venerdì 2 marzo 2018

STATI D'ANIMO


Stati d’animo

Arte e psiche
Tra Previati e Boccioni


“Le forme cominciano a parlare come musica,
 i corpi aspirano a farsi atmosfera, spirito e
il soggetto è già pronto a trasformarsi in istati
d’animo”.


Sono parole scritte da Umberto Boccioni a commento della nuova arte che usciva dalle tele di Gaetano Previati e in questo cruciale passaggio c’è l’incipit della mostra aperta a Palazzo dei Diamanti dal titolo “Stati d’animo. Arte e psiche tra Previati e Boccioni”, aperta fino al 10 giugno, a cura di Chiara Veronesi, Fernardo Mazzocca, Maria Grazia Messina, il cui percorso segue l’alfabeto delle emozioni.
Nella rassegna viene infatti indagato per la prima volta la poetica degli stati d’animo e con essa uno dei fondamentali apporti del nostro paese all’arte moderna. Dipinti manifesto come Ave Maria a trasbordo di Giovanni Segantini, Maternità di Gaetano Previati, il trittico degli Stati d’animo di Umberto Boccioni e altri importanti opere d’arte italiana e internazionale tra Otto e Novecento, conducono i visitatori in un viaggio nei territori dello spirito.

Il percorso inizia con una selezione di ritratti e di altre opere emblematiche che mostrano come, in quel magma in ebollizione che è la cultura italiana ed europea degli ultimi decenni dell’Ottocento, gli artisti siano innanzitutto impegnati a rompere gli schemi della rappresentazione e a sviluppare modalità inedite per catturare la vitalità dei soggetti e svelarne l’interiorità, con il preciso intento di avvicinare e coinvolgere l’osservatore.

L’approccio iniziale con i visionari parte da autori del Decadentismo – con le loro discese agli inferi attuate con satanico fervore o con le loro estasi mistiche – forniscono così i mezzi indispensabili per penetrare nello spirito degli ultimi decenni del secolo XIX e del suo prolungamento nel XX secolo: per intenderne cioè l’<<altro>> volto, quello della pittura realista o impressionista.
Quando Redon afferma che egli vuole porre la logica del visibile al servizio dell’invisibile, anticipa il lucido proponimento di Klee secondo cui <<l’arte non riproduce il visibile, ma rende visibile l’invisibile>>.
Non è a caso facile individuare forti parallelismi spirituali – e anche linguistici – individuabili fra le opere di questi artisti e la letteratura simbolista o comunque estetizzante.

La visionarietà di taluni poeti non è di tratto troppo diverso da quella delle raffigurazioni artistiche. Ѐ l’elemento allucinatorio che vincola le une alle altre, sia esso portato nel terreno dei rapporti erotici, trascinando con sé un <<cortese>> di tipo dandystico, o sia destinato ad accentuare un rapporto fra l’io e l’universale oppure fra l’io e la società e i suoi istituti: il filo allucinatorio che non si spezza serpeggia attraverso la terribilità, febbrile, quanto logica, di Edgar Allan Poe, la <<Ballata della prigione di Reading>> di Oscar Wilde, le tensioni liriche di Rimbaud e le magiche atmosfere di Laforgue, di Rodenbach, di Hauptmann, di Hugo von Hofmannsthal e di Gabriele D’Annunzio, venate dall’alito congiunto dell’amore e della morte. A tutto questo si deve aggiungere la profonda suggestione che negli ultimi decenni del XIX secolo ebbero a esercitare l’opera di Wagner e le teorie di Nietzsche.
Una delle immagini più ricorrenti nella cultura fin de siècle è la melanconia. Nelle sue diramazioni in campo letterario e artistico, così come in ambito psicologico, questo stato d’animo si carica di valenze simboliche fino a rappresentare la metafora della condizione precaria che caratterizza l’uomo moderno e una civiltà minacciata dalla tara della “degenerazione”. Tra gli artisti attivi in Europa, nessuno ha saputo interpretare questo tema con maggiore sensibilità di Edvard Munch.

La melanconia è anche il tema di un capolavoro di Pelizza da Volpedo, il Ricordo di un dolore. Come accade per le eroine dei romanzi naturalisti e scapigliati (da Zola a Tarchetti, Capua, Fogazzaro), anche in pittura la messa in scena di un lutto si arricchisce di valenze extrasensoriali e simboliche: è ciò che si osserva in questo ritratto in cui l’artista ricerca una vividezza fotografica.

A partire dalla fine degli anni Ottanta, torna in voga il tema della maternità associato a quello dell’albero della vita in una eccezione più o meno secolarizzata del mito cristiano. Il rinnovato interesse per questi soggetti è sollecitato sia dagli studi di psicologia e psicofisiologia, sia dalle correnti spiritualistiche fin de siècle alimentate dalla riscoperta di Schopenhauer.


Ne sono espressione con esiti formali molto diversi la monumentale Maternità di Previati (1891) e l’Angelo della vita di Segantini (1894). La prima tela spicca idealmente al centro del racconto della mostra poiché ne incarna uno snodo fondamentale. Al suo apparire, l’opera di Previati fece scalpore, attirando aspre critiche ma anche importanti riconoscimenti. A colpire furono il suo carattere antinaturalistico e decorativo, la resa smaterializzata delle forme attraverso la tecnica divisionista e la composizione ritmata delle figure, che rimanda a un andamento musicale. Essa costituisce il primo tentativo, in Italia, di suggerire uno stato d’animo attraverso le componenti formali dell’opera, piuttosto che tramite una sua rappresentazione descrittiva.



Al misticismo di Previati, Segantini contrappone <<il senso vivo della natura>> che palpita nella sua <<dea madre>> e la sua salda fede nella <<trinità dello spirito: per essa sarà religione e musa l’evoluzione cosmica, guida scienza, fonte d’ispirazione il sentimento alto e sereno della natura>>. Quantunque tali posizioni possano apparire distanti, sono collegate dal credo nell’apporto della scienza e al contempo nelle possibilità messianiche dell’arte.

A raccogliere e rilanciare la sfida del rinnovamento in una chiave decisamente moderna sono i futuristi. L’epilogo della mostra è dedicato al memorabile passaggio del testimone, tra i maestri moderni e i giovani fondatori di un rivoluzionario linguaggio d’avanguardia grazie al quale le dinamiche complesse e multiformi dell’esperienza contemporanea sono poste al centro della creazione artistica.


La prima delle ultime sale del percorso è dedicata alla dimensione intima delle relazioni affettive. Il trittico degli Affetti di Giacomo Balla è posto a confronto con sculture in cera e bronzo e fotografie di Medardo Rosso per proporre un dialogo, tra tecniche diverse, sull’impiego delle dinamiche luminose e della densità atmosferica come mezzo per esprimere la condizione affettiva. Il rapporto con la tecnologia ha in queste prove un segno esclusivamente positivo, come testimonia l’utilizzo della fotografia come medium creativo da parte di uno scultore, o l’effetto fotografico della pittura di Balla, che guarda anche un artista culto dell’avanguardia francese quale Eugéne Carriére.

L’ultima sala si ricollega infine alle questioni aperte nell’introduzione che sono al centro delle poetiche moderniste: riscattata dalla sua dimensione alienante, la Metropoli industriale è ora ribaltata in mito di modernità e nella sua dimensione collettiva si esprime una rinnovata istanza di coinvolgimento dell’osservatore, catturato nella dinamica emotiva della folla.



Nella prima versione del Trittico degli Stati d’animo, capolavoro di Boccioni del 1911, le sensazioni generate dall’esperienza urbana nella città moderna sono elette a soggetto stesso dell’opera. Nell’ambito di una radicale revisione linguistica che si spinge verso l’astrazione. La pennellata allungata, che Boccioni trae degli esempi da Munch e Previati, evolve nella rappresentazione di un flusso psichico. Anche nella Risata, Boccioni dà forma plastica ad una dimensione sensoriale e psicologica,
materializzando l’energia sonora di uno scoppio di risa che sembra propagarsi in maniera inarrestabile, tra tavolini, calici e piume, sui volti degli ospiti di un caffè concerto. Con La stazione di Milano di Carlo Carrà, l’esplorazione dello spazio rivela già un interesse per la decostruzione delle forme adottata dai cubisti, con cui i futuristi si confrontano alla fine del 1911. L’impalcatura elicoidale dell’opera coinvolge e attrae l’osservatore verso il centro della composizione coerentemente con la dichiarazione del Manifesto tecnico della pittura futurista: <<Porteremo l’osservatore nel centro del quadro>>.


Maria Paola Forlani








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