venerdì 17 aprile 2020

Andrea Mantegna. Rivivere l'antico, costruire il moderno




IL Catalogo

Gli ultimi decenni hanno visto importanti pubblicazioni, Andrea Mantegna.
Rivivere l’antico, costruire il moderno

soprattutto cataloghi di mostre, dedicate ad Andrea Mantegna (1431 – 1506), protagonista della cultura figurativa rinascimentale: le importanti rassegne di Londra e New York del 1992, quella memorabile di Parigi del 2008, curata da Giovanni Agosti, le esposizioni tenutesi in contemporanea a Padova, Verona e Mantova, organizzate nell’ambito delle celebrazioni per i cinquecento anni della sua morte nel 2006 hanno portato all’attenzione del pubblico novità in merito al suo insegnamento e alla sua eredità, oltre a un’ampia selezione di opere autografe e di artisti fortemente legati al maestro.
Da oltre un decennio manca quindi in Italia una grande mostra dedicata a Mantegna. La mostra di Torino e il catalogo che l’accompagna presentano l’intero percorso artistico di Mantegna, dai prodigiosi esordi giovanili al riconosciuto ruolo di artista di corte e sono articolati in sezioni che evidenziano momenti particolari della sua carriera e significativi aspetti dei suoi interessi e della sua personalità artistica.

Sulla base degli esiti delle più recenti ricerche su Mantegna, nel catalogo è proposta un’ampia lettura della figura di un artista che definì la sua arte potente e originale sulla base della profonda e diretta conoscenza delle opere padovane di Donatello, della familiarità con i lavori di Jacopo Bellini e dei suoi figli, delle novità fiorentine e fiamminghe, nonché dello studio della scultura antica e dell’attenta osservazione del mondo circostante. Un’attenzione particolare è dedicata al suo ruolo di artista di corte a Mantova e alle modalità con cui egli definì la fitta rete di relazioni e amicizie con scrittori e studiosi che lo resero un riconosciuto e importante interlocutore nel panorama culturale, capace di dare forma visiva a ciò che gli Umanisti potevano esprimere a Parole.

La Mostra
La mostra “Andrea Mantegna. Rivivere l’antico, costruire il moderno” a cura di Sandrina Bandera e Howard Burns, inaugurata alla fine dello scorso anno a palazzo Madama (attualmente chiusa al pubblico in ottemperanza alle misure del Covid-19) è una piccola antologica, quasi un vero e proprio manuale a consumo ed uso dello spettatore. La scelta adottata dalla curatrice è quella di mettere in piedi una rassegna che sappia conciliare divulgazione con precisione scientifica, seguendo una tradizionale lettura critica – da manualistica universitaria – attraverso una serie di confronti e capitoli che, dagli esordi fino al periodo tardo, toccano tutti i temi centrali di una delle più importanti figure del Rinascimento.

Il mondo di Mantegna è quello del “rinascimento eccentrico” che fuori da Firenze, seppe creare un linguaggio autenticamente nuovo senza “intoscanirsi” eccessivamente ma, anzi, facendo di ogni influenza un’occasione di confronto consapevole e stimolante.
Si comincia, dunque, dall’inizio padovano, ove dominante è il lavoro di Francesco Squarcione che, con la sua numerosa bottega, può essere considerato il maestro sui cui banchi di scuola hanno sgobbato come alunni Mantegna stesso, Bellini, Crivelli, Cosmè Tura e praticamente tutti i più importanti e singolari artisti norditaliani dell’epoca.

Che piacesse o no ai suoi alunni, comunque l’impronta squarcionesca rimane come indelebile timbro sulla produzione giovanile di tutti questi artisti, presenti nelle prime sale della mostra e ben connessi da alcuni confronti ritmati con diligenza. L’atmosfera è quella di un comune sentire in cui si mescolano con fascino gusto antiquario ed eccentricità cortesi, che si declinano di volta in volta in maniera diversa. Se, infatti, una cifra iconografica che quasi mai abbandona tutti questi artisti è la presenza del festone di frutta a inghirlandare la sommità delle composizioni, ognuno di loro – Mantegna in primis – riesce a sviluppare da subito un proprio linguaggio.
In tal senso la mostra confronta con efficacia due San Giorgio, uno di Mantegna e l’altro del ferrarese Cosmè Tura. In quest’ultimo l’atmosfera è tinta di toni surreali, dove il santo guizzante è vestito con un’armatura (più simile a un costume) d’un rosa tenue, cristallizzato in un’istantanea di morte, dopo aver decapitato l’orrido drago ai suoi piedi, munito di due ali più funzionali a tagliare e pungere le nervose gambe del santo che a volare effettivamente. Sul fondo, fregi antichi, con colonne rosse e blu.
In Mantegna il tema si presenta come un fregio che prende vita: emerge qui una costante del maestro, che mai lo abbandonerà, quella della pittura intesa come scultura, il santo cavaliere, in elegante posa di trionfo dopo aver fracassato la sua lancia nella mandibola del rettile, si sporge da una nicchia dipinta, che è cornice illusoria, marmo all’antica e irruzione dello spazio in chiave metateatrale. Raffinata chiosa è la scelta di far rivolgere lo sguardo di san Giorgio alla città alle sue spalle, sullo sfondo, in una “inversione a U” ottica che lancia l’occhio dello spettatore nella profondità del dipinto, a chilometri di distanza da quella cornice che il santo stesso si appresta a varcare.

Da Padova si passa a Mantova e al rapporto con i Gonzaga, a sua volta diviso in problematiche di vario tipo. Quella del controverso rapporto con la signoria mantovana è un tema che è stato letteralmente sviscerato da molti studiosi, e si può riassumere nella smania di gloria dei Gonzaga stessi, viaggiante di pari passo solo con la loro endemica mancanza di fondi e l’assoluta convinzione di non volerli utilizzare per retribuire lo stuolo di artisti al loro servizio. Mantegna in primis. Così, se in mostra non possono ovviamente esserci gli Sposi con la loro Camera, la scelta è quella di chiamare a raccolta una vera e propria corte rinascimentale fatta di ritratti a confronto, tutti in gara l’uno con l’altro a livello qualitativo.

In questa ultima sezione del Mantegna maturo, pur affrontando il tema dei Trionfi e dello studiolo di Isabella d’Este, non è stato possibile portare in mostra nessuna realmente opera significativa a riguardo (per difficoltà di prestiti). Così, l’assenza cerca di essere sopperita con nutriti carteggi, riproduzioni tarde e anche solidissime opere del periodo, come l’Ecce homo, summa perfetta dello stile maturo del grande maestro.
Pur con tali lacune, comunque, anche questa seconda sezione della mostra si rivela valida, perché trasmette con efficacia quel senso di struggente contraddizione che non abbandonò mai Mantegna fino alla fine. Tra Virgilio e Petrarca, tra fede cristiana e difficoltà personali, in Mantegna si ritrova perfettamente la dicotomia tra una passione sincera (quella per la classicità) e un moto esistenziale dell’animo.

M.P.F.


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