lunedì 6 aprile 2020

Andy Warhol


Andy Warhol

In occasione della retrospettiva di Londra, sul sito della Tate si possono ripercorrere le tracce dell’uomo che ha aggiornato il concetto di icona e che ha provocato la società dei consumi.
Andy Warhol è stato un artista bramoso di far circolare le sue opere, di ricoprirne la Terra, di farle diventare altrettanto riconoscibili di una delle sue immagini preferite, la bottiglia di Coca-Cola.
Andy Warhol è stato, senza dubbio, l’artista più pubblicizzato del suo tempo, un artista la cui più celebre opera d’arte è stato se stesso. Nato nel 1928 a Pittsburgh da genitori emigranti da un piccolo villaggio nell’odierna Slovacchia nord-orientale, Andrew Warhola, questo il suo nome prima di americanizzarlo, è riuscito a rendere le sue opere popolari quanto un ricercatissimo prodotto di consumo.
La merce è la grande madre che accudisce il sonno, i sogni e gli incubi dell’uomo americano, che lo assiste in tutti i suoi bisogni, fino al punto di incentivare e creare altri nuovi consumi. La città è lo spazio, l’alveo naturale dell’American dream, inteso come sogno continuo di opulenza e di stordimento organizzato dalla merce.

L’arte diventa il momento di esibizione splendente ed esemplare di tale sogno, la pratica alta che mette sulla scena definitiva del linguaggio lo stile basso delle immagini, prodotte dai mezzi di comunicazione di massa, dalla publicità e dagli strumenti di persuasione occulta ed esplicita dell’industria americana. Andy Warhol è l’artista della pop art che cerca di dare classicità all'oggetto di consumo.
Una sorta di Michelangelo della società di massa americana. Un’eco di tale grandezza è senza dubbio la mostra
Andy Warhol a cura di Gregor Muir fino al 6 settembre alla Tete Modern di Londra, ma per ora visibile online con video, foto e postcast (www. Tate.org.uk). Oltre cento opere passano in rassegna il lavoro dell’artista americano, tra cui la grande tela lunga dieci metri Sixsty last Supper (realizzata solo pochi mesi prima della sua morte) e venticinque ritratti (dei duecentocinquanta dell’intera serie) di Ladies and Gentlemen, drag queen e donne trans latine e afroamericane di New York
(Presentate, per la prima volta, a Palazzo dei Diamanti a Ferrara, grazie al direttore Franco Farina). La mostra copre tutta la carriera di un genio dell’arte del Secondo dopoguerra e che indaga i diversi aspetti non solo del suo lavoro, ma anche della sua personalità, a cominciare dallo stretto rapporto con la madre e la religione, fino alla sua algida e ambigua sessualità e al tentato omicidio, nel 1968, da parte di Valerie Soanas.
In mostra ci sono tutte, le Marilyn dai colori acidi riprodotte all’infinito, Jackie Kennedy, Elvis, poi le
Brillo boxes, la lattina di zuppa Campbell, le bottiglie di Coca-Cola che sfilano accanto all'Ultima
cena
di Leonardo e alle drammatiche immagini degli incidenti stradali. Infine c’è lui, lo sguardo assente e il volto pallido incorniciati da una parrucca argentata. Un volto in cui osserva il regista Rainer Werner Fassbinder che lo immortala avvolto drammaticamente dalla sua opera.

Sperimentatore incallito, Warhol ha spinto all’estremo anche i linguaggi del video e del cinema. Alla Tate è presentata una serie dei suoi famosi Screen test prodotti tra il 1964 e il 1967, cortometraggi muti e in bianco e nero che riprendevano per solo tre minuti, amici, celebrità o semplici frequentatori della Factory, da Lou Reed a Edie Sedgwick Dennis Hopper, ai quali era stato chiesto di stare seduti a guardare, nel modo più spontaneo possibile, una telecamera fissa davanti a loro. Ma l’esperimento cinematografico più audace è senz’altro Sleep, un film della folle durata di 5 ore e 20 minuti che riprende, semplicemente, il sonno del suo amante, il poeta John Giorno.
In mostra c’è poi Silver clouds, l’istallazione realizzata nel 1966 alla galleria Leo Castelli di New York con decine di cuscini in mylar color argento gonfiati a elio che fluttuano nello spazio. Una delle opere più evanescenti, chic e infantili dell’artista, una delle trovate più originali e divertenti che lui definiva “carine”.

Anche l’artista vive dentro una realtà già definita, in cui ogni prodotto è segno della merce. L’uomo viene confinato nello stato paralizzato di voyeur, dove ogni evento è il portato di un futuro già fissato in una distanza del mondo, diventata a sua volta condizione inerte dell’esistenza.

M.P.F

Nessun commento:

Posta un commento