giovedì 23 maggio 2019

FRANCESCA WOODMAN


Francesca Woodman




“Io da piccola leggevo sempre al contrario e adesso sono un po’ così…contraria” (Francesca Woodman).


6x6 cm, è il formato prediletto da Francesca Woodman per i suoi scatti, piccoli riquadri in bianco e nero, fotogrammi discreti che sembrano voler dissolversi nello spazio. Inquadrature imprecise, immagini sovrapposte, sfocate o mosse, sono il risultato di una realtà fluttuante o mosse, sono il risultato di una realtà fluttuante e imperscrutabile, ricreata meticolosamente dall’artista. E qui inizia il gioco, <<Non bisogna pensare a Francesca come a una sognatrice. Francesca era qualcuno che sapeva e voleva esattamente ciò che aveva in testa.>> Le immagini di Francesca Woodman inquietano e disorientano, sono fortemente perturbanti non solamente a causa dei soggetti e delle atmosfere misteriose che rappresentano, per quella loro vertiginosa essenza eterea ed evanescente forzatamente evocativa della biografia della loro autrice lanciatasi nel vuoto da un edificio di New York a soli ventidue anni; Le opere della giovane artista confondono innanzitutto perché creano un subitaneo gioco ambiguo con chi le guarda, sussurrando agli occhi ed esigendo un ruolo attivo dell’osservatore che si trova inaspettatamente a essere complice e illecito testimone di intime fantasie e stranianti sperimentazioni. In Francesca Woodman l’occhio si posa sull’obiettivo come sulla serratura di una stanza dimenticata, svuotata e appena chiusa a chiave. Una stanza anonima che è una voragine, universale metafora dell’inconscio.
L’artista vede l’interiorità come un pericolante non-luogo composto da porte scardinate o mai aperte, pareti scorticate, antiche specchiere. Ė li che libido, memoria, sogno e immigrazione si mescolano in un gioco infantile, messo in atto da Francesca Woodman in maniera innocente e provocatoria. Tutto è arcano nella sua sapiente messa in scena: il corpo, lo spazio, gli oggetti, il tempo e la relazione tra questi e la psiche. L’artista disegna spesso dei bozzetti preparatori per le sue immagini, da dove parte e poi sperimenta, interroga se stessa e l’altro, si mostra nuda con l’audacia della sua giovinezza e un’ossessione per l’introspezione. Le sue opere sono quasi esclusivamente autoritratti, eppure il volto vi è spesso celato e soprattutto si ha l’impressione che in una frastornante sovversione delle parti, l’osservatore si trovi dietro l’obiettivo trasformandosi, suo malgrado, nell’autore delle stesse opere che sta fissando, in tal modo le sente proprie mentre non gli appartengono affatto. Si instaura così un sentimento di disagio. Francesca Woodman, divertita, interagisce con chi la osserva: si svela, si nasconde, lacera l’essere e la carne, la sua bellissima, levigata, insopportabile involucro che ingabbia l’anima, varco da valicare. Nelle foto l’artista svanisce e ricompare, impalpabile, fragile, proveniente da un ignoto altrove, vicino e domestico, eppure talmente avulso da provocare un brivido nel guardarla.


Francesca Woodman nasce a Devner, in Colorado, il 3 aprile 1958, in una famiglia d’artisti: il padre George, pittore (si cimenterà nella fotografia dopo la morte della figlia), la madre Betty ceramista e il fratello maggiore, Charlie, videoartista. Francesca Woodman cresce in una dimensione di confronto e riflessione tra diverse espressioni artistiche.
Appena adolescente riceve una macchina fotografica dalla quale non si separerà più: <<Francesca era semplicemente smaniosa di scattare foto>>. Nel suo primo autoritratto ha tredici anni, il volto coperto dai capelli, in mano camuffa un bastone che funge da prolungamento per premere l’autoscatto e che con un effetto sfocato forma un raggio di luce; il cavo dell’apparecchio è ben evidente al centro dell’immagine, sovrapposto alla maniera di un rayogramma di Man Ray, è un cordone ombelicale tra il corpo dell’artista e la macchina fotografica. Tra il 1975 e il 1979 l’artista frequenta la Rhode Island School of Design a Providence (Stat Uniti), inizia a sperimentare con l’immagine, a provocare, il suo corpo nudo, statuario, risalta come un’incisione nel bianco e nero della pellicola e per l’artista diviene un oggetto, una geometria di luce con la quale scandalizzare. Sono gli anni Settanta: il femminismo, i movimenti studenteschi, la rivoluzione sessuale, ma nei lavori di Francesca Woodman giunge solo l’eco di ciò che accade all’estero, è piuttosto l’interiorità, l’inconscio che le interessa. Le sue foto hanno un sapore antico, non politico; le sue immagini enigmatiche trascinano verso gli abissi della psiche, di quel <<mistero in pieno giorno>> che teorizzava André Breton. Nelle foto di Francesca Woodman i rimandi al surrealismo sono numerosi, alcuni vere e proprie citazioni: Dorotea Tanning, Claude Cahun, Man Ray e soprattutto Hans Bellmer di cui riprende diversi aspetti come il corpo femminile deformato dalle legature dello spago, i nudi con i collant a righe, le pose disarticolate della sua famosa “bambola”. A differenza di Bellmer, però Francesca Woodman fa del suo stesso corpo l’oggetto dell’<<anatomia dell’inconscio fisico>>.


Afferma l’artista: <<Ė una questione di convenienza, fotografo me stessa perché sono sempre disponibile>> e in questa parola disponibile si nasconde tutta la giocosità del suo giovane pensiero, del perché il suo essere <<sempre disponibile>> vuol dire essere sempre pronta, non tirarsi mai indietro, spingersi oltre il conosciuto ed esplorare, attraverso il corpo e lo spazio, il visibile e ancor più l’invisibile.


Francesca Woodman scopre il surrealismo negli Stati Uniti ma è nel suo lungo soggiorno a Roma, tra il 1978 e il 1979 per proseguire all’estero gli studi, che la fotografa si immerge in un ambiente artistico e intellettuale che l’entusiasma. Conosce bene l’Italia, con la sua famiglia passa le vacanze all’Antella (una frazione di Bagno a Ripoli, Firenze), e frequenta la seconda elementare a Firenze, imparando a leggere in italiano. Giunta a Roma nel triste periodo degli  “anni di piombo”, Francesca trova negli artisti del gruppo San Lorenzo tra cui Gallo, Nunzio, Gianni Dessì, Cecobelli, poi Pizzi Canella e Tirelli, un gruppo di elezione.


I pittori si riuniscono nell’ex panificio Cerere nel quartiere di San Lorenzo, ognuno porta avanti un proprio percorso individuale, condividendo i grandi spazi dell’edificio abbandonato. Lì Francesca Woodman ambienterà diverse sue foto e qualche video che risentono di una particolare composizione geometrica influenzata dall’arte italiana, dalla prospettiva rinascimentale, da Giotto a Piero della Francesca. Tra queste una delle sue immagini più note in cui simula una crocifissione sullo stipite di una porta chiusa e ancora le serie Angel Fish Calendar – 6 Days, Yet Another Leaden Sky. A Roma l’artista scopre la libreria Maldoror e vi passa pomeriggi e serate in compagnia deli proprietario Paolo Cassetti alla scoperta di introvabili testi surrealisti, dada e futuristi. Il 20 marzo 1978 nello scantinato di Moldoror adibito in galleria è allestita una mostra di Francesca Woodman. L’artista realizza realizza gli inviti con una cartolina nella quale incolla un suo provino a contatto originale: << Se consideri che le sue foto hanno il formato di poco più grande di quello di un provino a contatto, ti rendi conto che Francesca in pratica spedì le sue opere. Che generosità!>> (Paolo Cassetti).


Per l’inaugurazione l’artista non si presenta. Francesca Woodman rimarrà molto legata al suo periodo romano; tra gli scaffali della libreria Maldoror scopre un giorno un insieme di quaderni di esercizi scolastici dove annotati a penna in bella calligrafia vi si trovavano gli appunti di diverse materie scientifiche e letterarie. L’artista se ne appropria e nelle pagine ingiallite dal tempo applica su carta trasparente perché si confondano con la scrittura precedente, una serie di foto e delle brevi ed ermetiche frasi: << Vorrei che le parole avessero con le mie immagini lo stesso rapporto che le fotografie hanno con il testo in Nadja di Andrè Breton.
Egli coglie tutte le illusioni e i dettagli enigmatici di alcune istantanee abbastanza ordinarie ed elabora delle storie. Io vorrei che le mie fotografie potessero ricondensare l’esperienza in piccole immagii complete nelle quali tutto il mistero della paura o comunque ciò che rimane latente agli occhi dello spettatore uscisse, come se derivasse dalla sua propria esperienza>>. Uno di questi quaderni romani nel 1981 diviene la sua unica pubblicazione:
Some Disordered Interior Geometry (Alcune disordinate geometrie interiori): l’ossimoro “disordinate geometrie” esplica bene “l’interiore” di Franncesca Woodman, ironica, complessa, sensibile e decisa, giocosa e solitaria, convulsivamente misteriosa.



Rientrata negli Stati Uniti nel 1979 si diploma a Providence, successivamente vive a Washington e New York dove prova diversi lavori tra cui la fotografia di moda le sue immagini tormentate sono poco comprese.

Tra le sue ultime serie Swan Song, dedicata a Proust, e delle nuove immagini sul tema dell’osmosi tra il corpo e natura. Come svaniva tra le pareti, adesso Francesca Woodman svanisce tra le cortecce degli alberi, la terra, l’acqua in un desiderio di fusione totale con la realtà per penetrarla oltre l’involucro del visibile, oltre il tempo e lo spazio materico, oltre ancora l’immaginazione e la sua fragilità.

Nel 1981 Francesca Woodman decide di svanire per sempre. La sua arte conserva intatta la perturbante purezza dell’utopia dell’addentrarsi “oltre lo specchio” attraverso il gioco, innocente e proibito, e in un desiderio infantile di essere almeno in due: << Non ero (sono?) unica ma speciale. Questo è il motivo per cui avevo deciso di essere artista. Stavo inventando un linguaggio affinchè le persone vedano la quotidianità che io vedo e per mostrare loro qualcosa di diverso. []. E non per
insegnare alle persone una lezione. Semplicemente dall’altra parte>>.


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