venerdì 30 marzo 2018

ALLA RICERCA DELLA SPERANZA



ALLA RICERCA DELLA SPERANZA, TRA ROVINE DI IMPERI E FOLLIE UMANE


                                                                                                                     Gian Luigi Zucchini

A margine della Pasqua, una richiamo storico alle religioni e alla fede, nell’attuale periodo in cui sembra prefigurarsi una nuova e incerta realtà, un futuro denso di sommovimenti culturali, di  popoli, idee, comportamenti che provocano timori e paure, tra l’emergere sempre più frequente di profeti di sventura, di idolatrie, utopie, false speranze e impossibili ritorni. 

Dopo la morte di Gesù, delusioni e speranze emergevano nel ‘piccolo gregge’ che ne aveva ascoltato l’insegnamento. L’atteso da secoli, colui che è fonte di salvezza, aveva o no portato un messaggio universale per distruggere il male?
L’idea di Colui che porta salvezza, diffusissima in quasi tutte le culture antiche. era da sempre profondamente radicata nella coscienza umana. Lo aspettavano i popoli iranici, che nella figura di Mithra, il dio della luce che dissipava l’oscurità e vedeva tutti i misteri dell’universo, avevano identificato Colui che sarebbe dovuto tornare alla fine del mondo per giudicare l’umanità risorta. Nella lontanissima India oltre cinque secoli prima di Cristo era apparsa la figura di Mahavira, ultimo dei ventiquattro salvatori, che aveva predicato la salvezza attraverso la liberazione dal ciclo della reincarnazione, per raggiungere l’illuminazione. Così pure Buddha, vissuto all’incirca nello stesso periodo, incarnazione di colui che porta la salvezza attraverso la misericordia. E ancora Vishnu, che nell’incarnazione di Kalki, dovrà redimere l’umanità dal male e dal peccato. Infine, tra i molti altri ancora, Glooskap, di cui gli indiani Abuaki, originari del nord-est americano, attendevano il ritorno per la salvezza della loro gente.
Ma nei tempi successivi alla morte di Cristo, molti avvertivano che gli dei dell’Oriente e quelli dell’Occidente stavano morendo, o restavano simulacri intorno ai quali si alimentava un crescente scetticismo. E in Palestina particolarmente, i riti previsti e puntigliosamente eseguiti, la liturgia minuziosamente osservata, avevano distolto da una reale partecipazione molti sia modesta che di nobile condizione.
In questa situazione di incerta perplessità e di crescente noncuranza, l’irrompere del messaggio cristiano poteva certamente promuovere un coinvolgimento più deciso. Tuttavia gli apostoli e i primi discepoli si rendevano conto che occorreva una semplice ma efficace traccia consegnata alla scrittura, che per i fedeli fosse come una guida al comportamento, un’indicazione alla preghiera e ai riti di partecipazione a quella che può essere definita un’embrionale liturgia. Vengono quindi stilati in diverse tappe e successivamente diffusi alcuni documenti, raccolti sotto la denominazione di Didaché. Essi sono un’insieme di istruzioni per le nuove comunità cristiane, compilate forse dagli Apostoli stessi oppure, come più recentemente si è ipotizzato, da alcuni discepoli, uno dei quali redasse poi il lavoro e ne curò la stesura materiale. Esso pare antecedente alla stesura dei Vangeli, anche se su questo punto il dibattito è ancora molto aperto. Questo documento, come del resto anche i Vangeli, ha attraversato una lunga storia di trasmissione orale prima di giungere alla redazione scritta, la quale ha avuto poi delle successive manipolazioni. Resta però il fatto che la Didaché sintetizza elementi consistenti dei Vangeli stessi, soprattutto in relazione al comportamento dei fedeli e ai suoi doveri morali e spirituali. Questa specie di manuale didattico si inserisce nella religione ebraica senza scontrarsi con essa, ma anzi cogliendone spunti significativi. Si apre con la definizione dei due ambiti del bene e del male, descritti come due vie: “Due sono le vie, una della vita e l’altra della morte….”. E si annunciano poi i punti essenziali dell’una e dell’altra, molti dei quali già presenti nella tradizione giudaica, altri invece più innovativi e propri del Cristianesimo.
Lo spirito di questo insegnamento era tuttavia abbastanza diffuso nel mondo antico. Alcuni principi erano entrati già nel sentire di molti che inconsapevolmente ne avevano assimilato l’originalità, o forse piuttosto l’intensità interiore. Delle antiche religioni d’Oriente erano giunte senz’altro lente e mediante risonanze attraverso i mercanti che per secoli avevano percorso, partendo dalla Cina, la via della seta fino al Mar Caspio, al Mare d’Aral, e per tutta la Siria e la Palestina fino al Mediterraneo. Qui le attese, i suggestivi incitamenti spirituali si erano stemperati nelle credenze già esistenti, nutrendo tuttavia un’aspettativa sempre più eccitata e profetica verso una presenza liberatrice. Così, se nella Didaché si parla di due vie, anche Buddha parla di vie diverse per raggiungere l’illuminazione: ad esempio, Buddha esorta i fedeli a comportamenti elevati. Raccomanda: “Evitate ogni male, cercate il bene…. È per soddisfare i propri desideri che gli uomini lottano e si combattono tra loro”. Nella Didaché, e ancor prima nei Comandamenti di Mosè, si trovano simili suggerimenti. Poi ecco, invece, le parole nuove, eco delle Beatitudini: “Al contrario, sii mite, perché i miti erediteranno la terra”.
Così, gradualmente, le sinagoghe, i quartieri popolari delle città, le case patrizie dell’Occidente e dell’Oriente conoscono un popolo nuovo, diverso, che vive una propria vita spirituale, obbedisce alle leggi politiche e sociali dei paesi in cui vive ma ha proprie leggi interiori, proprie convinzioni spirituali che spesso sono diverse da quelle vigenti; è come un fiume che gradualmente staripa, invadendo territori e regioni in modo incruento, ma via via modificando gli atteggiamenti, le mentalità, rielaborando e trasformando le idee. Più tardi, i maestri del pensiero cristiano occidentale, e soprattutto San Tommaso, riprenderanno i principi del ragionamento antico, l’elaborata filosofia greca, le indagini e le interrogazioni intorno all’esistenza del mondo e dell’uomo e vi inseriranno la linfa fresca e potente di questa nuova identità ponendo le fondamenta del pensiero occidentale, le cui radici affondano nella perennità secolare della ricerca umana, partendo addirittura dalle più remote regioni del mondo.
Le prime comunità cristiane, insediatesi in territori che non erano più luoghi d’origine ebraica, crearono in tal modo una sorta di compendio che conteneva anche i testi di preghiere per le varie occasioni, prime tra tutte il Padre Nostro, concludendole così come Gesù aveva raccomandato ai suoi discepoli, con l’Amen, di cui la Didaché offre un embrionale esempio, aggiungendo anche l’invocazione aramaica  Maranatha, con cui chiude anche l’Apocalisse di Giovanni, e che significa: “O nostro Signore, vieni!”
Poi, per rendere più solenne la riunione e l’invocazione, dovettero abbinare una prima forma di canto, principalmente una salmodia, eseguita da un cantore, mentre i fedeli concludevano in coro con l’Alleluja, antico grido del popolo d’Israele, o con l’Amen. Nelle prime riunioni ecclesiali si ascoltavano così questi primi responsori, primo e originario elemento del canto cristiano. Le ramificazioni dell’espansione cristiana sono poi sempre più estese, nasce il bisogno di raffigurare con bassorilievi, sculture, pitture murali e poi dipinti sempre più perfetti e fastosi le scene principali della vita di Cristo, le scene bibliche più ricorrenti, spesso figura di quanto si narra nei Vangeli, e i principali sacramenti, tra cui il centro di tutta la vita cristiana, cioè l’Eucarestia.
Tutta la storia dell’arte si svolge e si sviluppa in Occidente su questi temi del sacro, che coinvolgono del resto la vita e la morte, il bene e il male, la disperazione e la speranza. E la piccola, ridotta e sinteticissima orditura pedagogica della Didaché è come lo spunto per un insegnamento che si arricchisce via via, con il tempo, di ulteriori perfezionamenti, di approfondimenti, di nuovi apporti che formano il ricco complesso della Tradizione, cioè il cammino di crescita del Cristianesimo attraverso la storia.


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