venerdì 30 marzo 2018

ZHANG DALI


Zhang Dali

Meta – Morphosis


“Tutte le mie opere hanno una stretta relazione con la realtà che mi circonda”
(Zhang Dali)
Si è aperta a Bologna nella sede di Palazzo Fava, Meta-Morphosis, la prima mostra antologica di uno dei più noti artisti cinesi contemporanei, che a Bologna arrivò nel 1989 dopo i drammatici fatti di Piazza Tienanmen, rimanendovi fino al 1995.
Organizzata da Fondazione Carisbo e Genus Bononiae. Musei della Città, la mostra curata da Marina Timoteo (catalogo Bononia University Press) racconta la trasformazione storica, sociale ed economica della Cina degli ultimi trent’anni.

Pittore, scultore, performer, fotografo, padre della graffiti art in Cina, la definizione che meglio inquadra Zhang Dali è quella di street artist per l’irriducibile volontà della sua arte di cercare un dialogo con tutti gli elementi – umani ed architettonici, corporei ed incorporei – che permeano lo spazio urbano. I suoi lavori esposti nelle più importanti gallerie e musei di tutto il mondo – dal MoMa di New York alla Saatch Gallery di Londra allo Smart Museum di Chicago – sono frutto di uno sguardo profondamente umano e partecipe sulla Cina contemporanea e le sue contraddizioni, sui rapidissimi cambiamenti che la crescita esplosiva del capitalismo ha portato con sé, delle contradizioni di vita dei lavoratori ridotti alla serialità, all’urbanizzazione selvaggia che cementifica la tradizione.

Il titolo della mostra – Meta – Morphosis – è un esplicito riferimento all’essenza stessa dell’arte di Zhang Dali, un segno di riconoscimento che lo distingue da tutti gli altri artisti cinesi suoi contemporanei: arte che tenta di rappresentare i momenti della Cina a partire dallo status dei lavoratori che hanno pagato il prezzo più alto della transizione al capitalismo, “Realismo estremo”, quello di Zhang Dali – secondo la fortunata espressione di Yu Ke, caporedattore del mensile Contemporary Artist e professore alla Sichuan Academy of Fine Arts – in quanto artista che si fa interprete del dovere dell’arte contemporanea di esprimere il dubbio sulla brutalità che permea la vita.


Nove sezioni in cui sono raggruppate le 220 opere selezionate, tra sculture, dipinti, fotografie e installazioni, che spaziano nell’imponente produzione artistica di Zhang Dali. L’esposizione, ospitata nelle splendide sale di Palazzo Fava, affrescate dai Carracci, si apre con la serie di dipinti Human World, che Zhang Dali dipinge negli anni Ottanta, sul finire del periodo di studi all’Accademia Centrale di Arte e Design di Pechino: dipinti ad olio su carta in rosso, nero e bianco in cui dettagli figurativi si mescolano a una rappresentazione onirica, frutto del desiderio di sperimentazione dell’artista in un’ottica di contaminazione tra arte orientale ed occidentale.

La rapidità dei cambiamenti urbanistici della Cina contemporanea, le macerie che fanno spazio alla modernità cancellando il passato sono al centro del ciclo di fotografie Dialogue and Demolition: sulle rovine delle costruzioni abbattute dalla furia della crescita urbana Zhang Dali traccia per anni, a partire dal 1995, il profilo del suo volto, utilizzando l’arma clandestina dei graffiti appreso a Bologna: un tracciato che, demolito, diventa finestra, rivelando il disturbante contrasto tra Cina tradizionale e l’epoca contemporanea, e i costi della modernizzazione sul patrimonio storico e culturale.

In mostra anche il ciclo One Hundred Chinese, realizzato tra il 2001 e il 2002, documentario veritiero sulla condizione del popolo nel nuovo millennio, con la rapida globalizzazione del paese: le sculture, calchi di persone reali, diventano specchio di esistenze solo apparentemente ricche e privilegiate, in realtà stritolate dai ritmi della modernizzazione.

E ancora grandi dipinti della serie AK-47 e Slogan: nei primi la sigla del kalashnikov, simbolo universale di guerra e sopraffazione, compone ritratti di uomini e donne, svelando la violenza quale elemento integrante e tessuto connettivo delle esistenze.
Nei secondi gli ideogrammi che compongono gli slogan della Repubblica Popolare rivelano, grazie alle variazioni di scale cromatiche, le foto-segnaletiche di uomini e donne dal volto impassibile, privo di qualsiasi segno di gioia o dolore. Volti anonimi quanto gli slogan, appiattiti in una massa umana indistinta.


La violenza lascia spazio al silenzio e alla pace quasi metafisica nella serie World’s Shodows, realizzata con l’antico processo fotografico della cianotipia, che disegna su tela di cotone o carta di riso delicate ombre umane, animali e vegetali; una scintilla di eterno che si ritrova nelle grandi statue antropomorfe in marmo bianco (Hanbaiyu) a grandezza naturale della serie Permanence, in cui corpi di persone comuni, lavoratori, migranti, scolpiti nel materiale delle statue degli dei e degli eroi, il marmo, attingono al sublime che esiste in ogni singola esistenza.



La storia torna prepotentemente nei 100 pannelli della grandiosa serie A Second History, nei quali attraverso materiali d’archivio collezionati in sette anni Zhang Dali rivela impietosamente la sistematica manipolazione delle immagini operata dal regime a fini propagandistici degli anni dal 1950 al 1980.



Il percorso si chiude con la monumentale installazione Chinese Offspring, serie di sculture colorate in vetroresina dei mingong, i lavoratori strappati dalle campagne per diventare parte del fagocitante meccanismo produttivo della Cina post-maoista.
Una selva di sculture appese a testa in giù, a significare la mancanza di controllo che queste persone hanno sulla propria vita: una riflessione di devastante impatto sulla presente condizione di un popolo diventato ingranaggio di una macchina sulla quale non ha controllo.





Maria Paola Forlani

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