache della Mesoamerica e dell’America del Sud.

Il viaggio, affascinante, nel cuore della civiltà Meseoamericana prende il via dalle testimonianze della cultura Tlatica e Olmeca (dal 1200 al 400 circa a.C.), con esempi di quelle figurine antropomorfe di ceramica cava provenienti da necropoli – per lo più rappresentazioni femminili, con un evidente deformazione cranica, elaborate acconciature e il corpo appena abbozzato – che tanto affascinarono i pittori
Diego Rivera, la moglie Frida Kahlo e diversi surrealisti.
La cultura Olmeca si diffuse attraverso la Mesoamerica fino al Costa Rica, compresa la regione di Guerriero (Xochipala) famosa per le statuine di donne nude, giocatori della palla, coppie o danzatori, dai corpi modellati e realistici e, in genere, per la produzione lapidaria (tra il 500 a.C e il 500 d.C.), che si svilupperà anche nella cosiddetta

Scultura Mezzala. Una manifestazione artistica tanto enigmatica nella sua semplicità quanto misteriosa nelle origini, al punto che ne restarono suggestionati anche Andrè Breton, Paul Eluard e lo scultore Henry Moore, artisti che diventarono anche collezionisti di quelle figure di pietra.


Tra il 300 a.C e il 250 d.C. l’Occidente del Messico si distinse per la realizzazione di tombe a pozzo collocate nelle abitazioni. Il viatico funebre di queste tombe – formato da ceramiche a forma di granchio, cane, armadillo, rospo – è eccezionale e offre importanti informazioni sulla vita quotidiana e la religione. Tra le varie culture associate a questa regione, quella di Chupicuaro (il cui apogeo si situa tra il 400 e il 100 a.C.) è conosciuta per le statuette policrome di ceramica cava, delle quali sono in mostra alcuni notevoli esemplari, come la Grande Venere con le mani congiunte sul ventre, la testa deformata e gli occhi aperti a mandorla.

Quindi Teotihuacan: il primo vero centro urbano del Messico centrale, letteralmente “La città dove si fanno gli dei” e dove furono costruiti monumenti emblematici come la Piramide del Sole, quella della Luna e la Piramide del Serpente piumato. Leggendaria l’abilità dei tagliatori di pietra di Teotihuacan; l’arte lapidaria appare molto stilizzata, persino geometrizzata e ha prodotto pezzi monumentali ma anche le famose ed inconsuete maschere di Teotihuacan. Concepite secondo un modello standardizzato, con il volto a forma di un triangolo rovesciato, fronte e naso larghi, labbra spesse e sopraciglia marcate, le opere esposte in questa occasione (tra cui alcune provenienti dalle collezioni antiche di André Breton e Paul Matisse) potrebbero essere servite come maschere funerarie.

Una di queste, la maschera in onice verde, conservata al Museo degli Argenti è appartenuta alla collezione dei Medici ed è un esemplare davvero notevole di quella produzione.

Interessante per la perizia tecnica dell’ampia decorazione, sono i due punteruoli realizzati in ossa di giaguaro, animale emblematico del mondo meseoamericano associato alle più alte funzioni politiche e sacre. I due strumenti, originari di Michoacan – con una iconografia tipica di Teotihuacan, glifi, testa di felino, fiamme – sono di probabile uso rituale, destinati per l’autosacrificio o pratiche che implicano la perforazione della carne: è incisa l’immagine del destinatario divino al quale il penitente offriva il sangue.

Della cultura Zapoteca – che si diffonde nel Centro del Messico nella regione di Oaxaca dal 500 a.C. al 700 d.C. e vede il suo centro nella città di Monte Albàn –
sono altresì in mostra alcune famose urne cinerarie che appaiono dal 200 a.C.
al 200 d.C. (II fase). Con la loro effige spesso antropomorfa, rappresentante un personaggio seduto con le gambe incrociate e le mani sulle ginocchia – probabilmente Coeijo, dio zapoteco della pioggia, del fulmine e del tuono – sono state trovate in diverse inumazioni: e resta da chiarire la loro funzione.

Singolari anche le statuette realistiche in ceramica della cultura classica della Costa del Golfo (o cultura di Veracruz) decorate con bitume dopo la cottura, come anche le repliche in pietra di accessori del gioco cerimoniale della palla e le statuette che rappresentano personaggi sorridenti o ridenti, davvero eccezionali nell’arte mesoamericana che frequentemente propone esseri impersonali e inespressivi.

A introdurre nella cultura e nella società Maya sono i sacerdoti, le divinità, gli animali addomesticati come tacchini, i nobili riccamente adornati negli abiti e con bellissimi gioielli (spettacolare la collana di giada esposta) raffiguranti in piatti, sculture o stele.
Ma sono soprattutto i bellissimi preziosi vasi Maya d’epoca classica, riccamente decorati, che forniscono informazioni sulla società e sulla scrittura di questa civiltà. Le divinità dell’inframondo, i giocatori della palla, i signori-cervidi e signori-avvoltoi, il drago celeste, il dio K’awiil o giovani signori dai copricapo piumati sono i protagonisti che popolano i vasellami in mostra.

Sono Aztechi invece gli importanti propulsori – utilizzati per lanciare frecce –
provenienti dalle wunderkammer medicee e ora nel Museo di Antropologia di Firenze: sono tra i pochissimi strumenti di questo tipo decorati in oro.
Il viaggio continua con le testimonianze dal Sud America: dalla spettacolare produzione delle prime ceramiche delle Veneri ecuadoriane di Valdivia,
agli oggetti Incas: dal mondo dell’ antico Chavin, dai tessuti e vasi della regione di Nazca, all’affascinante cultura Moche. Ma sarà l’oro – come quello dei Tairona
(puro o in una lega con rame chiamata “tumbaga”) – a spingere nelle Ande spagnoli ed avventurieri alla ricerca dell’ “El Dorado”, uno dei grandi miti, vero motore della Conquista.

L’America, che aveva stupito e affascinato con i suoi “strani” indigeni, la natura così diversa e le sue meravigliose opere, in breve viene considerata solo per le tonnellate d’oro e d’argento che giungono sui galeoni in Europa. E se i Medici a Firenze conservano nelle loro raccolte le testimonianze del Mondo che non c’era – tra i capolavori in mostra anche un collier Taino del XIV-XV secolo – gli Spagnoli fondono quegli oggetti in metallo prezioso per usarlo poi come moneta.
In pochi decenni dall’arrivo di Colombo (nessuno degli oggetti riportati si è conservato) le culture degli Aztechi e degli Incas saranno annichilite con le armi e con la schiavitù e quella dei Taino praticamente annientata: già verso il 1530, secondo gli storici, non esisteva più un solo Taino vivente. Milioni di indio morirono anche a causa delle malattie arrivate dal Vecchio Mondo.


Dovranno passare almeno quattro secoli, prima che l’Europa prenda nuovamente coscienza della grandezza dell’arte dell’america antica e ancora oggi sfuggono molti aspetti delle culture precolombiane, di quella parte di umanità che, all’improvviso, nell’ottobre del 1492, comparve all’orizzonte dei navigatori in cerca delle Indie.


Maria Paola Forlani

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